Giuseppe Russo
Avanti.it
Alla fine, dopo una saga agostana piena di colpi di scena e di tavoli rovesciati e poi rimessi in piedi, Luigi Di Maio, per qualche giorno ancora ministro degli esteri, è riuscito a strappare l’agognata candidatura con quel che resta del “centrosinistra”, ovvero il campo ristretto a trazione piddina: sarà in lizza nel secondo collegio uninomale della circoscrizione Campania 1, quello di Napoli – Fuorigrotta che raccoglie i quartieri occidentali del capoluogo partenopeo. Il caso vuole che vada a giocarsi tutto, sul piano politico e persino esistenziale, proprio nei dintorni dello stadio che ieri si chiamava “San Paolo” e oggi si chiama “Diego Armando Maradona”; Di Maio deve infatti all’arena di Fuorigrotta una buona parte della dubbia fama che lo ha accompagnato in questi anni di irresistibile ascesa: la sua esperienza di “steward” (“presso la tribuna autorità”) ha fatto sì che gli venisse affibbiato il soprannome di “bibitaro” che lo ha seguito come un’ombra molesta pure durante i vertici internazionali. A dirla tutta, Di Maio sarà anche capolista di Impegno civico nei collegi plurinominali della Campania, oltre che in Calabria e in Sardegna, ma quelle che per altri sarebbero posizioni in grado di garantire una comoda elezione, rappresentano per lui solo cambiali da onorare al cospetto dei tanti ai quali aveva promesso un posticino al sole in occasione della scissione che aveva portato una sessantina di parlamentari fuori dal Movimento 5 Stelle. L’improbabile Impegno Civico, infatti, pur presente con le sue liste in tutta Italia senza raccogliere le firme in virtù dei magheggi parlamentari del compagno di avventura Bruno Tabacci, va incontro a un disastro annunciato: a dispetto delle roboanti dichiarazioni che accompagnano la campagna elettorale (per Di Maio la lista sarebbe ben oltre il fatidico 3%), se arrivasse all’uno per cento netto ci sarebbe da brindare a champagne. E così, i peones a caccia del terzo mandato che hanno seguito il “bibitaro” in quello che sembrava un sentiero luminoso, si ritrovano ora su un’autostrada verso il nulla.Tutto il goffo, paradossale, disperato agire del ministro degli esteri nelle ultime settimane ha il solo scopo di non condividere questa sorte: del resto, come ebbe occasione di dire all’epoca della scissione, quando pure il Corriere e la Repubblica lo dipingevano come uno statista di rango, “Uno non vale l’altro”.
Prima di approdare a Fuorigrotta, Giggino Di Maio ha fatto il giro d’Italia. Sulle prime, s’era ventilata l’ipotesi di piazzarlo in un collegio uninominale “facile” per il centrosinistra, come si fa con i leader dei partiti minori che si suppone fatichino a superare la soglia di sbarramento: lo stesso trattamento è stato del resto riservato ad Emma Bonino e Angelo Bonelli. E dunque si parlava di candidare Di Maio in Trentino (magari coi voti “sicuri” dei tirolesi della SVP, come era accaduto con la Boschi: sarebbe stato bellissimo), in Toscana o in Emilia – Romagna. A quel punto, mentre l’ombra di Giggino si allungava sulla Pianura Padana, i compagni del PD di Bibbiano hanno dissepolto quella famosa storiaccia che li riguardava da vicino. Nel 2018, un Giggino acerbo e non ancora statista aveva tuonato “Mai con il PD” attribuendo al partitone caro agli emiliani nefandezze rispetto a rapimenti di bambini ed elettroshock in riferimento proprio al “caso Bibbiano”. La vicenda ha permesso pure a Stefano Marazzi, segretario del PD bibbianese, di ottenere i suoi cinque secondi di celebrità; intervistato dall’ANSA, ha detto che “La comunità si aspetterebbe delle scuse dal ministro”. Nel frattempo, mentre Enrico Letta andava realizzando che di collegi “sicuri” per la sua coalizione ce n’erano sempre meno, pure i “dimaiani” si ribellavano, appellandosi alla necessità di candidarsi nel territorio di riferimento e non essere “paracadutati” altrove. Davanti a tutto questo nervosismo, è emerso che per assicurare il “diritto di tribuna” al ministro degli esteri tanto valeva candidarlo direttamente nelle liste del PD, come accaduto con l’altro ministro Roberto Speranza. In questa prospettiva, si sarebbe prodotta una situazione paradossale: le liste di Impegno Civico si sarebbero presentate agli elettori prive del loro leader, che a sua volta si sarebbe candidato in quelle di un altro partito. È stato allora che i peones di cui sopra, psicoalterati dalla frustrazione e consapevoli del fatto che Giggino, pur di non scendere dalla giostra, era disposto a sacrificarli tutti sull’altare di una lista farlocca, hanno minacciato di far saltare tutto e di costringere Impegno Civico al ritiro per mancanza di candidati. Per Di Maio sarebbe stato persino meglio: senza la zavorra di tutti quei carneadi da sistemare in qualche modo, il diritto di tribuna nelle liste piddine non gliel’avrebbe negato nessuno.
