Giuseppe Russo
Avanti.it
Le elezioni politiche italiane del 2022 segnano un nuovo primato nell’astensione dal voto, che passa, rispetto alle consultazioni precedenti, da un quarto ad un terzo abbondante degli aventi diritto. Per ottenere riscontri peggiori in elezioni comparabili, bisogna guardare alle europee del 2019, quando l’astensionismo coinvolse il 45% del corpo elettorale. La disaffezione “conquista” altri quattro milioni di cittadini rispetto al 2018. Nonostante il mercato elettorale si fosse allargato fino ad abbracciare anche formazioni esplicitamente “antisistema”, la disillusione di massa ha preso il sopravvento, coinvolgendo tutte le classi sociali e tutte le famiglie politiche. La crisi della democrazia rappresentativa è più profonda di quel che molti supponevano, e l’astensionismo ne è solo un sintomo fra i tanti. Per citarne un altro, il PD ha rinunciato a presidiare i seggi coi suoi rappresentanti di lista, un po’ per strategia auto-dissolutrice, un po’ per carenza di vocazioni. La politica, oramai, è roba per pochi.
Il perverso meccanismo della legge elettorale ha fatto sì che sì presentassero al giudizio degli elettori due fantomatiche “coalizioni” più volte disconosciute dagli stessi componenti nel corso della campagna. Da un lato, il vincente centrodestra “scomponibile” a piacere in vista di futuribili equilibri di governo (“compromesso storico” Fratelli d’Italia/PD, coalizione “Ursula” con dentro tutti meno Meloni e Salvini), dall’altro il perdente centrosinistra in cui lo stesso Partito Democratico e l’Alleanza Verdi – Sinistra Italiana si sono più volte mandati bellamente a quel paese, sottolineando come l’accordo raggiunto fra le due forze fosse legato solo alla scadenza elettorale. Ad ogni modo, nei collegi uninominali erano le coalizioni (oltre alle liste “singole”) a presentarsi, ed a loro è andata la gran parte dei seggi. Alla Camera, il centrodestra a trazione Meloni conquista 121 collegi su 147, mentre 12 vanno al centrosinistra, 10 al Movimento 5 Stelle (tutti nell’Italia Meridionale), 3 agli autonomisti valdostani e sudtirolesi ed uno al sorprendente “Sud chiama Nord – De Luca sindaco d’Italia” fondato dall’ex sindaco di Messina nonché concorrente alle regionali siciliane svoltesi in concomitanza con le politiche. Al Senato, su 74 seggi assegnati col sistema uninominale il centrodestra ne prende 59, il centrosinistra 7, il Movimento di Conte 5, la Südtiroler Volkspartei due e Sud chiama Nord uno. Grazie a questi “bonus” acquisiti nella quota uninominale, il centrodestra, che rimanga o meno unito, godrà di una maggioranza solida in entrambi i rami del Parlamento: alla Camera si attesterà intorno ai 220 seggi su 400, al Senato otterrà fra i 110 e i 115 scranni sui 200 totali (escludendo dal computo i senatori a vita). Ad ogni modo, il voto “di coalizione” è meno significativo politicamente del voto di lista, ed è quest’ultimo che merita un’analisi dettagliata.
Fratelli d’Italia
Per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, il partito più votato viene dalla destra postfascista. Con gli oltre sette milioni di voti conseguiti, pari al 26% dei voti validi, Fratelli d’Italia ha vampirizzato la Lega e, in misura minore, i berlusconiani, andando a conquistarsi sul campo quel primato che i sondaggi gli attribuivano. Per fare un parallelismo storico a destra, Alleanza Nazionale toccò il suo picco elettorale nel 1996 con quasi sei milioni di voti, che allora, in virtù della maggiore affluenza, avevano un peso specifico maggiore. Rispetto al partito di Fini, il baricentro della destra si sposta al Nord, dove è più marcato l’assorbimento dell’elettorato leghista, mentre al Sud i meloniani arrancano subendo la concorrenza dei portatori di voti legati a Forza Italia. Per rendere l’idea, Fratelli d’Italia ottiene risultati superiori alla media nazionale in Lombardia e Veneto e molto inferiori in Campania e in Sicilia, mentre il Lazio resta un solido serbatoio di consensi. Sfondando anche le linee gotiche delle ex “regioni rosse”, ove il partito della Meloni guida il centrodestra ad uno storico sorpasso sulla coalizione a trazione piddina, il successo di Fratelli d’Italia può dirsi generalizzato. I voti rispetto al 2018 risultano quintuplicati: un dato che non ha eguali nella pur tumultuosa storia elettorale di questi ultimi anni.
