Giuseppe Russo
Avanti.it
Dopo almeno tre anni di irresistibile ascesa, è arrivato per Giorgia Meloni il momento di pagare dazio. Le migliori penne della stampa internazionale si sono accorte di lei ed hanno scoperto, dall’alto della loro sagacia, che la leader di Fratelli d’Italia è una fascista irredimibile. Per il New York Times, Giorgia Meloni sarebbe a capo di un partito di “estrema destra” che starebbe per guidare, fatto inedito storicamente, un paese dell’Eurozona; per il britannico Guardian è l’erede di Mussolini, senza troppi giri di parole; per il tedesco Tagespiegel la sua campagna elettorale procede a suon di adunate con tanto di saluto romano. Altri, in ordine sparso, abbaiano di “democrazia in pericolo”, oppure di possibile “deriva ungherese” per l’Italia. Proprio l’Ungheria è stata al centro dell’ultimo incidente diplomatico: il gruppo di cui fa parte Fratelli d’Italia all’interno dell’Europarlamento ha votato contro la condanna del governo di Viktor Orban, accusato di aver dato vita ad un “regime di autocrazia elettorale” e di rappresentare “una minaccia sistemica per i valori dell’UE”. A schierarsi contro la risoluzione anti-Orban, passata a larga maggioranza, sono stati il gruppo “Identità e Democrazia” (di cui fa parte la Lega assieme ai lepenisti del Rassemblement National) e quello “dei Conservatori e dei Riformisti Europei”, in cui il partito della Meloni si accompagna, fra gli altri, ai polacchi del PiS, il partito di governo conservatore e russofobo, ed agli spagnoli di Vox, la forza della destra cattolica in costante ascesa elettorale, tutti legami “pericolosi”: proprio la partecipazione di Giorgia Meloni ad un comizio di Vox aveva suscitato a giugno il proverbiale vespaio di polemiche. Con un candore che non ci si sarebbe aspettato, la leader di Fratelli d’Italia ha replicato alle accuse di supportare regimi antidemocratici sostenendo che “Orban ha vinto le elezioni più volte”, e che dunque “l’Ungheria è un sistema democratico”. Eppure, proprio lei dovrebbe averlo capito che vincere le elezioni, in un paese occidentale del XXI secolo, non basta, e in certi casi può addirittura essere d’intralcio.
E sì, perché Giorgia è una che ha fatto sempre i compiti a casa e, nel suo piccolo, ha pure goduto di ottima stampa: negli anni in cui, non ancora trentenne, muoveva i primi passi alla Camera dei Deputati, la Repubblica era solita rappresentarla come “la pischella della Garbatella” che tanto piaceva ai nonnetti del quartiere già “rosso” pur essendo una “fascia”. Quando poi fu nominata ministro della gioventù in un governo berlusconiano (allora ministro più giovane dell’Italia repubblicana, record poi polverizzato da Giggino Di Maio), venne fuori pure il rovescio della medaglia, e Giorgia Meloni si ritrovò protagonista di un fumetto satirico, La ministronza di Alessio Spataro, all’interno del quale veniva ritratta come una piccoletta che parlava in verace romanesco e viveva nelle fogne circondata da uno stuolo di topi in occhiali da sole. Il volume, che esprime una verve satirica a metà fra Il Male e il Vernacoliere, fu oggetto della condanna bipartisan della politica e di una campagna di censura che vide alcuni gruppi locali dell’allora PdL chiederne il ritiro da edicole e librerie, tacciando l’opera di maschilismo e misoginia. All’esaurirsi della vicenda, la giovane ministra si ritrovò con molti più amici rispetto a quelli che aveva prima, e la sua carriera, nonostante i successivi alti e bassi, ne trasse notevole giovamento. Da leader di Fratelli d’Italia ha saputo avvicinare, con i tempi e le modalità giuste, gli ambienti che contano, fino a coronare la sua lunga marcia con l’ingresso nell’Aspen Institute Italia, think tank che funge da ricettore degli ordini americani, nell’ambito del quale è stata promossa a junior fellow nel 2021. Negli anni Giorgia Meloni ha dato infinite prove di fede atlantista ed europeista, a dispetto di qualche posizione “sovranista” assunta strumentalmente quando si trattava di trovare la propria nicchia nel mercato elettorale. Sul conflitto in