Perso il seggio emiliano per colpa del passato e quello nei ranghi piddini per colpa del presente, il futuro di Di Maio non poteva che passare da casa sua: alle elezioni del 2018 aveva trionfato in rappresentanza del Movimento 5 Stelle, con oltre il 60% dei voti, nel terzo collegio della circoscrizione Campania 1, quello che comprende undici popolosi comuni a Nord di Napoli, fra i quali la sua Pomigliano d’Arco. A rovinare tutto ci si è messo Giuseppe Conte, autentica nemesi di Giggino e bersaglio dei suoi più accorati strali polemici, il quale ha minacciato di candidarsi nello stesso collegio, lanciando al ministro degli esteri un arrogante guanto di sfida. Il pavido Giggino s’è messo quindi a cincischiare: il collegio in cui si sarebbe candidato sarebbe stato addirittura “secretato” per evitare che l’ex “avvocato del popolo” potesse stanarlo. I sondaggi, inoltre, erano impietosi: con i numeri attuali, di seggi “contendibili” per il centrosinistra in Campania ce ne sono pochi, e fra questi pare non ci sia quello di Pomigliano. E tutto questo nonostante di pomiglianesi il buon Giggino ne abbia sistemati parecchi. Di Maio è stato alfine dirottato sul collegio di Fuorigrotta, il più “borghese” della città di Napoli. Seminato Conte il guastafeste, avrà comunque un avversario VIP: la neocalendista Mara Carfagna.
E dire che Impegno Civico era nato sotto altri auspici e pure con un altro nome. Il 21 giugno scorso, sotto un fulgore di flash, nasceva “Insieme per il futuro” ed iniziava la breve luna di miele di Giggino coi mass media che tanto l’avevano avuto in uggia e che tanto avevano diffidato. Al termine della transumanza, i gruppi di Camera e Senato sono arrivati a contare 64 membri: numericamente, il più ampio processo di scissionismo parlamentare della storia della Repubblica. Politicamente, invece, il “nuovo” Giggino, se possibile ancor più inamidato e draghista della versione precedente, è stato adottato dal vecchio maestro di palazzo democristiano Bruno Tabacci, il quale, oltre a concedergli il simbolo del suo Centro Democratico per evitargli l’incombenza delle firme da raccogliere, lo ha presentato come “il più giovane dei miei figli”. Lo ha fatto il primo agosto, alla “kermesse” di presentazione del simbolo di Impegno Civico, come è stata infine ribatezzata la creatura dimaian-tabacciana. Il contrassegno in questione presenta il nome di Di Maio su sfondo arancione, quello di Impegno Civico su sfondo blu, l’ultraminiaturizzato emblema del Centro Democratico in alto e un’ape: popolarmente, è già noto come “Ape Maio”.