Partito Democratico
Il PD, nella sua veste di “Italia Democratica e Progressista”, ottiene poco più di cinque milioni di voti, pari al 19% delle schede valide: percentualmente, un lieve incremento rispetto a quattro anni fa, corrispondente però ad una perdita secca di 800000 voti. Il partito tiene solo nelle “ZTL” di Roma e Milano e nelle ridotte di Firenze e dell’Emilia centrale. In nessuna regione raggiunge il 30%. Nel Meridione, gli stessi che votano Emiliano e De Luca nelle varie elezioni locali hanno votato, più o meno a tradimento, per il Movimento 5 Stelle. Enrico Letta ha perso nella maniera più disastrosa possibile, “regalando” pure agli alleati una buona parte dei (pochi) collegi uninominali “sicuri” rimasti in dotazione. Ora che Enrico sta per tornare in Francia, il “dibattito nel PD” tornerà a riempire le cronache politiche. Che il partito si sposti a “destra” piuttosto che a “sinistra”, che muti o meno forma in un’ennesima carnevalata, non fa differenza: resterà un pachiderma (seppur affetto da temporaneo rachitismo) al centro del sistema.
Movimento 5 Stelle
Il giocattolo a 5 stelle funziona ancora. Gran parte del voto antidraghista è andato al movimento “degrillizzato” messo in piedi da Giuseppe Conte, che ha saputo fondere populismo “ragionato” e populismo “puro”, battendo ossessivamente sul reddito di cittadinanza e accreditandosi anche come alternativa “di sinistra” al PD. Rispetto al 2018, il confronto è impietoso: il Movimento 5 Stelle lascia per strada sei milioni di voti; rispetto a come erano messi appena tre mesi fa, invece, il 15% del 25 settembre 2022 appare un piccolo miracolo politico. Come quattro anni fa, i pentastellati sono la lista più votata in tutte le regioni meridionali, con risultati maiuscoli nella provincia di Napoli. In quest’occasione, magari, i gruppi parlamentari sapranno essere più “disciplinati” del recente passato: è estremamente probabile che quei voti possano servire per una qualche maggioranza “Ursula”.
Lega
Il 9% scarso di Salvini (quasi due milioni e mezzo di voti rispetto ai cinque e mezzo del 2018) è una catastrofe. Mentre al Centro-Sud il partito va dissolvendosi, in quelle che furono le cittadelle padane sin dai tempi di Bossi la Lega si ritrova doppiata da Fratelli d’Italia, in barba ad ogni “autonomismo” residuo. A occhio, almeno un terzo dei leghisti nel prossimo parlamento saranno di tendenza “giorgettiana” e “draghista”, e dunque coinvolgibili alla bisogna in qualche manovra di palazzo. Salvini, dal canto suo, è un morto che cammina da un paio d’anni e potrebbe continuare a zombeggiare così, fra una felpa e un cappuccino, per un altro decennio.
Forza Italia
Il partito di Berlusconi dimezza i suoi voti rispetto al 2018 e con l’8% si piazza in quinta posizione. Ceduto in parte a Fratelli d’Italia e in parte al duo Calenda – Renzi l’elettorato “moderato” del Centro-Nord, in questa parte senile della sua parabola politica il Cavaliere regge solo nelle latitudini ov’è popolarmente noto come “Perluscone” o “Belluscone”, in una sorta di laurismo apocalittico il cui tratto fondante è la strafottenza: nel collegio di Marsala, in Sicilia, “Belluscone” ha fatto eleggere la sua attuale “moglie”, Marta Fascina, senza che questa abbia mai messo piede in loco.
