Giuseppe Russo
Avanti.it
Da diverse settimane a questa parte si sta gonfiando una bolla mediatica per promuovere la candidatura di Letizia Moratti alle prossime elezioni regionali lombarde, che si terranno, contemporaneamente a quelle previste nel Lazio, fra la fine di febbraio e l’inizio di marzo dell’anno prossimo. Una scialba storiella di dimissioni di assessori e rimpasti di giunta, buona al massimo per riempire le pagine di cronaca locale e alimentare i dibattiti fra le sempre più ristrette cerchie di “addetti ai lavori”, è stata trasformata in un caso di interesse nazionale in virtù di una campagna orchestrata ad arte da pezzi dello stato profondo. La Moratti, che prima di acquisire il cognome del marito petroliere, di cui è rimasta di recente vedova, si chiamava Letizia Maria Brichetto Arnaboldi, già esponente del berlusconismo di governo in qualità di presidente della RAI, ministro dell’istruzione e sindaco di Milano, era stata nominata vicepresidente della giunta regionale lombarda, guidata dal debole leghista Attilio Fontana, nel gennaio 2021, rimpiazzando inoltre nella carica di assessore al welfare l’esponente di Forza Italia Giulio Gallera, defenestrato dopo essere stato travolto dagli scandali legati alla gestione della prima fase della pandemia ed al controverso trasferimento dei pazienti dagli ospedali alle residenze per anziani. Ottenendo anche le deleghe alla gestione della campagna vaccinale e guadagnandosi così, già in tempi non “sospetti”, una sfilza di prime pagine, Letizia Moratti ebbe modo di esordire nell’incarico mettendo la Lombardia in “zona rossa” e rivendicando poi per la sua regione la priorità nella distribuzione dei vaccini a causa del contributo dato al sacro PIL nazionale. All’epoca, in base ai “retroscena” spifferati oggi nel quadro della campagna di cui sopra, la Moratti sarebbe stata persuasa ad accettare il posto in giunta poiché la Lega le avrebbe promesso la candidatura alla presidenza, nel quadro di quell’asse con Forza Italia che andava profilandosi prima delle urne allo scopo di bilanciare lo strapotere meloniano nel centrodestra. Successivamente, Salvini si sarebbe rimangiato la promessa, da barbaro qual è, facendo sì che Letizia Moratti iniziasse a far trapelare i suoi “malumori” a mezzo stampa. Il “tradimento” del leader della Lega avrebbe poi acquisito un nuovo spessore in occasione della formazione del nuovo governo, quando Salvini ha accettato per il suo partito un ruolo di subalternità a Fratelli d’Italia in cambio di qualche poltroncina da sottosegretario, rompendo il patto preelettorale che sarebbe stato stipulato con Licia Ronzulli ed innescando così la spirale di follia berlusconiana del putinismo alla vodka. Proprio i primi passi del nuovo esecutivo in fatto di politica sanitaria hanno fatto da pretesto affinché la Moratti potesse consumare la sua rottura con il centrodestra, dando le dimissioni dalla giunta di Fontana il 2 novembre (al suo posto è andato Bertolaso: si son giocati il carico) e “lanciando” parallelamente la sua creatura politica, che dovrebbe chiamarsi “Polo civico – Lombardia migliore”. La campagna elettorale parte dunque per lei con parecchie settimane di anticipo rispetto agli altri candidati, e parte all’insegna della solita fuffa: nell’universo parallelo messo in piedi dai giornali che stanno perorando la causa di “Moratti for president”, vi sarebbero centinaia di migliaia di cittadini lombardi indignati per il reintegro dei medici non vaccinati negli ospedali: costoro costituirebbero una “rete civica” che, tramite le solite, fantomatiche “associazioni”, avrebbe implorato Donna Letizia di mettersi a capo di un “fronte del buongoverno” che è ancora più fantomatico delle “associazioni” stesse. Le prime uscite da aspirante governatrice della Moratti sono state rivolte proprio a questo popolo di borghesi indignati: a suo dire, il governo Meloni avrebbe preso “provvedimenti contraddittori in materia di lotta alla pandemia”, esprimendo pure una “diversa sensibilità sull’importanza dei vaccini”, e tutto questo l’avrebbe indignata a tal punto da farle mollare il posto in giunta e tutto il cucuzzaro del centrodestra, all’ombra del quale aveva consumato tutta la sua esperienza politica. Quindi, forse imbeccata dal neoassunto “guru” delle campagne elettorali Daniel Fishman, lo stesso che fermò il fascismo in Emilia-Romagna “fighizzando” Bonaccini, Letizia Moratti è salita sulle barricate arcobaleno, dichiarando che “questa destra, a furia di alzare muri, ci chiude in un recinto”. Nuove, ineffabili dimensioni di vacuità sono state raggiunte quando Donna Letizia si è cimentata con la politologia, sostenendo l’esigenza di una “sintesi innovativa fra riformismo e pragmatismo” (dove il “riformismo” sarebbe quello del PD e cespugli, il “pragmatismo” sarebbe il suo) e propinandoci l’ennesima suggestione resistenziale: evocando il ricordo di suo padre, Paolo Brichetto Arnaboldi, che fu “partigiano bianco”, ha detto che in Lombardia, per battere la destra che alza muri e costruisce recinti bisogna fare come durante la Resistenza, in seno alla quale convivevano, nel revisionismo morattiano impregnato di cancel culture, “riformisti”, “liberali” e “socialisti” (e i “pragmatisti”?).
