Marco Di Mauro
Avanti.it
(Qui la prima parte)
A quanto riporta oggi il New York Times il generale Ali Nasiri, comandante di alto livello dell’Unità di Protezione delle Informazioni delle Guardie Rivoluzionarie incaricato di controllare e supervisionare il lavoro dell’IRCG, è stato arrestato a giugno in Iran con l’accusa di spionaggio a favore di Israele. Secondo le fonti del quotidiano newyorkese, funzionari iraniani che si tono tutelati con l’anonimato, l’arresto di Nasiri si aggiunge a quelli avvenuti in aprile di «diverse decine di dipendenti del programma di sviluppo missilistico del Ministero della Difesa, sospettati di aver fatto trapelare informazioni militari riservate, tra cui progetti di missili, a Israele». Infiltrarsi nella rete di sicurezza di Teheran, per infliggere colpi decisivi all’IRCG e screditare, cosa cui contribuisce anche questo articolo del Times, l’intelligence iraniana agli occhi del mondo, causando così anche una frattura interna tra i vertici militari e i servizi segreti.
Sin dal suo insediamento, il governo Bennett ha iniziato a bombardare i siti nucleari e militari strategici dell’Iran, con una frequenza e una precisione sempre maggiori. Non sono mancati, ovvio quando c’è di mezzo il Mossad, gli omicidi e l’operazione di corruzione degli alti papaveri ha aperto una falla nell’apparato di sicurezza di Teheran che ha dato i suoi frutti: la prima metà dell’anno in corso ha visto una concentrazione molto alta di “strane morti” soprattutto di scienziati legati allo sviluppo del programma nucleare e del settore aerospaziale del paese. Se nell’ultimo decennio sono cinque gli scienziati uccisi, quest’anno l’intelligence israeliana si è data da fare: dopo l’assassinio del colonnello Hassan Sayad Khodayari del 22 maggio in perfetto stile mafioso (uomini armati in moto hanno affiancato la sua auto in pieno giorno a Teheran), il 26 maggio un drone israeliano attacca il sito militare di Parchin, simulando un “incidente industriale” e uccidendo l’ingegnere Ehsan Ghad Beigi; pochi giorni dopo un altro colonnello della Quds Force, settore dell’IRCG, Ali Esmailzadeh, precipita dal balcone della propria abitazione a Karaj, vicino Teheran, defenestrato secondo Iran International (canale legato ai sauditi, rivali della repubblica islamica sul Golfo Persico) dall’intelligence del proprio governo a causa di sospetti legami con Israele; il 31 maggio Ayub Antazari, PhD in ingegneria aerospaziale della Sharif University of Technology definito sui canali israeliani “uno specialista di missili di qualunque gittata”, va a cena con una persona non meglio precisata e viene colto da un malore, e mentre in ospedale se ne constatava il decesso per avvelenamento il suo commensale era già volato via dal paese; domenica 12 giugno l’IRCG annuncia il “martirio” di altri due giovani scienziati, inquadrati come ufficiali dell’AFAGIR (Aerospace Force of the Army of the Guardians of the Islamic Revolution): il primo, Ali Kamani, morto in un sospetto incidente d’auto a Khomein, nell’Iran centro-occidentale, dove stava svolgendo un incarico di elevata responsabilità, stando alle fonti, e poche ore dopo a Semnan, città del nord presso cui si trova una base di lancio per razzi e satelliti, ha perso la vita in circostanze non precisate Mohammad Abdus; ultimo in ordine di tempo, ma certamente non della lista del Mossad, un ingegnere – definito “senior”, ovvero di comprovata esperienza e appartenente agli altri ranghi dell’IRCG per le quali aveva sviluppato «nuovi tipi di armi» secondo AA News Israel – è stato ucciso in casa a colpi d’arma da fuoco insieme alla sua guardia del corpo da un commando di uomini mascherati, poi visti allontanarsi dai residenti della zona. Non si conosce il nome dell’uomo, come d’altronde non v’è certezza sugli altri nomi, a causa della riservatezza del governo di Teheran su questi eventi.