Azione – Italia Viva
A un passo da Forza Italia, con poco più di due milioni di voti, il “grande centro” draghista di Renzi e Calenda. La lista resta al palo al Sud, ma sfonda presso l’elettorato borghese del Centro-Nord, erodendo consensi al PD anche nei capoluoghi “rossi”. L’opposizione starà stretta ai due fighetti, che entreranno di diritto in tutte le maggioranze “alternative”.
Verdi – Sinistra
L’alleanza fra Verdi e Sinistra Italiana raggiunge il milioncino di voti, supera agilmente il quorum del 3% e riesce a insediarsi nel Palazzo. A parole, Bonelli e Fratoianni si mostrano intransigenti oppositori del draghismo; nei fatti, il drappello di parlamentari “rosso-verdi” sarà ben lieto di aggregarsi a qualche maggioranza “antifascista”.
+Europa
Per un soffio +Europa non raggiunge il 3%: quasi ottocentomila italiani hanno barrato il simbolo riconducibile a Emma Bonino, ma i pessimi risultati conseguiti nel Sud e nelle isole hanno impedito alla lista di poter eleggere rappresentanti nella parte proporzionale. Nel maggioritario, invece, sono stati eletti Riccardo Magi e Benedetto Della Vedova, rispettivamente a Torino e Milano, ma non Emma Bonino, beffata nel suo collegio romano (con la candidatura di disturbo di Calenda) dalla carneade di Fratelli d’Italia Lavinia Mennuni. Allo stato attuale delle cose, la cara Emma non risulta eletta da nessuna parte, ma è stato chiesto un nuovo conteggio delle schede.
Le liste “antisistema”
Dei risultati delle tre principali liste “antisistema” si parlerà diffusamente in un articolo di prossima pubblicazione. In questa sede è importante sottolineare che, pur davanti al disastro politico rappresentato dalla frammentazione e dal mancato raggiungimento del quorum, ItalExit, Italia Sovrana e Popolare e Vita totalizzano assieme più di un milione di voti. I risultati più significativi vengono dalle grandi città del Nord o da alcune realtà periferiche come l’Alto Adige. Il partito di Paragone, che con oltre mezzo milione di voti (pari a quasi il 2%) è quello che ha ottenuto il risultato migliore, ha avuto riscontri lusinghieri nell’Italia centro-settentrionale, pessimi in quella meridionale e insulare. Difficile ottenere di più con un mese e mezzo di campagna elettorale, ma l’investimento in queste elezioni da parte delle forze “antisistema” è stato notevole, anche dal punto di vista emotivo, ed il riflusso minaccia di essere tremendo.
Impegno civico
L’impegno cinico di Giggino Di Maio finisce qua: non rieletto nel collegio di Napoli – Fuorigrotta, dov’è stato umiliato dall’ex ministro dell’ambiente e collega pentastellato Sergio Costa, il (per poco ancora) ministro degli esteri dovrà farsene una ragione e restare almeno un giro lontano dalla giostra che gli piace tanto, visto che la sua lista (che ha sfiorato il 6% nella natia Pomigliano) ha ottenuto appena 170000 voti, pari allo 0,6%. Il suo compagno d’avventura, invece, il vecchio volpone Bruno Tabacci, ce l’ha fatta, riuscendo a farsi eleggere in rappresentanza di tutto il centrosinistra in un borghesissimo collegio uninominale milanese. Un coro struggente unisce l’Italia in queste ore di disincanto: Giggì, nun ce lassà!
Bertozzi dice
Giggets the bibbiters don’t leave us!
Redazione dice
Grande Bertozzi! Un abbraccio