Sul carro morattiano sono immediatamente saliti, come da copione, Renzi e Calenda: la lista da loro presentata alle ultime elezioni rappresenta il primo tassello di un progetto ambizioso, quello di “macronizzare” la politica italiana spostandone l’asse “al centro”, cioè in quel “non luogo” della politica in cui l’obbedienza ai diktat dei poteri d’oltralpe, oltremanica e oltreoceano è assoluta, senza trattative, mercanteggiamenti, pulsioni “populiste”. Tale progetto, che prese forma una prima volta già nel 2013 intorno a Mario Monti ed alla sua Scelta Civica (non è casuale che l’aggettivo “civico”, svuotato di ogni significato, ricorra anche nel “Polo” fondato dalla Moratti, e che “civico” fosse pure l’Impegno del già dimenticato Giggino Di Maio che voleva, meschino, inzuppare il biscotto nella stessa zuppa) è supportato da una campagna di stampa attraverso la quale si costruisce una “narrazione” intorno a Donna Letizia ed alle elezioni lombarde, di cui, com’è facile supporre, alle masse importa assai poco. In prima fila, a fare il loro sporco lavoro, le articolazioni mediatiche delle agenzie di intelligence come Dagospia e Il Foglio, con il primo che sforna una serie ravvicinata di “dagoreport” nei quali, oltre a sbertucciare il PD di Enrico Letta per il suo antimorattismo di principio, si dà vita ad una rappresentazione della realtà in base alla quale la Moratti avrebbe la vittoria in tasca, coi sondaggi, il “guru” americano e tutto il resto, e sarebbe sul punto di “seppellire il tonitruante Salvini” facendo sloggiare il suo uomo dalla regione che fu culla del suo partito. Secondo uno di questi “dagoreport”, infatti, “I sondaggi parlano chiaro: la lista Moratti è data al 12%, un listino eco-green di Sala viaggia tra il 6-8%, Azione di Calenda veleggia intorno al 15%. Nella più rosea delle proiezioni, c’è già in cascina un 35% di consensi.”. Chiaramente, non esiste alcun “listino eco-green” del sindaco di Milano Beppe Sala, che viene considerato il “pontiere” fra il PD e il morattismo, Azione non prende il 15% neanche a casa di Calenda e, soprattutto, è da escludere categoricamente che vi siano moltitudini frementi appresso a questa messa in scena, casalinghe di Voghera che non vedono l’ora di votare “la lista Moratti”, maestri di Vigevano che rispondono alle telefonate dei sondaggisti dicendo che voterebbero per Donna Letizia anche contro il Padreterno, pompieri di Viggiù che sognano “una sintesi innovativa fra riformismo e pragmatismo”. In posizione più defilata, supportano il progetto il Domani diretto dall’enfant prodige bilderberghista Stefano Feltri (per il quale l’occasione offerta dalla candidatura Moratti rappresenta per il PD “un esame di riparazione“), Il Riformista, sempre sensibile al richiamo della foresta (per il giornale di Sansonetti Donna Letizia è “la manager con la ruspa che può sgomberare Salvini“) e, con lo stile sobrio che gli è proprio, pure il Corriere, che di quella borghesia lombarda oggi indignata sarebbe lo storico portavoce. La campagna, nel suo complesso, mira fra le altre cose a suggestionare il petaloso elettorato del PD: il povero Enrico Letta, che vorrebbe solo tornarsene a quel paese, viene chiamato “merluzzo” o descritto come affetto da “tafazzismo”, mentre a proposito della Moratti si evidenzia che non avrebbe mai preso la tessera di Forza Italia (pur avendo ricoperto i suoi incarichi “in quota Forza Italia”) e che una volta il centrosinistra stava per candidare a sindaco di Milano Massimo Moratti, che non è il defunto marito di Letizia ma il fratello, che assieme alla moglie Milly è sempre stato con l’altra sponda, anche negli anni in cui la cognata era sindaco.
Una prima plastica rappresentazione del morattismo, avanguardia della “macronizzazione” galoppante, c’è stata alla manifestazione “a favore del popolo ucraino” tenutasi a Milano il 5 novembre scorso, quella con le bandiere della NATO che garrivano intorno al faccino di Calenda. Fra i partecipanti, anche Carlo Cottarelli, che sarebbe il più accreditato a correre per il PD alla guida della regione, contro la Moratti secondo i dirigenti locali e nazionali, in ticket con lei secondo i più “pragmatici”, come i franceschiniani o gli orfani del renzismo raccolti intorno a Lorenzo Guerini. Altre schegge di un partito ormai balcanizzato ripescano dal cilindro le primarie, altre ancora tirano per la giacca il recalcitrante Giuliano Pisapia, che detronizzò proprio Letizia Moratti da sindaco di Milano nel 2011. Sullo sfondo, la partita per le regionali nel Lazio, dove renziani e calendisti appoggiano la candidatura dell’assessore uscente alla sanità Alessio D’Amato, uno dei più zelanti adepti del verbo covidista, ex rifondatore del comunismo convertitosi al “centrismo”, mentre la “sinistra” piddina spinge per una (improbabile) alleanza con il Movimento 5 Stelle. La realtà è che il riassetto del quadro politico italiano passa attraverso lo smembramento del PD, esattamente come è accaduto al Partito Socialista Francese, dissanguato da destra dal macronismo e da sinistra da La France Insoumise di Melenchon (e il “Melenchon italiano” sarebbe Giuseppi Conte: stiamo a posto), e lo sanno bene tutti i dirigenti. Intanto, la sceneggiata va avanti, e nei prossimi mesi la beatificazione mediatica di Letizia Moratti raggiungerà vette inesplorate. Montino pure l’ennesima, stantia e soporifera fiction gli sceneggiatori al servizio dei Padroni del Discorso: il “Grande Centro”, o comunque vogliano chiamarlo, resta una cagata pazzesca.
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