Ucraina ha mantenuto sempre la barra dritta, sposando in toto le posizioni dei neocon a stelle e strisce e suscitando gli apprezzamenti del Dipartimento di Stato, nonostante qualche sua improvvida dichiarazione di solidarietà a Putin di una manciata d’anni prima. Pur recitando nell’era Draghi il ruolo di leader dell’opposizione parlamentare, la Meloni, a detta dei giornali ben informati, ha instaurato con lui un filo diretto, ed i primi passi di un esecutivo da lei presieduto sarebbero mossi sotto la tutela del Drago stesso. Sulle “cose serie”, insomma, la fedeltà di Giorgia all’agenda è fuori discussione. Qualche smagliatura si produce su questioni marginali, come la “tutela della famiglia tradizionale” di cui Fratelli d’Italia sarebbe portabandiera: si tratta, alla resa dei conti, di pose elettoralistiche che al massimo si tradurranno in provvedimenti simbolici, e tutte le parti sono consapevoli che in un eventuale governo Meloni l’agenda sarebbe salva anche su questo punto. Marginali appaiono a loro volta le questioni sanitarie, sulle quali l’aspirante premier, già ispiratrice delle “Mascherine tricolori”, può permettersi qualche ulteriore “deviazione”, pronunciandosi per l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulla gestione della pandemia come una qualsiasi leader “no vax”, dopo aver appoggiato lockdown, campagne vaccinali e Green Pass (ed aver rimosso dai profili social i messaggi più compromettenti al riguardo). Con ogni probabilità, è solo in base ai sondaggi che ha assunto tale posizione, così come si era trovata ad assecondare il segregazionismo all’epoca del Conte II: lo scopo è sempre quello di massimizzare la prestazione nel mercato elettorale. Giorgia Meloni è pronta, sotto tutti gli aspetti, ad entrare nella stanza dei bottoni; sa bene che non ci troverà alcun bottone, ma si è premurata di farsi conoscere da quelli che quei bottoni li spingono. Inoltre, è pur sempre una donna, anche se non compiutamente femminista, e l’Italia è rimasto l’unico paese fra le (ex) potenze dell’Europa Occidentale a non aver mai avuto un capo del governo al femminile: nel Regno Unito hanno infranto il tabù nel 1979, in Francia nel 1991, in Germania nel 2005. La “pischella della Garbatella” potrebbe riuscire dove non sono riuscite Tina Anselmi, Nilde Iotti e Rosy Bindi.
C’è una parte d’Italia che resta fermamente convinta della “pericolosità” di Giorgia Meloni in merito al suo retaggio fascista ed alle sue velleità di riformulare la legge sull’interruzione di gravidanza. I comizi delle ultime settimane sono stati oggetto di contestazioni da parte di gruppi organizzati: si tratta degli stessi che fino all’altro ieri “turbavano” le iniziative di Salvini (e oggi non se lo filano manco di striscio, poveraccio). A Cagliari un contestatore con bandiera arcobaleno è riuscito a salire sul palco interrompendo l’intervento della Meloni, ma lei è stata abile a girare la situazione a suo favore, facendo un figurone. Temendo il peggio, Giorgia Meloni ha poi invocato l’intervento del ministro Lamorgese per impedire ai manifestanti di entrare in contatto con i militanti di Fratelli d’Italia; qualche giorno dopo, a Palermo la polizia ha caricato in due occasioni il gruppo di cinquanta contestatori che provava a entrare in Piazza Politeama, dov’era previsto l’evento elettorale. Il peggio, insomma, è comunque arrivato: per definizione, dove ci sono manganelli ci sono fascisti. Anche Enrico Letta ha provato, fuori tempo massimo come ogni sua mossa, a giocarsi la carta dell’antifascismo eterno per provare a sbarrare la strada alla valanga di Meloni che minaccia di travolgere la sua segreteria, ma è risultato poco credibile: lui e Giorgia si annusano e si stimano da tempi non sospetti, insieme hanno presenziato a presentazioni di libri e dato vita a pacati dibattiti sui “valori”, allo stesso tavolo attovagliati sono stati immortalati all’ultimo meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, proprio mentre sulla scena del teatrino politico scoccavano l’un verso l’altra frecce avvelenate a salve.
