Giuseppe Russo
Avanti.it
Come sempre accade prima, durante e dopo le elezioni (soprattutto dopo), il “dibattito” all’interno del Partito Democratico domina le cronache politiche. Che tale partito abbia vinto e si accinga a formare il governo, o che abbia perso e si accinga a indire il canonico “congresso rifondativo”, le sue vicende interne vengono trattate dal coro massmediatico alla stregua di affari di interesse nazionale. L’attenzione che viene riservata al partito-regime è giustificata dalla sua centralità nel sistema politico e dalla sua funzione di garante degli interessi delle potenze straniere, dei mercati finanziari e delle multinazionali. Tuttavia, ogni volta c’è un che di morboso nella descrizione dei travagli che riguardano il PD: suggestioni sciorinate a beneficio di pochi addetti ai lavori vengono presentate come patrimonio delle masse. Come ogni saga telenovelica che si rispetti, anche quella piddina si muove producendo variazioni minime sullo stesso canovaccio. E così, puntuale come la noia, ecco l’appello firmato dai soliti intellettuali engagé e dai politicanti precocemente (secondo loro) rottamati ad animare la discussione precongressuale. Quest’ultima manifestazione dell’appellismo, una delle tante malattie degenerative che affliggono quest’area politica, porta le firme di Rosy Bindi, Gad Lerner, Tomaso Montanari, Domenico De Masi; nell’invocare “discontinuità” rispetto al passato, la Bindi si spinge a parlare, in alcune interviste posteriori all’appello, di “scioglimento” del partito: sarà il leitmotiv dei prossimi mesi.
Il morituro (politicamente parlando) Enrico Letta, un po’ dissipatore e un po’ curatore fallimentare, ha stabilito le tappe che condurranno al congresso del prossimo febbraio, al quale si presenterà dimissionario: una prima fase “precostituente” in cui dovrebbero rientrare all’ovile tutti i compagni usciti dal partitone (con alterne fortune) ai tempi della segreteria Renzi, in primis Bersani, Speranza ed il loro fantomatico movimento Articolo 1; una seconda fase di “dibattito libero” in cui si affronterà anche la possibilità che si cambi nome e simbolo; una terza fase propriamente “costituente” in cui dovrebbero aderire al “nuovo” partito i “senza tessera”; infine, dopo che gli iscritti e i delegati congressuali avranno scremato la rosa degli aspiranti segretari riducendoli a due, nel mese di aprile del 2023 dovrebbero tenersi le primarie. Letta è stato sul punto di dimettersi già all’indomani del 25 settembre, ma è stato persuaso a tornare sui suoi passi dalla “sinistra” del partito, che punta a guadagnare tempo per trovare un nome da contrapporre a quello di Stefano Bonaccini, la cui candidatura appare la più forte allo stato attuale delle cose. Il governatore dell’Emilia-Romagna, che negli anni si è costruito la fama di “vincente”, sarebbe anzitutto l’uomo dei “renziani” di Base Riformista, la corrente che accoglie tutti quelli che non hanno seguito Renzi all’epoca della scissione. Dalla sua potrebbe avere anche il mondo delle cooperative, i vertici delle burocrazie sindacali, i “signori delle tessere” che imperversano nel partito in occasione dei congressi. Pur non essendo ostile pregiudizialmente né al cambio di nome, né al “dialogo” con il Movimento 5 Stelle, Bonaccini preferirebbe lasciare il PD così com’è e approfondire il rapporto con i “centristi” di Calenda e Renzi. La “sinistra” piddina appare per ora divisa sul nome su cui puntare, fra le auto-candidature dell’ex ministro Andrea Orlando e del vicesegretario Peppe Provenzano (ritenute troppo “divisive”) e quella di Eddy Schlein, “papessa straniera” che per ora è senza tessera e tallona da vicino Bonaccini essendo vicepresidente della sua stessa giunta. La poliglotta e cosmopolita Elena Ethel Schlein (ha pure i passaporti di Svizzera e Stati Uniti) uscì dal partito per seguire Pippo Civati nelle sue turbe