All’inizio pareva che magnifiche e progressive sorti arridessero al progetto politico di Luigi Di Maio da Pomigliano. Prima che il governo cadesse, s’era parlato di una partnership con il sindaco di Milano Beppe Sala, di cui sono note le ambizioni di scalata della politica nazionale. Nonostante incontri più o meno riservati, ammiccamenti e abboccamenti, nonostante la mediazione di Tabacci e di qualche altro maneggione, non se n’è fatto nulla. Pur mordendo il freno, Sala ha capito che accoppiandosi a Di Maio si sarebbe bruciato: un perfetto suicidio politico. E così, la campagna acquisti di Tabacci e Di Maio per le liste elettorali è proseguita in tono assai minore. Il nome più “pesante” fra i candidati è quello di tale Federica Gasbarro, studentessa universitaria ribattezzata “la Greta italiana” ed inserita nella lista dei cento giovani leader italiani del futuro della rivista Forbes Italia. Costei raggiunse il picco di notorietà nel 2019, dopo un selfie assieme a Greta Thunberg nel palazzo dell’ONU, in seguito al quale si trovò a partecipare a diverse trasmissioni televisive. La ragazza pareva sveglia, ma candidandosi con Giggino dimostra di non aver capito granché di come si sta al mondo. Chissà che fanno, nel frattempo, gli altri 99 giovani leader del futuro. Sul piano squisitamente “politico”, Impegno Civico ha reclutato appena due grotteschi relitti della Prima Repubblica: il PSDI di Mario Calì ed il Coordinamento dei Liberali, Repubblicani e Laici di Enzo Peluso. La prima sigla, una delle tre che rivendicano l’eredità del Partito Socialista Democratico Italiano di Saragat, ha ottenuto tre posti nelle liste di Impegno Civico nei collegi plurinominali, di cui uno in Toscana al segretario Calì. Costui fa le cose sul serio: di recente si è recato a Berlino per “riprendere il proficuo dialogo con i partner socialdemocratici”. Peluso, dal canto suo, un transfuga del già evanescente Partito Repubblicano Italiano, è riuscito addirittura a strappare una candidatura per tutta la coalizione nel collegio uninominale di Somma Vesuviana. A dire il vero, intese erano state raggiunte anche con movimenti più “moderni”, come il Partito Animalista Italiano. Dopo aver imbarcato nell’impresa il suo leader Cristiano Ceriello, questi si era però trovato immediatamente sfiduciato dagli altri membri, ed alla fine gli animalisti hanno preso un’altra strada, dando vita ad una lista assieme ai “no green pass” dell’Unione per le Cure, i Diritti e le Libertà di Erich Grimaldi ed al movimento 10 volte meglio, che rivendica la possibilità di presentarsi alle elezioni senza raccogliere le firme. Stesso esito hanno avuto le trattative con l’Agenda Nazionale Civica, aggregazione di un centinaio di sindaci di comuni medi e piccoli: il giovane e ambizioso ex sindaco di Cerveteri Alessio Pascucci sembrava a un passo dal diventare il “numero 3” di Impegno Civico, ma si è sfilato non appena ha capito che sulla scelta dei candidati non avrebbe toccato palla. Ad ogni modo, la strana coppia Di Maio – Tabacci è riuscita se non altro a strappare qualcosa al tavolo delle trattative con Enrico Letta: i candidati di coalizione che correranno nei collegi uninominali (con chance di elezione, a dire il vero, assai basse o quasi nulle) saranno quattro alla Camera ed uno al Senato: oltre a Di Maio, per Montecitorio ci saranno Vincenzo Spadafora a Casoria, Dalila Nesci a Vibo Valentia e Lucia Azzolina a Siracusa, mentre Davide Crippa sarà l’unico candidato per Palazzo Madama nel collegio di Giugliano in Campania. Tabacci, dal canto suo, è candidato nel collegio uninominale della Camera di Milano – Loreto. Tutti gli altri scissionisti della prima ora si ritrovano intruppati in liste bloccate senza avere alcuna possibilità di rielezione. E il bello