Giuseppe Russo
Avanti.it
Le elezioni regionali tenutesi domenica e lunedì scorso hanno fatto registrare un tasso di astensionismo che non ha eguali nella storia elettorale della repubblica italiana. Fra le due regioni coinvolte nelle consultazioni, la Lombardia ha visto una partecipazione del 41,7% degli aventi diritto, mentre nel Lazio i votanti sono stati appena il 37,2%, superando in quest’ultimo caso, seppur di poco, il precedente primato detenuto dall’Emilia-Romagna, alle cui elezioni regionali del 2014 (quelle che incoronarono per la prima volta Bonaccini presidente), svoltesi subito dopo uno dei soliti scandali, prese parte il 37,7% del corpo elettorale. Il paragone con le elezioni precedenti, che si svolsero nel 2018, appare arbitrario poiché allora si votò in concomitanza con le assai più “sentite” elezioni politiche; il dato, infatti, è impietoso (- 29,3% nel Lazio, – 31,4% in Lombardia), ed a nulla sono valsi gli appelli dei leader politici a recarsi alle urne (Meloni in primis) e la furbata del governo, che con un decreto passato alla chetichella aveva esteso anche alla giornata di lunedì (quando si è votato fino alle 15) l’apertura dei seggi elettorali proprio nell’auspicio di impedire che andassero deserti. Il raffronto più significativo appare quindi quello con le politiche dello scorso settembre, che pure avevano già fatto registrare un’astensione elevata: nel Lazio siamo a – 27,1%, in Lombardia a – 28,4%, che in numeri assoluti si traduce in oltre tre milioni di “disertori” fra le due regioni rispetto ad appena quattro mesi e mezzo fa.
Nel Lazio, regione che in passato aveva sempre visto contese risolte per pochi o pochissimi voti e che il PD considerava “contendibile” al centrodestra, ha stravinto Francesco Rocca, candidato “indipendente” ma vicino a Fratelli d’Italia, che ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti validi, attestandosi al 54%. Rocca, ex presidente della Croce Rossa Italiana (e della Federazione internazionale dell società di Croce rossa) nonché manager sanitario organico alla “destra sociale” postmissina di Storace e Alemanno, ha trionfato nonostante avesse un armadio pieno di scheletri, su tutti la condanna a 38 mesi di carcere per spaccio di eroina maturata quando aveva 19 anni, nel 1985. In termini percentuali, la sua coalizione guadagna quasi dieci punti rispetto alle politiche di settembre ed oltre venti punti rispetto alle regionali del 2018 (quando erano comunque presenti altri due candidati alla presidenza associabili alla destra o al centrodestra, Mauro Antonini di CasaPound e l’indipendente Sergio Pirozzi, ex sindaco di Amatrice, il paese devastato dai terremoti del 2016 e 2017: insieme ottennero quasi il 7%); in termini assoluti, il centrodestra perde per strada 300000 voti rispetto alle politiche e 30000 rispetto alle regionali precedenti (tralasciando gli altri candidati di area). Il voto di lista premia Fratelli d’Italia, che può vantare nel Lazio un solido insediamento: il partito di Giorgia Meloni ha ottenuto oltre un terzo dei voti validi, quintuplicando percentualmente i suffragi del 2018 (allora, per dire che si tratta di un’era geologica fa, il primo partito della coalizione era stato Forza Italia) e perdendo “solo” 20000 voti rispetto a settembre 2022, quando era comunque stata la forza più votata della regione con poco meno del 30%. A dispetto delle tragiche previsioni della vigilia, Lega e Forza Italia non scompaiono, ma vedono anzi aumentare i propri consensi sia in percentuale (ambito nel quale siamo vicini al raddoppio) e sia in numeri assoluti rispetto alle politiche: guadagnando 40000 schede a testa, i partiti di Salvini e Berlusconi rosicchiano qualcosa ai meloniani e si attestano oltre l’8%. Fra le altre compagini della coalizione, dovrebbero essere riuscite ad assicurarsi un seggio nel consiglio regionale (lo spoglio non è ancora ultimato) la lista civica patrocinata da Rocca (un’appendice di Fratelli d’Italia) e l’UDC, mentre resta fuori l’ennesima creatura del candidato sempiterno Vittorio Sgarbi, la lista Noi Moderati – Rinascimento Sgarbi, che ha ottenuto appena l’un per cento. L’uomo che avrebbe dovuto contendere la presidenza