giovanili; una volta diventata grande, e godendo di ottima stampa, è rientrata come socia fondatrice di “Italia Democratica e Progressista”, la denominazione adoperata dal PD nelle ultime elezioni, in rappresentanza del suo movimento “Emilia-Romagna Coraggiosa Ecologista e Progressista”, che alle regionali del 2020 ottenne poco più del 3% dei voti. Anche Enrico Letta, pur col rischio di produrre il proverbiale effetto boomerang, perorerebbe la causa di Schlein segretaria “di rottura”, con lo spostamento dell’asse del PD verso “sinistra”: opposizione dura al nascente governo Meloni, avvicinamento al Movimento 5 Stelle e all’Alleanza Verdi – Sinistra Italiana, compiuta e definitiva trasformazione del partito in un baraccone arcobaleno. A fianco dei due emiliani, vi sono già adesso una pletora di aspiranti segretari: dalla loro corregionale Paola De Micheli, che ha lanciato la sua candidatura perché “a 49 anni vuol fare qualcosa di importante”, vantandosi, come prova di “radicalismo”, di essere andata a fare volantinaggio davanti alla sede Amazon di Piacenza , fino ai sindaci di Firenze, Bari e Pesaro, dal ras pugliese Michele Emiliano, già bruciatosi con la sfortunata candidatura alle primarie del 2017, fino a don Vincenzo De Luca, che da tempo sogna di coronare la sua carriera di campione della democrazia ascendendo a una carica fra presidente del consiglio e segretario del partito (ma meglio ancora sarebbe tutt’e due)
La parte più ammorbante e stucchevole del “dibattito” sul futuro del partito-regime è quella sulla nuova denominazione che si troverà ad assumere dopo il maquillage congressuale. Fondamentalmente, tutte le combinazioni lessicali sono state bruciate, e la soluzione più a portata di mano è quella di ribattezzarsi “i Democratici” in spregio alla decenza e alla memoria storica a corto raggio, visto che tale nome era già stato adoperato dalla creatura politica di Romano Prodi (chiamata giornalisticamente “l’asinello”), rimasta in campo dal 1999 al 2002 prima di confluire ne La Margherita. Inoltre, il restyling consistente nella rimozione della vituperata parola “partito” dalla ragione sociale si è già consumato in occasione della “trasformazione” del Partito Democratico della Sinistra (allora guidato da D’Alema) in Democratici di Sinistra nel 1998. Nelle altre ipotesi di nuovo lessico, ricorrente è l’aggettivo “progressista”, a sua volta bruciato da Achille Occhetto per le elezioni del 1994, quando la “gioiosa macchina da guerra” da lui capitanata si chiamava proprio “Progressisti”. Massimo Cacciari ha provato a inserirsi nel dibattito, non invitato, proponendo un sinonimo ed un sostantivo in luogo di un aggettivo: “Democrazia Progressiva” è la soluzione cacciariana (il filosofo veneziano ha pure proposto di “riprendere la vocazione socialdemocratica” dopo aver fatto, nella sua parabola politica, l’esatto contrario). Anche a livello di suggestioni giornalistiche, tutte le categorie sono già state usate, riusate e consumate in occasione delle precedenti “svolte” del partito-regime. “La Cosa” di cui cianciava Occhetto ai tempi del cambio di nome del PCI, è già stata riproposta come “Cosa 2” all’epoca della segreteria D’Alema, e più che a quello di Nanni Moretti, è al cinema di John Carpenter che corre il pensiero. I più raffinati proveranno fra un po’ a parlare di “un’Épinay per il PD”, alludendo alla località della regione parigina in cui il Partito Socialista Francese celebrò il suo congresso rifondativo, nel 1971, promuovendo la figura di Mitterand (che era in precedenza uscito dalla Section française de l’Internationale ouvrière, come si chiamava il PSF prima del ’71) e divenendo la forza egemone prima nella sinistra e poi in tutto il paese. Anche Épinay, però, è bruciatissima: pescato nel mazzo, questo articolo de la Repubblica scriveva, già nel maggio 2001, “In effetti Épinay può far sognare”.