Non si tratta di omicidi d’avvertimento né simbolici in quanto rispondono alla precisa volontà israeliana di eliminare tutti i membri dell’IRCG legati allo sviluppo e produzione di armamenti per gli alleati di Hezbollah in Libano, a Gaza per Hamas e il PIJ (Palestinian Islamic Jihad). Inoltre, una vera rogna per il governo Bennett è stato lo sviluppo, rapidissimo negli ultimi anni, dell’apparato balistico sviluppato dalle IRCG, che ha mostrato la sua capacità di fuoco nella vicina Erbil – capitale del Kurdistan iracheno – due volte quest’anno, la prima il 13 marzo, colpendo un centro di addestramento del Mossad in prossimità dell’ambasciata USA in Iraq, mentre il 9 giugno, per rispondere alla serie di attacchi israeliani perpetrati sul suo territorio, l’organizzazione irachena Kata’n Hezbollah, finanziata dall’Iran, ha effettuato un attacco con droni kamikaze contro strutture legate al consolato americano e al Mossad nelle città di Erbil e la vicina Shawas.
Lo stesso giorno un attacco hacker iraniano partito dall’Iraq ha colpito l’infrastruttura del sistema di traffico dati negli Emirati Arabi Uniti e la borsa di Tel Aviv al momento dell’apertura, colpendo così anche un alleato arabo di Israele, e il 19 giugno un attacco informatico fa attivare le sirene d’emergenza nelle città di Gerusalemme ed Eilat. Gli hacker di Teheran hanno risposto agli attacchi del gruppo hacker filo-israeliano Gonjeshke Darande, che lo scorso novembre aveva messo fuori uso le stazioni di servizio in tutto il paese, e che contrattaccato a sua volta lunedì 20 giugno, paralizzando i sistemi informatici di tre fabbriche di acciaio iraniane, tra cui la statale Khuzestan Steel, importanti fornitori di acciaio per le Guardie Rivoluzionarie. Tre giorni prima, un drone israeliano fa esplodere un sito di missili balistici nella parte occidentale di Teheran.
Così il Mossad ha inaugurato la nuova strategia israeliana del duo Naftali Bennett-Yair Lapid: una rinnovata diplomazia verso i paesi arabi volta a creare le condizioni di sicurezza e assistenza per un incremento delle azioni di guerra contro il suo più temibile avversario, l’Iran, e le sue propaggini in Iraq, Siria, Libano, Gaza. La strategia del brevissimo governo Bennett prevedeva un’inversione di marcia rispetto a quella che egli definisce la “piovra” iraniana: “Questa dottrina rappresenta un cambiamento strategico rispetto al passato, quando Israele si concentrava sui ‘tentacoli’ per procura dell’Iran in tutta la regione, in Libano, Siria e Gaza. […] è un cambiamento di paradigma: ora puntiamo direttamente alla testa” ha dichiarato in un’intervista Keren Hajioff, consigliere anziano di Bennett.
La repubblica islamica, letteralmente stritolata dalla guerra economica avviata dall’asse atlantico e dalla devastante politica delle sanzioni imposta da Washington attraverso le Nazioni Unite, che hanno fatto schizzare l’inflazione al 40%, riducendo il potere di acquisto di beni di prima necessità, e fanno perdere quotidianamente al paese tra i 4 e i 5 miliardi di dollari in potenziali guadagni petroliferi (dati ISPI), si trova a fronteggiare una crisi economica e sociale senza precedenti, acutizzatasi enormemente dopo il crollo, il 30 maggio, di un palazzo ad Abadan, 37 morti, che ha infiammato di proteste la provincia sudorientale del Khuzestan, guarda caso una delle più ricche di petrolio nel paese, rallentando così anche la produzione di greggio. Le proteste, dovute soprattutto al carovita e alle politiche di austerity cui è costretto il governo Raisi per far fronte alle sanzioni, si sono diffuse rapidamente nelle principali città del paese. Oltre a ciò, quattro giorni prima gli USA confiscavano un carico di petrolio iraniano trasportato da una nave russa al largo della Grecia, suscitando il 10 giugno la risposta di Teheran, che ha confiscato due petroliere greche contenenti materiale diretto negli USA. Alle accuse di pirateria, Khamenei, in un discorso alla nazione in occasione del trentatreesimo anniversario della morte dell’ayatollah Khomeini, ha risposto: “Chi è il pirata qui? Avete rubato il nostro petrolio. Ce lo siamo ripresi. Riprendere un bene rubato non è un furto.” Nella stessa occasione ha anche detto: “Oggi, la speranza più importante dei nemici di sferrare un colpo al Paese si basa sulle proteste popolari, ma il calcolo dei nemici è sbagliato come molti altri precedenti”.