è che non è neanche detto che Impegno Civico prenderà parte alle prossime elezioni politiche. Sulla partecipazione pende infatti la spada di Damocle di un ricorso presentato all’imprevedibile TAR del Lazio da tale Fabio Desideri, ex sindaco di Marino, nei pressi di Roma, e titolare, a suo dire, del nome “Impegno Civico”, avendo fondato nel 1994 un’associazione politica con questa denominazione che aveva pure ottenuto consiglieri comunali a Marino nel 1996, 2000 e 2003. Era insomma capitato che Tabacci, al quale si deve con ogni probabilità la paternità dell’operazione, avesse scelto una formula già in uso, seppur solo nella “piccola” politica: secondo una stima riportata dall’impagabile isimbolidelladiscordia.it, solo fra il 2019 ed il 2022 si sono presentate alle elezioni comunali 31 liste denominate “Impegno Civico”. Ora, è pur vero che trovare oggi nell’ambito della politica un nome degno che non sia già stato speso, consumato e sputtanato è un’impresa improba, ma è altrettanto vero che “Impegno Civico” rappresenta l’apoteosi della banalità, e merita in qualche modo di pagare dazio. La sentenza del TAR è prevista per il 14 settembre, a undici giorni dalle urne. Tabacci e Di Maio si dicono in buona fede: a loro dire, il nome prescelto si ispira a Papa Francesco ed al suo invito alla “responsabilità civica in politica”.
La campagna elettorale dell’ancora ministro Luigi Di Maio va avanti nel segno del draghismo e dell’aria fritta, fra ecologismo d’accatto e appelli “in difesa della libertà”; non avendo argomenti migliori, e dopo essersi speso il meglio del repertorio retorico negli attacchi a Conte ed alla “politica del no” del Movimento 5 Stelle, il ministro degli esteri ha preso a cimentarsi col canovaccio in voga presso la parte politica all’ombra della quale s’è acquattato: l’antifascismo manieristico, insinuante e pretestuoso. Una sintesi del suo pensiero al riguardo, con impareggiabile omaggio al Drago, suo mentore immaginario, è emersa già a metà agosto, quando ha avuto occasione di dire a proposito della Meloni: “ha rinnegato il fascismo, ne prendo atto, lo puoi dire in due, tre, quattro lingue, ma se ogni settimana devi rassicurare il mondo che non vuoi sfasciare l’Italia, è già un problema. Rischiamo di passare da Draghi, che rassicura con la sua sola presenza a Palazzo Chigi, a un’aspirante prima ministra che non ha ancora iniziato e già deve rassicurare il mondo”.
Ora che si consumano gli ultimi scampoli della parabola politica di Luigi Di Maio, è possibile anche constatare che il principale “successo” del suo “impegno civico” nelle istituzioni è stato il taglio dei parlamentari, riforma che ha finito per castigare, come un amaro contrappasso, le sue stesse velleità di restare nel Palazzo a qualunque costo. In effetti, c’è pure un altro traguardo che Giggino ama rivendicare, quello della “abolizione della povertà” tramite reddito di cittadinanza. Alla resa dei conti, ha puntato ad abolire in primis la sua. La verità è che già ora, per quanto possa sbraitare, Giggino Di Maio non fa più notizia, e non fa neanche più ridere. Pupetto minore del teatrino della politica capitato per irripetibili contingenze su scranni prestigiosi, questo parvenu 2.0 s’è pure illuso di essere una pedina non sacrificabile sulla scacchiera del sottopotere. Ma in questi casi, checché ne possa pensare lui, uno vale l’altro: morto un Giggino, ne fabbricheranno in serie intere legioni.
Koel dice
Ben scritto. Ho apprezzato la prosa più che il contenuto poiché non sono riuscito a identificare il soggetto. Di Maio chi?
Mario Paganini dice
Scritto arguto, pungente. Eh … Giggino è Giggino mentre io sono un c… Comunque ho apprezzato e mi è piaciuto moltissimo “L’impegno cinico di Giggino Di Maio”.
Elena muti dice
Perfetto