Épinay e sogni bagnati a parte, è proprio alla storia francese che il PD deve guardare facendo gli scongiuri, ma non a quella degli anni ’70 del secolo scorso, bensì a quella degli ultimi cinque anni, da quando cioè il suo omologo francese, il PSF, ha subito una brusca “pasokizzazione”; con tale termine si allude alla parabola discendente del PASOK, il “Movimento Socialista Panellenico” che vide i suoi consensi precipitare, negli anni del commissariamento della Grecia da parte della troika, dal 44% del 2009 al 4% del 2014. Per i socialisti francesi la dissoluzione elettorale è stata posteriore: dopo la disastrosa presidenza di Francois Hollande, i voti per il candidato socialista alla carica di capo dello stato sono scesi fino al 6% ottenuto da Benoît Hamon nel 2017 e all’umiliante 1,75% di Anne Hidalgo alle presidenziali di quest’anno. In Francia, il processo di “pasokizzazione” della principale forza della sinistra ha assunto peculiarità proprie, tanto che si può parlare di “macronizzazione” del PSF: mentre in Grecia il grosso dell’elettorato del PASOK è stato assorbito dall’emergente SYRIZA di Alexis Tsipras, ovvero da una forza che, almeno in partenza, si collocava “più a sinistra” dei socialisti greci, una doppia erosione, da destra e da sinistra, ha caratterizzato il declino del Partito Socialista Francese, i cui elettori sono migrati in parte verso il centro tecnocratico di Emmanuel Macron, in parte verso la nuova sinistra “sovranista” di Jean-Luc Mélenchon, con il quale il partito che fu di Mitterand si è pure alleato alle elezioni legislative che hanno seguito di poche settimane le presidenziali del 2022. Tornando all’Italia, in uno scenario di “macronizzazione”, il PD si troverebbe ad abdicare al suo ruolo di baricentro del sistema politico e di garante degli interessi stranieri in Italia a beneficio di un nuovo soggetto “à la Macron” che dovrebbe costituirsi coinvolgendo i centristi di matrice calendiana, renziana e postberlusconiana e l’ala “riformista” del PD, ovvero quella che dovrebbe coagularsi intorno alla candidatura di Bonaccini alla segreteria. Quello di un “Macron italiano” è il vero sogno proibito del deep state all’italiana, ma per adesso si fa fatica a trovare il personaggio giusto a cui far indossare questa maschera. Parallelamente, il Partito Democratico “macronizzato” subirebbe la spietata concorrenza del miracolato Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, che finirebbe con l’assolvere, pur avendo tutt’altro background, il ruolo di “Mélenchon italiano”, coinvolgendo in un nuovo fronte “progressista” (aggettivo che l’avvocato del popolo ha sempre in bocca) le schegge rosso-verdi dell’ultima versione del centrosinistra e, dopo varie convulsioni e in posizione subordinata, lo stesso PD. In tale quadro ipotetico, il nuovo partito-regime che prenderebbe il posto del PD (avendo anche l’ambizione di assorbire ciò che resta dell’elettorato berlusconiano) acquisirebbe quella centralità nel sistema politico che lo stesso Partito Democratico, pur esercitando un’egemonia di fatto nel corso di tutta la sua storia, non è mai riuscito a fare sua fino in fondo a causa delle ingombranti radici post-comuniste. Il partito che nacque su iniziativa di Walter Veltroni nel 2007 come “fusione fredda” delle culture politiche “rosse” e “bianche” del Novecento italiano sulla superficie, come curatore fiduciario degli interessi delle cupole sovranazionali nella sostanza, non serve più come strumento politico. Si pensava che facendo un po’ gli americani si potesse vivacchiare a lungo, ma il personale politico piddino si è rivelato incapace persino di assolvere gli incarichi più elementari. I Padroni, pertanto, sono alla ricerca di un nuovo Discorso da propinare alle masse. Il Partito Democratico, nei quindici anni scarsi in cui ha attraversato la storia del nostro paese, ha compiuto solo ed esclusivamente misfatti, nefandezze,tradimenti alti e bassi, promuovendo la “classe dirigente” più vile e inetta che l’Occidente abbia mai conosciuto. La sua, a ben vedere, non è neppure una saga, ma un modesto romanzetto criminale al quale, di tanto in tanto, si rende necessario cambiare titolo e copertina.
Aureliano71 dice
È lo schema gelliano che va verso il suo compimento. Il modello all’americana infatti prevede un bipartitismo fra forze liberiste, evidentemente all’interno del PD c’è qualche resitenza nell’ala sinistra (?) e non se ne capisce il perché.
Fratoianni, Bonelli, Speranza, Orlando…che problemi dovrebbero avere nel ripudiare se stessi ed entrare nella destra renzian-berlusconian-calendiana? Ideologie? Non se ne vede traccia.
Le politiche sono state le stesse, non si capisce neanche perché mai Calenda metta il veto su questi personaggetti in cerca d’autore.
Federico dice
Il Macron italiano c’è già stato, ancor prima della copia francese, e si chiama Renzi. Abbiamo visto com’è finito e c’è solo da sperare che Macron faccia la stessa fine. Affinché il Pd o quello che ne resterà possa tornare ad essere il riferimento della sinistra italiana, bisogna che prima si liberi definitivamente di tutti i residui tossici renziani e smetta di voler a tutti i costi fare le scarpe a Conte. Solo dopo potrà aprirsi alle altre anime della sinistra, cioè appunto 5stelle, verdi, comunisti et similia.