Definire “fascista” Giorgia Meloni non ha senso; al massimo, il partito da lei fondato nel 2012 custodisce ancora in qualche scantinato le vestigia del fascismo più nostalgico e macchiettistico, quello dei saluti romani da alticci e dei raduni a Predappio. Ogni tanto viene a galla qualcuno di questi feticisti del ventennio, del puzzone e del baffetto: l’ultimo si chiama Calogero “Lillo” Pisano, del quale sono state ripescate da un profilo Facebook defunto dichiarazioni inneggianti a Hitler. Pisano è stato immediatamente sospeso da Fratelli d’Italia, partito nel quale ricopriva la carica di coordinatore provinciale, ma con ogni probabilità entrerà comunque alla Camera dov’è candidato, visto che si presenta per tutto il centrodestra nel collegio uninominale di Agrigento. Questa nostalgia da operetta viene dunque tollerata finché non finisce sui giornali, allorquando si procede alle più rigorose epurazioni. Giorgia Meloni è in tutto e per tutto una leader politica del XXI secolo a vocazione servile e tecnocratica, e queste manifestazioni di folklore non possono causarle che imbarazzo. Ciò nonostante, è comunque nata politicamente nel secolo passato, pischelletta in mezzo ai “fasci” della Garbatella, e tutta la sua esperienza è maturata nel perimetro della destra postfascista, di cui ha attraversato le metamorfosi trovandosi sempre dalla parte giusta della corrente. Finiana ai tempi della trasformazione del Movimento Sociale in Alleanza Nazionale, (moderatamente) berlusconiana e berlusconizzata all’atto della fusione con Forza Italia e della costituzione del Popolo della Libertà, “scissionista” dallo stesso PdL quando, a fine 2012, si rende conto che quella sigla ha fatto il suo tempo e che la sua figura non rientra nei piani promozionali del Cavaliere. Da leader di Fratelli d’Italia, ha saputo poi costruire un partito a sua immagine e somiglianza che non si è mai posto come punto di riferimento della diaspora postfascista, puntando anzi a rimescolare le carte ed acquisendo alla sua causa berlusconiani storici come Guido Crosetto, eminenza grigia sin dalle prime battute, Raffaele Fitto ed Elisabetta Gardini, fino alle candidature di Giulio Tremonti e Marcello Pera alle elezioni del 2022. Fra i “colonnelli” che reggevano le sorti di Alleanza Nazionale negli anni ’90, sono rimasti al suo fianco solo Ignazio La Russa ed Adolfo Urso: acquisendo, alla fine del 2013, anche il diritto ad usare il simbolo della fu AN, Giorgia Meloni ha seppellito per l’ultima volta il cadavere politico di Gianfranco Fini. Dopo aver ottenuto il 2% scarso alle politiche del 2013, più del doppio a quelle successive ed il 6% alle europee del 2019, Fratelli d’Italia sarà con ogni probabilità il partito più rappresentato nelle prossime aule parlamentari, dando vita ad una delle più tumultuose avanzate elettorali della storia recente, analoga a quella della Lega di Salvini dei tempi belli, partito di cui la Meloni ha fagocitato l’elettorato, sopravanzandolo nei consensi anche al Nord. In quest’impresa, la “pischella della Garbatella” riuscirà laddove aveva fallito Gianfranco Fini, facendo della fiamma tricolore il simbolo più crocettato dagli italiani.
In ogni caso, altro che “fascista”: Giorgia Meloni è una donna in carriera, e sotto questa lente andrebbe interpretato il suo agire. Il caso ha voluto che la sua carriera si chiamasse “politica”. Di quali garanzie ancora hanno bisogno Mattarella, Biden e la von der Leyen? Giorgia è una di Loro, e non si capisce cos’altro debba e possa fare per dimostrarlo. Fosse solo per una breve stagione prima di bruciarsi le ali in un autunno-inverno socialmente rovente, sarà lei la prossima premier incaricata, e per mettere in piedi il futuro governo è pronta ad allearsi persino col PD. La bolla mediatica che ne ha determinato l’ascesa è già adesso sul punto di scoppiare. Ci sono treni che passano una volta sola, e a volte nemmeno quella.
Carlo dice
Perfetto condivido anche le virgole.