Marco Di Mauro
Avanti.it
Negli ultimi dieci giorni il governo di Teheran si è trovato a fronteggiare un’ondata di proteste che, partita dal Kurdistan iraniano a nord-ovest del paese, si è propagata in breve tempo in tutto l’Iran settentrionale fino a raggiungere il litorale caspiano e il nord Khorasan. Tutto è iniziato all’arrivo della notizia della morte di Mahsa Amini, giovane arrestata mercoledì 14 settembre a Teheran dalla Gašt-e Eršād – la “Pattuglia di Guida” istituita dal governo Ahmadinejad nel 2005 per battere le strade del paese in nome del buon costume – per non indossare correttamente l’hijab, il velo tradizionale delle donne iraniane. Di solito, essere prelevati dai furgoncini biancoverdi non comporta troppi rischi, e si è liberi dopo qualche ora di attesa, un interrogatorio e una formazione sul corretto modo di vestire. Così non è stato per la Amini, entrata in coma il giorno stesso dopo essere collassata improvvisamente nella sala d’attesa del commissariato di Vozaran. Un infarto o un ictus, dunque, la versione ufficiale di Hussein Rahimi, capo della polizia di Teheran, fin da subito contestata da alcuni dei familiari di Mahsa e da testimoni che dicono alla BBC Iran di aver assistito a una colluttazione tra gli agenti della Pattuglia e la giovane che, resistendo all’arresto, avrebbe subito diversi traumi da contusione, tra cui uno fatale alla scatola cranica, e sarebbe stata portata in ospedale già in gravi condizioni, senza passare per alcun commissariato. Nei due giorni del coma che hanno preceduto la morte di Mahsa, la BBC persiana ha condotto una vera e propria campagna mediatica a sostegno della tesi della brutalità poliziesca, andata per la maggiore nonostante dalle foto della sfortunata giovane in terapia intensiva non trasparisse alcun segno evidente di percosse; quando il 16 settembre la ragazza muore, presagendo disordini, la polizia tenta di imporre ai familiari una cerimonia funebre riservata, ma il giorno dopo nel villaggio curdo di Saqqez, dove è nata Mahsa, gli astanti sono centinaia. Presto il corteo funebre diventa una manifestazione di protesta, e nelle stesse ore anche a Teheran iniziano cortei di solidarietà verso la giovane, inizialmente pacifiche marce di cittadini che denunciano gli abusi della Pattuglia, ma poco dopo arrivano le orde. Si tratta soprattutto di giovani e giovanissimi senza controllo, che, gridando “morte al dittatore” Ali Khamenei, accoltellano agenti o gli danno fuoco tra gli applausi – in un caso testimoniato da un video su twitter, non letale grazie all’intervento dei colleghi – bruciano negozi e auto, sia civili che della polizia, non risparmiando le ambulanze che accorrono (il ministero della salute ne ha contate 61 distrutte in tutto il paese), e fin qui può sembrare una protesta spontanea, sebbene l’estrema violenza dei manifestanti la discosti nettamente dalle manifestazioni che ormai da due anni hanno luogo nel paese contro il governo Raisi e la cattiva gestione della crisi economica e dell’inflazione. Anche a giugno c’erano state fortissime contestazioni contro il governo, propagatesi in tutto il Khorasan, dopo il crollo di un palazzo che aveva fatto una cinquantina di vittime, ma in questa ondata di violenza c’è qualcosa, un elemento in più, che rende le proteste troppo diverse da quelle tipiche di un paese fortemente religioso come l’Iran, ed è una smaccata iconoclastia. Non si tratta soltanto delle ragazzine che bruciano il proprio hijab in piazza, ma di orde di giovani che vandalizzano luoghi sacri all’islam, bruciano ritratti del generale Soleimani, aggrediscono le donne per strada forzandole a togliere il velo. Inoltre, se inizialmente le proteste per la Amini chiedevano una punizione per i colpevoli dell’omicidio, diffondendosi in tutto il nord del paese sono divenute profondamente anti-islamiche, chiedendo la fine della repubblica islamica e la secolarizzazione della società sul modello occidentale. E proprio questo tratto ricorda un gruppo ben conosciuto in Iran, il gruppo d’opposizione Mojāhedin-e Khalq, una vera e propria organizzazione terroristica con sede in Albania e attiva nel paese già dalla rivoluzione islamica del 1979. A marzo di quest’anno lo storico e giornalista albanese Olsi Jazexhi ha dichiarato che il gruppo è finanziato e sostenuto da USA, Israele e Gran Bretagna: “Il MeK è un culto islamofobo e terrorista come l’ISIS, Al-Qaeda o Jahbat al Nusra… Questi culti denunciano l’Islam politico, la lotta per la decolonizzazione dei musulmani, chiedono la separazione della religione dalla politica, chiedono la secolarizzazione delle società musulmane e vogliono de-islamizzare violentemente il mondo musulmano”. La sua attività consiste soprattutto in omicidi su commissione delle intelligence estere, e un reportage della NBC attribuisce a loro la lunga serie di omicidi di scienziati iraniani avvenuta negli ultimi anni. Nel 2021, riporta il New Yorker, il MeK ha ricevuto un ampio addestramento dal Comando congiunto per le operazioni speciali (JSOC) del Dipartimento della Difesa statunitense. «Non è un caso» riporta Hiba Moran, analista politica dell’Università di Teheran «che il 18 agosto John Bolton, ex consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, abbia affermato che la chiave (per il cambio di regime) è il popolo iraniano, che rappresenta una minaccia per il “regime”. Bolton ha fatto questa dichiarazione durante una conferenza organizzata a Washington dal gruppo terroristico anti-iraniano MeK con sede in Albania. Allo stesso evento, l’ex vice comandante del Comando europeo degli Stati Uniti Robert Joseph ha fatto eco alle parole di Bolton, affermando