Marco Di Mauro
Avanti.it
Il primo giugno la Turchia ha annunciato l’inizio della propria “operazione speciale”, in Medio Oriente. La guerra di Erdogan contro i curdi nel nord della Siria e dell’Iraq è ripresa a pieno ritmo, puntando inizialmente sulle regioni di Tal Rifaat e Manbij per eliminare le fazioni curde dello YPG e del PKK. Già il mese di maggio, in verità, aveva visto infiammarsi il confine siro-turco, con mezzi militari di Ankara che si spingevano verso le regioni controllate dalle Yekîneyên Parastina Gel le “Unità di Protezione Popolare” tanto osannate dalla sinistra occidentale, la cui propaganda ha spedito numerosi foreign fighter italiani a combattere al fianco delle truppe in difesa del Rojava, nonostante fossero notoriamente foraggiate dagli americani. E proprio da questo Erdogan si è voluto schermare prima di tutto quando ha incontrato, in occasione del G20 tenutosi nell’autunno 2021 a Roma, Joe Biden, a cui ha apertamente palesato il proprio disappunto per il sostegno dato fin allora da Washington alle forze curde, incontrando il favore del presidente americano tanto da poter dichiarare, alla fine del meeting il primo novembre: “Da ora in poi credo che non continueranno a farlo”. Pochi giorni prima, il 27 ottobre, il parlamento turco aveva ratificato una mozione per estendere di due anni le proprie operazioni militari Iraq e Siria – i cui termini scadevano proprio alla fine di quel mese – e rafforzato il proprio contingente nella provincia settentrionale siriana di Raqqa con l’invio di carri armati M60, corazzati ACV-15 e attrezzature logistiche nella città di Tel Abyad.
L’annuncio di questo giugno ha scatenato rivolte nelle regioni siriane occupate dalle Türk Kara Kuvvetleri: il 3 e il 4 ad Afrin, Al-Bab e poi a Marea il popolo siriano ha occupato i municipi e bruciato i ritratti del presidente turco, proprio mentre le colonne turche penetravano a Idlib, segnando un punto di non ritorno nella ripresa del conflitto. Il 6 giugno le forze di Ankara bombardano nel Rojava il villaggio di El-Kevkli, parte occidentale di Manbij, con obici e mortai. Il 14 giugno arrivano nuove truppe siriane filo-turche ad Azaz, e la Russia ha chiesto alla Turchia il giorno dopo di annullare l’operazione siriana durante un incontro in Kazakistan. Il 19 giugno la Turchia perde alcuni quartieri di Afrin conquistati dal gruppo jihadista Tahrir al-Sham.
Non va meglio per Erdogan nell’Iraq settentrionale, dove il 9 giugno quattro razzi grad colpiscono la base turca di Zlikan a Bashiqa. L’Iraq è un paese ormai privo di sovranità sul suo stesso territorio, ma il cui governo, nonostante siano presenti contingenti americani e israeliani, coi loro figliocci dell’ISIS, e i turchi a cercare di far la pelle ai curdi, ha ritrovato uno slancio anti-occidentale grazie alla presenza sul territorio delle IRCG (Islamic Revolutionary Guard Corps) che, disseminate in un territorio vastissimo, dall’Iraq fino alla Siria e al Libano, sono la vera spina nel fianco per USA e Israele. Tra il 6 e l’8 aprile ci sono stati otto attacchi a convogli logistici americani, in Iraq come nel governatorato siriano di Al-Hasakah, che hanno provocato ingenti danni materiali e la morte di numerosi mercenari, tutti rivendicati da Ashab al-Kahf, il gruppo islamico militante iracheno sciita, in realtà diretta emanazione dell’Iran, fondato nel 2019 e entrato in piena attività dopo l’assassinio del generale iraniano Qasem Soleimani ad opera degli Stati Uniti.