a Francesco Rocca per il centrosinistra era Alessio D’Amato, appoggiato dal PD e dai centristi di Renzi e Calenda, ma non dal Movimento 5 Stelle. D’Amato, assessore uscente alla salute noto con l’affettuoso nomignolo di “mister vaccino”, nasce politicamente nella fu “sinistra radicale”, transita nell’associazionismo (è stato condannato dalla Corte dei Conti al risarcimento di 275000 euro per uso fraudolento di fondi della sua “Fondazione Italia – Amazzonia onlus”) ed approda solo in età matura sulle sponde piddine, dove cresce all’ombra di Nicola Zingaretti, che lo vuole nella sua giunta nel ruolo di maggior peso politico. Alfiere del covidismo più fanatico e demagogico, D’Amato ha fatto parecchio parlare di sé nel nefasto triennio 2020-2022. Tre perle su tutte: nel maggio 2021 lanciò la cosiddetta “operazione giovani” (sintetizzabile in “concerti e sport solo col vaccino“) con queste parole: “C’è il rischio che alla somministrazione si presenti solo il 70% dei giovani. Ma noi dobbiamo raggiungere l’immunità di gregge”; alla fine dell’estate dello stesso anno, in un’intervista al Messaggero, D’Amato si fece promotore della sanità pubblica a pagamento per i “no vax”, sostenendo che questi ultimi dovessero pagarsi i ricoveri nelle mitologiche terapie intensive (1500 euro al dì), assicurando che la sua proposta non era “una semplice provocazione” e ribadendo che “queste persone che rifiutano la vaccinazione mettendo a rischio la libertà altrui devono assumersi la responsabilità fino in fondo delle proprie scelte e delle proprie azioni”; a marzo dell’anno scorso, infine, quando era scoppiato il caso dei profughi ucraini non vaccinati che scorrazzavano impuniti per la penisola, il rampante assessore propose di andarli ad aspettare al confine nordorientale (che dista da Roma appena 450 chilometri in linea d’aria) e pure in Polonia e in Romania per tamponarli e siringarli nei baracconi della regione Lazio. “Mister vaccino” alla fine ha ottenuto 580000 voti, pari percentualmente ad un terzo dei suffragi, poco più della metà di quelli portati a casa da Zingaretti nel 2018 e quasi 400000 in meno rispetto a quelli raggranellati dalla coalizione piddina e da Azione – Italia Viva alle politiche del 2022. Fra le sette liste che hanno supportato la candidatura di D’Amato, ha primeggiato il PD con il 20% (dato analogo in termini percentuali a quelli del 2018 e del 2022, ma con una perdita di 200000 voti rispetto a quest’ultima tornata), seguito dalla lista di Renzi e Calenda, che ne esce con le ossa rotte: il 5% scarso e 150000 voti in meno (su 225000) rispetto alle politiche. Delle altre cinque formazioni del centrosinistra senza 5 Stelle, solo i Verdi (orfani di Sinistra Italiana, con la quale erano insieme a settembre scorso) con il loro 2,7% e la lista personale di D’Amato con il 3 dovrebbero avere un posto in consiglio. Particolarmente fragoroso il tonfo di +Europa, passata dagli 80000 voti di settembre ai 14000 di oggi. Terzo incomodo delle elezioni è stato dunque il Movimento 5 Stelle, che nella sua nuova versione “sinistra” si era coalizzato con il “Polo Progressista di Sinistra & Ecologista”, frutto dell’aggregazione del partitino di Fratoianni e di altre schegge della diaspora piddina e vendoliana. La microcoalizione ha candidato alla presidenza Donatella Bianchi, personaggio televisivo minore che bazzica il piccolo schermo da quando aveva 15 anni, dopo che avevano rifiutato la proposta indecente di Giuseppe Conte le assai più quotate, televisivamente parlando, Bianca Berlinguer e Luisella Costamagna. Alla fine, la Bianchi ha superato di poco il 10%, con poco meno di 190000 voti validi: – 80000 rispetto a quelli ottenuti dal Movimento 5 Stelle a settembre e addirittura -650000 rispetto a quelli che portò a casa l’allora candidata pentastellata Roberta Lombardi nel 2018. A completare il quadro, vi erano altre due aspiranti presidentesse, Sonia Pecorilli del redivivo Partito Comunista Italiano e Rosa Rinaldi (già sottosegretaria nel secondo governo Prodi in quota Rifondazione Comunista) dell’Unione Popolare di de Magistris: per entrambe un risultato intorno all’uno per cento, con leggera prevalenza della prima.