La destabilizzazione causata dalla guerra economica americana facilita di molto la strategia Bennett-Lapid. Fondamentale per la sua riuscita è stato il riavvicinamento alla Turchia, tracciando una storica frattura nella politica estera di Ankara, che se fino a quest’anno poteva ancora inquadrarsi in una sorta di alleanza islamica a guida turca e vocazione anti-sionista, oggi appare come una potenza aggressiva e tendente alla costruzione di un’egemonia nel Mediterraneo e nel Medio Oriente, abbandonando la vocazione ottomana del primo Erdogan e configurandosi sempre più come una potenza occidentale, al fianco di USA e Israele. In una prima fase, l’intesa turco-israeliana si è presentata come una spartizione delle zone di attività bellica e un reciproco, anche se non attivo, sostegno. Se Ankara aveva subito suggellato gli accordi con la persecuzione ed espulsione dal proprio territorio degli émigré affiliati ad Hamas, nulla era stato fatto nei confronti dell’Iran.
Ma una concreta azione di concerto tra l’intelligence del “regime sionista” – così lo definisce l’ayatollah Ali Khamenei – e le forze di sicurezza turche è scattata proprio il 6 giugno, quando l’intelligence israeliana ha lanciato un’allerta inquietante a tutti i cittadini israeliani presenti sul territorio turco, intimandogli di non uscire dalle proprie stanze d’albergo, in quanto l’Iran, e soprattutto il capo dell’intelligence Hussein Taeb, stava pianificando omicidi e attacchi con droni contro i cittadini israeliani presenti in Turchia, per vendicare gli attacchi subiti sul proprio territorio. “Un chiaro e immediato pericolo per la vita degli israeliani in Turchia. Tutti gli israeliani in Turchia devono tornare in Israele. C’è un ampio dispiegamento di squadre iraniane in Turchia per rapire e uccidere turisti israeliani. L’establishment della sicurezza ha preso in considerazione la possibilità di vietare i voli per la Turchia” ha dichiarato su Channel 13 un alto funzionario dell’intelligence sionista. A nulla è valsa la smentita di Said Khatibzadeh, portavoce del ministero degli esteri iraniano, che ha bollato queste accuse come “ridicole” e “uno scenario precotto per danneggiare le relazioni tra due Paesi musulmani”: la polizia turca ha immediatamente avviato un’operazione su vasta scala in collaborazione con Mossad, Shin Bet e GSS (gli ultimi due sono servizi per la sicurezza interna di Israele) per fermare gli attentati, di cui non v’è traccia se non nelle dichiarazioni degli ufficiali dei due paesi. Ciò ha portato all’arresto a Istanbul di cinque cittadini iraniani il 23 giugno, suscitando il commento soddisfatto di Bennett “La cooperazione con la Turchia si sta svolgendo a tutti i livelli”, mentre lo stesso giorno il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, in una conferenza stampa con Yair Lapid, il suo omologo israeliano, ha dichiarato che la Turchia non avrebbe tollerato “regolamenti di conti” e “attacchi terroristici” sul suo territorio.
Quest’ultimo smacco per la reputazione dell’Iran e per i rapporti con la Turchia è costato la poltrona, lo stesso 23 giugno, a Hussein Taeb, alto esponente del clero e capo dei servizi segreti, che è stato declassato a un ruolo di consulenza per i capi delle Guardie Rivoluzionarie – non già dell’ayatollah Khamenei, come da prassi dopo aver rivestito una carica così importante. Due giorni prima nelle province del Sistan e del Baluchestan, a sud-est del paese, era stata sgominata una rete di spionaggio affiliata al Mossad.