Dal canto suo, lo stato islamico, smantellato in Siria dagli sforzi congiunti di YPG, forze lealiste siriane, iraniani e russi, ha incrementato di molto la sua attività nelle poche sacche rimaste al centro e a est del paese: l’11 febbraio il rotocalco di Daesh al-Nabaa ha propagandato le operazioni dei suoi accoliti che hanno fatto 115 vittime tra morti e feriti in seguito ad agguati, omicidi, autobombe nelle città di Deir Ezzor, Al-Hasakah e Raqqa. Maggiori i problemi causati dai miliziani dell’ISIS nell’enclave controllata dalle Syrian Democratic Forces, i golpisti appoggiati dagli USA, mentre le truppe di Assad, pur con difficoltà, le hanno ridotte quasi all’impotenza. Tra il 6 e il 7 gennaio la Russia ha attaccato diverse postazioni ISIS con decine di attacchi aerei nella zona semidesertica tra Homs, Dayr az-Zor e Raqqa. Sarà forse che atlantisti e sionisti non hanno alcun interesse a fermare lo Stato islamico, creato proprio dalle loro intelligence, e che potrebbe svolgere ancora i propri servigi per l’occidente? Da fine maggio si registrano anche operazioni belliche contro Daesh da parte dell’esercito iracheno, la cui aviazione il 2 giugno bombarda delle grotte interconnesse nella montagna di Qara Jogh, mentre il 4 giugno le Hashd al-Shaabi (“Forze di Mobilitazione Popolare”) irachene si scontrano con l’ISIS a Tarmiyah, a nord della capitale Baghdad.
Lo stato più attivo sul piano bellico è però Israele, il paese che più di ogni altro punta a costruire un’egemonia militare sulla zona. Prima con gli Accordi di Abramo, poi col riavvicinamento alla Turchia, lo stato sionista mira ad annientare definitivamente i propri avversari nella regione, tanto che il 20 giugno il ministro della difesa Benny Gantz ha annunciato che Israele sta costruendo un’alleanza per la difesa aerea del Medio Oriente: “Ho guidato nell’ultimo anno insieme ai miei colleghi del Pentagono un vasto programma per rafforzare la cooperazione tra Israele e i paesi della regione. Questo piano è già in atto e ha già contrastato i tentativi iraniani di sfidare Israele e altri paesi del Medio Oriente”.
I raid aerei sulle postazioni iraniane e di Hezbollah in Siria e Libano, oltre ai lanci di missili effettuati dalle alture del Golan, sono stati dalla fine del 2021 pressoché ininterrotti: il 27 dicembre 2021 un attacco delle Israeli Air Forces reca ingentissimi danni al porto di Latakia, in Siria; tra gennaio e febbraio almeno sei attacchi, tra aerei e missili terra-terra colpiscono le città nei dintorni di Damasco, uccidendo e ferendo una decina di persone; il 7 marzo avviene il primo attacco all’aeroporto di Damasco, che distrugge presunti depositi di armi di milizie iraniane, facendo due vittime. Il 10 giugno un nuovo attacco distrugge due piste di atterraggio, costringendo l’aeroporto a restare chiuso per riparazioni fino al 24, giorno in cui riprendono i voli tra Iran e Siria; in questo caso anche la Russia si è espressa contro Israele: “Condanniamo fermamente l’attacco aereo israeliano all’aeroporto internazionale di Damasco. I bombardamenti israeliani in corso sono del tutto inaccettabili”, ha affermato il portavoce del ministero degli esteri, e il 15 giugno il viceministro degli esteri russo Michail Bogdanov ha ribadito questa posizione incontrando a Mosca l’ambasciatore israeliano. Ma Israele, deciso a non arretrare, ha addirittura rincarato la dose con l’iperbolica minaccia di bombardare il palazzo di Bashar El-Assad se la Siria non avesse fatto cessare immediatamente i trasferimenti di armi dall’Iran, che proseguono incessanti dal 2013 e contro cui le bombe sioniste, evidentemente, non possono fare molto per ora. Ancora una volta, l’Iran si riconferma il vero nemico.
Maggio è certamente il mese in cui la tensione tra Tel Aviv e Teheran sale alle stelle: all’assassinio, il 22, del colonnello dell’IRCG Hassan Sayad Khodayari, seguono le dichiarazioni di Naftali Bennett del 29: “l’era dell’immunità iraniana” è finita per sempre, e proprio quello stesso giorno inizia l’ultima fase dell’esercitazione “Chariots of Fire”, che simulava un attacco su vasta scala contro Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria e Iran; quest’ultimo veniva attaccato da cento aerei sulle proprie strutture nucleari. Sarà giugno, come vedremo, il mese della vera escalation tra Israele e Iran.
(continua qui)
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