In Lombardia, come accade dal 1995, anno dell’istituzione dell’elezione diretta del presidente della giunta regionale, non c’è stata partita a favore del centrodestra, ieri a trazione berlusconiana e oggi a guida meloniana. Il presidente uscente Attilio Fontana della Lega, dipinto come un incompetente dai giornaloni a causa dei suo sbandamenti nella gestione dell’emergenza pandemica e considerato inadeguato pure da molti dei suoi, ha stravinto con quasi un milione e ottocentomila voti, pari al 54,7%. Nel 2018, quando pure aveva ottenuto un milione e passa di voti in più, Fontana non era riuscito a superare il 50%, fermandosi due decimali sotto; rispetto alle elezioni politiche, invece, il centrodestra perde quasi 800000 schede, ma guadagna quattro punti percentuali. La prevalenza di Fratelli d’Italia nel voto di lista è netta, ma non straripante: il partito di Giorgia Meloni e dei fratelli La Russa, che in Lombardia fanno il bello e il cattivo tempo, è stato premiato dagli elettori con 725000 voti (pari al 25,2%), la metà di quelli ottenuti alle politiche di quattro mesi e mezzo fa, quando il risultato percentuale era stato superiore di tre punti. Come per il Lazio, non fa testo il paragone con le precedenti regionali, quando Fratelli d’Italia aveva ottenuto appena il 4% scarso, e la lista più votata era stata ampiamente la Lega di Salvini, per il quale queste consultazioni rappresentavano un banco di prova decisivo: nei mesi precedenti c’era stata pure la fronda “nordista” guidata da Umberto Bossi, che aveva prima provato a fiancheggiare l’opposizione interna di Zaia e Fedriga e poi ad accreditarsi presso la candidata “terzopolista” Letizia Moratti, restando infine con un pugno di mosche in mano. Salvini, riprendendo il cavallo di battaglia della Lega delle origini, si è giocato tutto sul progetto di “autonomia differenziata” promosso di recente dal governo e qualche risultato lo ha portato a casa, scongiurando il “doppiaggio” da parte di Fratelli d’Italia e recuperando qualcosa, se non altro in termini percentuali, rispetto alle politiche dell’anno passato; il 16,5% delle schede valide è un risultato che può dirsi soddisfacente, ma se si prendono in esame i numeri assoluti l’analisi cambia radicalmente: – 200000 rispetto a settembre 2022 e addirittura un milione e rotti di suffragi persi rispetto alle regionali del 2018 (il tracollo risulta meno accentuato se si associano alla Lega i voti della lista civica “Lombardia ideale – Fontana presidente”, che ha superato il 6%). Ha retto anche Forza Italia, la cui tenuta era a rischio a causa delle defezioni di quanti avevano abbracciato l’avventura della Moratti: con il 7,2% e sei consiglieri regionali, il partito di Berlusconi potrà dire la sua nella futura giunta. Guardando i numeri assoluti, i voti dei berlusconiani risultano dimezzati rispetto alle politiche e addirittura ridotti a poco più di un quarto se paragonati alle regionali del 2018. A differenza di quanto accaduto nel Lazio, infine, Vittorio Sgarbi centra l’elezione al Pirellone, unico della lista Noi Moderati – Rinascimento Sgarbi, ma ha già annunciato che si dimetterà non appena verrà nominato, com’è nei suoi auspici, assessore alla cultura nella giunta regionale di prossima costituzione. Il PD, dal canto suo, dopo lunghe tribolazioni aveva candidato a presidente della Lombardia l’europarlamentare ed ex assessore comunale a Milano Pierfrancesco Majorino, esponente della “sinistra” interna, il quale, a differenza di quanto accaduto nelle concomitanti elezioni laziali, aveva perorato la causa dell’alleanza “progressista” con il Movimento 5 