che la chiave è il popolo iraniano. Anche Yonatan Freeman, professore di scienze politiche presso la Hebrew University di Gerusalemme, all’inizio di settembre ha dichiarato che il regime israeliano non è soddisfatto del rilancio dell’accordo nucleare. Egli ha affermato che una delle opzioni per Israele è quella di sostenere, segretamente o pubblicamente, la cosiddetta “opposizione” iraniana nel suo tentativo di rovesciare il governo in carica a Teheran.» Insomma, si tratterebbe di veri e propri riots, sul modello del maggio 2020 negli Stati Uniti e – proprio come questi ultimi – vi è più di un sito dove si possono trovare i disordini mappati scrupolosamente, zona per zona, con annesso link del video su Twitter. Non è la prima volta che l’asse anglo-sionista utilizza i curdi (insediati non solo a nord-ovest al confine con l’Iraq, ma anche a nord-est con maggiore densità nel Nord Khorasan, e da sempre ostili al regime dei pasdaran come ostacolo al riconoscimento della parte orientale del proprio stato) per attaccare Teheran, come era già avvenuto nel 2018, quando proteste molto simili – sia per luogo che per modalità – avevano provato a destabilizzare il paese e l’allora governo Rouhani aveva risposto con violenza, causando 28 morti e 450 arresti. Il premier aveva accusato il suo predecessore Mahmoud Ahmadinejad, ma indagini successive fecero venir fuori nuovamente lo zampino del MeK. Lo stesso Mahmoud nel 2008, anno della sua rielezione, aveva dovuto fronteggiare la “rivoluzione verde”, organizzata dall’Open Society Institute del solito Soros, poi bandito dal paese, e che ebbe i tratti non violenti della rivoluzione colorata, ma che finì in un nulla di fatto.
Il presidente Ebrahim Raisi, di ritorno dall’incontro della Shangai Cooperation Organization a Samarcanda, si è trovato un paese in fiamme: infestato il nord, le rivolte si stavano propagando celermente anche nelle regioni centro-meridionali. Così, è iniziata una durissima repressione governativa, con violente cariche, centinaia di arresti e spari ad altezza d’uomo: ad oggi si contano 71 morti e più di cento feriti. Sono state ordinate dal governo tre indagini separate sulla morte di Mahsa Amini, una per conto dell’esecutivo, una supervisionata dal presidente della camera e una dal ministero della giustizia: il 19 settembre viene trasmesso a reti unificate un video estratto dalle telecamere di sicurezza del commissariato di Vozaran in cui si vede la giovane seduta con altre donne durante il discorso di formazione sull’abbigliamento e poi alzarsi in piedi per parlare con un agente, collassare sul posto e ricevere i primi soccorsi. Il 20 settembre parla sul canale televisivo IRIB TV2 il dottor Massoud Shirvani, neurochirurgo, che rivela la storia clinica della giovane, alla quale era stato rimosso un tumore al cervello all’età di otto anni, e che da allora seguiva una terapia farmacologica ormonale sotto la supervisione di un endocrinologo, notizia confermata dalla famiglia – nonostante altri membri alla BBC avessero dichiarato che era “perfettamente sana” al momento dell’arresto – con alcuni che addirittura hanno dichiarato ai giornalisti che Mahsa non era nuova a collassi o svenimenti. Tre medici hanno visionato separatamente la TAC alla testa della sventurata, dichiarando non esservi alcun segno di lesione dovuto a percosse. Se è ad oggi impossibile distinguere quali siano le informazioni vere da quelle favorevoli a una delle parti in conflitto, una cosa è certa: il popolo iraniano non è dalla parte dei rivoltosi, e, quando dopo la repressione governativa il livello di violenza nelle strade è calato e con esso la paura di esprimersi, in decine di migliaia sono scesi in piazza nelle principali città del paese per condannare l’eccessiva violenza e blasfemia di queste rivolte, così come avevano fatto nel 2018. Domenica 24 settembre il ministero degli esteri iraniano ha rilasciato questo comunicato: «In risposta all’atmosfera ostile creata dai media londinesi in lingua farsi contro la Repubblica islamica dell’Iran, l’ambasciatore britannico è stato convocato dal direttore generale del ministero degli Esteri per l’Europa occidentale», pertanto è stata presentata una nota di protesta all’ambasciatore Simon Shercliff perché i media iraniani con sede a Londra «hanno cercato tenacemente di provocare proteste violente e di istigare disordini contro il governo iraniano e la popolazione» e questo costituisce una grave violazione della sovranità dell’Iran.
La fiammata di violenza di questi giorni – che, nonostante i media generalisti europei non se ne siano accorti per nulla, si è quasi del tutto spenta – è una chiara espressione della volontà dell’asse anglo-sionista di sfruttare la crisi economica per rovesciare il governo degli ayatollah, loro cruccio cinquantennale, e nel breve termine boicottare l’accordo sul nucleare iraniano, in cui il paese si impegnerebbe ad attuare una de-escalation sull’impiego militare dell’energia atomica (supportato dalla Russia) in cambio di diverse tutele sul suo utilizzo in campo civile. Questo segnerebbe un duro colpo per la Trilateral e il suo progetto di un Medioriente perennemente in fiamme, e nella strategia consolidata al Bilderberg di quest’anno di una “cerniera” di guerre che separi le due sfere di influenza americana e russo-cinese. Ma anche stavolta la repubblica islamica, seppur vacillando, è rimasta in piedi.
PIETRO dice
Ottimo lavoro di ricerca giornalistica. Complimenti! Gli organi di stampa dell’impero della menzogna hanno di contro in questi giorni propinato molte falsità per turlupinare l’opinione pubblica su questo argomento di attualità!