Nel fine settimana si è tenuto a Rimini il diciannovesimo congresso della CGIL, che si è concluso con la plebiscitaria riconferma di Maurizio Landini alla segreteria. A tenere banco, però, non è stato il verboso dibattito fra i delegati, e neanche la tavola rotonda fra i leader delle “opposizioni” Schlein, Conte, Calenda e Fratoianni, ma la partecipazione della premier Giorgia Meloni nella giornata di sabato, fatto irrituale per un capo del governo (l’ultima volta era capitato con Prodi nel 1996) e ancor di più per un esponente di quell’aria politica. Nei giorni che hanno preceduto lo “storico” discorso meloniano, un bel quarto d’ora (abbondante) di celebrità è toccato pure ad Eliana Como, sindacalista turbofemminista che capeggia la sparuta opposizione interna a Landini. Costei, grondando indignazione per la presenza della “fascista” Meloni all’assise della CGIL, ha architettato alcune trovate (mediaticamente) efficaci per esprimere il suo dissenso: prima ha esibito la mantella con la scritta “Meloni pensati sgradita in CGIL”, citazione del messaggio rivoluzionario lanciato dalla compagna Ferragni al festival di Sanremo, poi ha abbandonato la sala con la ventina di delegati organici alla sua mozione “Le radici del sindacato” quando la premier ha fatto il suo ingresso, intonando la solita Bella ciao e lasciando peluche sulle sedie vuote come gesto di accusa contro la strage di Cutro, di cui la stessa Meloni è considerata responsabile. Considerando che la mozione di opposizione al landinismo ha ottenuto appena il 2% fra gli iscritti alla CGIL, tutta questa visibilità è stata un colpaccio. I giornali hanno descritto come “fredda”, se non “glaciale” l’accoglienza riservata alla presidente del consiglio, che non è stata fischiata solo perché Landini s’è tanto raccomandato coi suoi al riguardo. Fondamentalmente, si è trattato di un do ut des: invitando la Meloni, Landini si è preso quelle prime pagine che altrimenti gli sarebbero state negate; accogliendo l’invito, Giorgia Meloni si è (mediaticamente) riscattata dopo le figuracce rimediate in Calabria e la diffusione del video con lei e Salvini a cantare stretti stretti all’indomani della tragedia consumatasi nel Mar Ionio.Lo stesso Landini, inoltre, dopo il controverso invito alla premier (con la quale ha pure avuto un colloquio riservato del quale si è detto “soddisfatto”), ha chiuso il congresso della CGIL con parole di fuoco contro la riforma fiscale dell’esecutivo, spingendosi a lanciare uno sciopero generale fuori tempo massimo. L’effetto di queste sparate rasenta il comico: gli ultimi trent’anni del sindacato attestano che la sua “conflittualità” si è accesa a intermittenza a seconda del colore del governo. Con i governi “nemici” cortei, bandiere, fischietti e lotta dura senza paura; con i governi “amici” (fra i quali il più amico di tutti è stato forse quello del Drago, con il quale Landini ha posato in una foto che passerà agli annali), invece, le bandiere tornavano nei cassettoni, e le stesse “riforme” ch’erano cattivissime se a proporle erano i berlusconiani divenivano per incanto accettabili se portate avanti dalla “sinistra”. E così, il sindacato che alcuni spudorati ancora definiscono “rosso” ha avallato l’introduzione di forme sempre più odiose di precariato, lo smantellamento dei diritti acquisiti in cinquant’anni di lotte “vere”, la demolizione dello stato sociale, l’innalzamento dell’età pensionistica. Proprio su quest’ultimo punto appare stridente il confronto con l’omologo sindacato francese della CGT, in prima fila nella mobilitazione contro la assai meno draconiana riforma delle pensioni portata avanti dal governo transalpino. Quando da noi s’è fatto ben di peggio, la CGIL non era nelle piazze, ma in qualche saletta a discutere di emolumenti e prebende con rappresentanti di secondo piano del governo in carica. Quello che ancora si vanta di essere “il più grande sindacato italiano”, infatti, è da almeno vent’anni un mero erogatore di (costosi) servizi, un carrozzone parastatale, un ricettacolo di burocrati che, nella stragrande maggioranza dei casi, non hanno lavorato un solo giorno in tutta la loro vita da privilegiati. Di tutto questo, i lavoratori italiani sono da tempo consapevoli: la CGIL perde centinaia di migliaia di iscritti ogni anno (sorte comune agli altri due sindacati confederali), quasi il 60% delle tessere è rappresentato dai pensionati (fatto di per sé paradossale), in base ad un’indagine commissionata dagli stessi vertici sindacali i giovani non vedono alcuna utilità nell’iscriversi. Il massimo sindacato si sta riducendo ai minimi termini: siamo ormai al di sotto dei cinque milioni di iscritti, con l’ultima botta alla sua credibilità data dalla condotta tenuta negli anni pandemici, quando la CGIL ha avallato sospensioni, licenziamenti e soprusi assortiti. Ma che importa: c’è da combattere per i diritti dei migranti, per l’utero in affitto, contro questo fascismo eterno che non ne vuole sapere di tirare le cuoia. Sono queste le priorità del minimo sindacato.
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