Stelle, lasciando i centristi di Renzi e Calenda a sostenere la presuntuosa candidatura di Letizia Moratti. L’unica soddisfazione di Majorino è stata quella di sopravanzare nettamente Fontana a Milano città, che è ormai un’inespugnabile roccaforte del piddismo; per il resto, la coalizione ha confermato la stessa percentuale delle politiche (quando il PD ed il Movimento 5 Stelle correvano separati), ma è crollata rispetto alle regionali di cinque anni fa, quando i candidati di PD, 5 Stelle e Liberi e Uguali avevano insieme raggiunto il 48% dei voti. Tutte e quattro le liste che hanno sostenuto Majorino entrano nel consiglio regionale: il PD è il secondo partito della Lombardia con il 21,8% dei voti (pur con 300000 schede in meno rispetto a settembre),mentre Movimento 5 Stelle, lista civica vicina al candidato presidente e Alleanza Verdi – Sinistra Italiana (qui assieme a differenza che nel Lazio) ottengono un risultato fra il 3 ed il 4%. Tramonta invece ingloriosamente il sogno “centrista” di Letizia Brichetto Moratti, la cui candidatura era stata agli inizi indegnamente pompata dalla stampa compiacente nel quadro del progetto di ristrutturazione “macroniana” della politica italiana. Con il 10% scarso dei voti, la Moratti conferma percentualmente il risultato ottenuto da Azione – Italia Viva alle politiche (con 200000 voti effettivi in meno: da 520000 a 320000), ma non sfonda neppure a Milano città e non viene premiata dal voto disgiunto come i soloni di cui sopra avevano pronosticato. Le due liste che l’hanno sostenuta, la civica a suo nome piena di ex berlusconiani e l’unione renziano-calendista, faranno entrambe parte del consiglio regionale, ma il loro progetto “rivoluzionario” finisce qui. Per chiudere, pure in Lombardia c’è stata una candidatura di testimonianza, quella di Mara Ghidorzi per l’Unione Popolare di de Magistris, che ha portato a casa un risultato dignitoso visto il contesto: 50000, pari all’uno e mezzo per cento.
La tradizione vuole che dopo ogni elezione tutti i partiti cantino vittoria, e la tornata del 12 e 13 febbraio 2023 non fa eccezione. Ha esultato persino l’agonizzante Enrico Letta, compiaciuto del fatto che il PD sia rimasto il principale partito di opposizione al melonismo dilagante. I professionisti dell’informazione hanno vergato lagnose analisi in cui si esterna sbigottimento per “la crisi della democrazia” e per il clamoroso insuccesso di “mister vaccino” D’Amato a fronte del trionfo di Fontana, che nelle ultime settimane era stato dipinto quasi come un “no vax”. Alla fine, non è stato eletto manco Pregliasco, che speranzoso si era candidato in Lombardia nei ranghi della lista civica di Majorino. Intervistato dal Corriere della Sera (la cui analisi dell’accaduto è: “La discesa in campo per la lista civica di Pierfrancesco Majorino finisce ribaltando quello che molti potevano prevedere dopo due anni di disastri Covid. Invece Attilio Fontana, dopo mesi nel mirino delle critiche per la gestione della pandemia, stravince”), il medico-star ha amaramente dichiarato: “Eravamo eroi, oggi forse ci considerano ingombranti. Ci hanno impallinato perché eravamo quelli che raccontavano la verità, comprese le incertezze e i limiti della scienza. Fontana e la sua forza politica nonostante tutto oggi rappresentano la nuova normalità che la gente ha ritrovato e non vuole perdere.” Pure in questo buio assoluto, tuttavia, è possibile scorgere uno spiraglio di luce: secondo gli acuti editorialisti dei giornaloni, infatti, la Meloni, proprio per aver vinto “troppo”, in realtà ha perso. Come sempre, avranno ragione loro.
Lascia un commento