In verità, non è andata bene neanche alla coppia guerrafondaia Bennett-Lapid, che ha pagato in patria lo scotto di aver esposto il proprio popolo a continui attacchi da parte dell’asse anti-sionista a causa della estrema aggressività della sua politica estera e della brutale escalation repressiva che ha scatenato la Terza intifada: il 6 gennaio una votazione apparentemente ordinaria della Knesset, quella della proroga dell’applicazione della legge penale e civile israeliana ai coloni della Cisgiordania, mette in sfiducia il governo, che il 20 giugno è costretto a sciogliere la camera. A reggere il paese fino alle prossime elezioni, che si terranno molto probabilmente in ottobre, sarà un governo provvisorio con a capo Yair Lapid.
Dal canto suo, mentre cerca di rimettere in piedi i propri apparati di sicurezza devastati dalla permeazione israeliana, Teheran fa le sue mosse sulla scacchiera estera: nello Stretto di Hormuz, il breve tratto di mare tra Oman e Iran che chiude il Golfo Persico, il 20 giugno le navi da guerra iraniane si avvicinano alle unità della US Navy oltre la distanza di sicurezza, in un chiaro atto di provocazione; il 22 nel Kurdistan iracheno, distretto di Chamchamal nella provincia di Slemani, milizie sciite filo-iraniane attaccano il giacimento di gas naturale di Khor Mor, gestito dalla società emiratina Dana Gas e fondamentale per future esportazioni dell’asse atlantico in sostituzione al gas russo. Il 26, inoltre, il ministero della Difesa di Teheran mostra i muscoli ai nemici israeliani, mostrando al mondo il test dalla piattaforma di lancio satellitare Zuljanah: “Sulla carta si tratta di un veicolo spaziale, un lanciatore di satelliti, ma nella realtà può essere utilizzato come una piattaforma balistica ad ampia gittata. Supporta anche testate nucleari” riporta il canale indiano WION.
A questa escalation sul piano militare, l’Iran ha accompagnato l’avviamento di un percorso diplomatico: il 25 giugno Josep Borrell, l’alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea, è stato a Teheran per “dare nuovo slancio ai negoziati e riportare in carreggiata l’accordo nucleare JCPOA” a quanto ha riferito egli stesso su Twitter, ricevendo segnali molto positivi in questo senso dal governo Raisi; il giorno seguente il primo ministro iracheno Mustafa al-Kadhimi ha incontrato in Arabia Saudita il principe Mohammed bin Salman per promuovere da mediatore un riavviamento del dialogo iniziato l’anno scorso tra le due potenze rivali del Golfo Persico, che si era interrotto ad aprile. In quest’occasione il presidente Ebrahim Raisi in conferenza stampa è stato molto chiaro: “I tentativi del regime sionista di normalizzare le relazioni con le nazioni della regione non gli porterà in alcun modo la sicurezza sperata.” Il 27 giugno una nuova dichiarazione bomba: il rappresentante ufficiale del ministero degli esteri dichiara che l’Iran ha presentato domanda per entrare a far parte dei BRICS, l’alleanza economica che comprende Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa e che a tutt’oggi costituisce il principale asse contro la talassocrazia del dollaro.
Dunque Israele si trova a fronteggiare gli sviluppi dello scenario caldo da esso stesso impostato restando fino a ottobre con una Knesset sfasciata e un governo provvisorio. L’Iran, con un apparato militare sfasciato, l’economia ai minimi termini e una profonda destabilizzazione sociale in atto, dovrà sperare di trovare nell’asse dei BRICS quelle prospettive negate dalla rete economica a guida occidentale. Una cosa è chiara: il Medio Oriente è, con l’Ucraina, uno scenario della Terza guerra mondiale.
angegardien dice
israele -iran
turchia – grecia
e da qui che partira la 3 guerra mondiale.