Un quarantaquattrenne umbro è finito sotto processo per “stalking” nei confronti dell’allora premier Giuseppe Conte. In quelli che furono i giorni più infami della primavera 2020, quelli delle notti tenebrose, delle zone rosse e delle potenze di fuoco, costui inviò ventidue messaggi intimidatori alla casella di posta elettronica della presidenza del consiglio in cui augurava le peggiori cose all’avvocato del popolo e ai suoi congiunti. Fra gli epiteti ingiuriosi proferiti dall’imputato, “vigliacco”, “terrone” e “pecoraro”, mentre la frase più minacciosa di tutto il campionario sarebbe stata “Ti distruggo tutto”. Tre anni dopo, quando la sterile potenza di rabbia di quest’uomo s’era con ogni probabilità esaurita, egli è finito in due tritacarne, quello giudiziario e quello mediatico. Le due righe di biografia che gli dedicano i giornali suonano già come una minaccia all’ordine pubblico: disoccupato, con non meglio specificati precedenti per “minacce, molestie e droga”, cane sciolto del “negazionismo” non legato ad alcun gruppo politico. Dal canto suo, il signor nessuno che fu due volte capo del governo ha fatto un figurone, prendendosi a ridosso delle elezioni regionali in Friuli titoli come “Tuo figlio ti deve crepare fra le braccia. Lo stalker di Giuseppe Conte a processo”, oppure “Pecoraro del Popolo, tuo figlio deve morire: lo stalker di Giuseppe Conte a processo a Roma”. Al di là di questa vicenda, che sa tanto di “colpirne uno per educarne cento” e in cui il colpito non è uno dei milioni che s’era accontentato di scrivere contumelie sui social, ma uno che aveva scriteriatamente preso di mira l’account istituzionale del governo, prosegue il processo di vittimizzazione dei leader politici occidentali, i quali sarebbero costantemente esposti alla “violenza” esercitata dagli “odiatori” che imperversano nel mondo e nella rete. Per citare due casi che coinvolgono altri paesi europei, nel dicembre scorso tutta la classe politica tedesca si ritrovò vittimizzata in un colpo solo quando venne diramata la notizia del blitz contro i “golpisti” del principe Heinrich Prinz Reuss, fatto che diede l’occasione ai politici di tutti i partiti di gridare alla “democrazia indifesa”, mentre in Francia, quando sono stati vandalizzati gli uffici di alcuni deputati che si erano schierati con Macron sulla riforma pensionistica, i media hanno abbaiato al “rischio terrorismo”, immortalando in inattaccabili santini le vittime di questa “violenza” che tale non è. In Italia, di solito, in circostanze del genere una bella scorta non si nega a nessuno: solo con un codazzo di gorilla in occhiali da sole ci si può compiutamente fregiare del titolo di perseguitati. Un ventennio di narrazioni sul tema ci regala poi elementi di “sociologia della persecuzione”, con l’emergere, dopo le prime figurine di stalker animati perlopiù da ragioni sentimentali, dei persecutori “politici” di nuova generazione, quelli che in America passano presto o tardi a vie di fatto, imbracciano il fucile a pompa e fanno una strage. In Europa, questa saga del terrore è stata inaugurata da Anders Breivik, l’artefice dei due attentati avvenuti in Norvegia nel luglio 2011, fra i quali il più sanguinario fu il massacro di Utøya, l’isola lacustre dove vennero uccisi sessantanove ragazzi che stavano partecipando ad un incontro del Partito Laburista. La società della paranoia si nutre di questi miti neri, di questi “estremisti” che coltivano i loro cattivi pensieri nel buio delle camerette e nella solitudine dei garage prima di deflagrare nel mondo. Essi ne sono, anzi, i figli prediletti. “Persecutori” e “perseguitati” condividono lo stesso guinzaglio, tenendo in piedi la baracca narrativa quando questa vacilla, mentre dietro le quinte del carrozzone la vera persecuzione procede spedita.
GR
Lascia un commento