Giuseppe Russo
Avanti.it
Povero Enrico Letta. Richiamato in servizio mentre pascolava placido nel suo dorato esilio accademico francese, dopo aver giurato e spergiurato di non volersi più dedicare alla “politica attiva”, ancora segnato dagli schiaffi presi quando era presidente del consiglio, ha alfine risposto presente all’ennesima chiamata alle armi, diventando segretario del Partito Democratico all’indomani delle tempestose dimissioni di Nicola Zingaretti, nel mese di marzo dello scorso anno. Una volta eletto dall’assemblea nazionale piddina con un plebiscito che nascondeva, già allora, il retrogusto di fregatura, Letta si è rimboccato le maniche per onorare la missione impossibile affidatagli dai fratelli coltelli, quella di “salvare il PD” mantenendo al contempo la sua funzione di perno del sistema politico. A lungo acquattato all’ombra del Drago e del suo governo, di cui sono state entusiasticamente appoggiate le politiche più scellerate, come il segregazionismo vaccinale prima, la demolizione più o meno controllata del tessuto produttivo poi e. in ultimo, l’autolesionista bellicismo ucrainofilo su mandato dei padroni d’oltreoceano, Letta è stato costretto a uscire dal guscio in occasione della caduta dell’esecutivo, impegnandosi in una campagna elettorale che si sarebbe volentieri risparmiato.
E già, perché Enrico Letta, pur essendo un enfant prodige della politica (divenne una prima volta ministro a 32 anni nel governo D’Alema), la sua legittimazione non l’ha mai cercata nelle piazze o nei congressi, ma nelle segrete stanze dove si amministra il Potere, accreditandosi nel tempo come uno dei migliori maggiordomi in circolazione: pacato e pignolo, ubbidiente e servizievole, cosmopolita e poliglotta, la sua figura ha rappresentato il prototipo del tecnopolitico in auge nella Seconda Repubblica. Nella sua irresistibile ascesa di giovane vecchio che conquista uno scranno dopo l’altro, Enrico Letta non ha mai avuto bisogno di procacciarsi voti, ma solo di coltivare relazioni, arte nella quale era già maestro suo zio, quel Gianni Letta a lungo felpato braccio destro di Silvio Berlusconi. Una parentela così ingombrante avrebbe azzoppato la carriera di chiunque, ma non quella di Letta nipote: quando fu nominato sottosegretario alla presidenza del consiglio nel secondo governo Prodi, nel 2006, andò ad occupare la stessa carica detenuta dallo zio nel precedente esecutivo presieduto dal “nemico” Berlusconi, e in pochi fecero notare il paradosso degno della peggiore repubblica delle banane. Da capo del governo, poi, prima di essere spodestato a suon di hashtag e colpi di mano dall’arrembante Matteo Renzi, Enrico Letta inaugurò la stagione delle cosiddette “larghe intese”, dando vita ad un asse con i transfughi berlusconiani di Angelino Alfano e mostrando fino in fondo la sua vocazione all’ecumenismo tecnocratico: con il pilota automatico “europeista”, il colore dei governi è al massimo materia di oziosi dibattiti nelle redazioni giornalistiche, e non serve un capo carismatico, ma basta un affidabile burocrate.
Quell’affidabile burocrate era lui: negli anni ruggenti della sua scalata provò pure a costruirsi non un bacino clientelare come i politicanti di vecchia scuola, ma una rete di supporto nell’italico sottobosco del magna magna, dei “prenditori” in affari con la pubblica amministrazione, degli alti papaveri con le agende piene di nomi pesanti. In questo senso, Letta promosse la costituzione del think tank “VeDro”, le cui riunioni annuali nella cittadina di Dro, nei pressi delle sponde trentine del lago di Garda, videro la partecipazione della crème de la crème della politica e dell’imprenditoria, sempre con spirito “bipartisan”: fra i “lettini” di quegli anni si ricordano gli orgogliosamente berlusconiani Nunzia De Girolamo, Maurizio Lupi e Beatrice Lorenzin (poi “convertita”). Gli appuntamenti “vedroidi” si susseguirono dal 2005 al 2012; ufficialmente, l’incontro del 2013 non si tenne poiché l’ispiratore era appena diventato capo del governo; in realtà, la fondazione VeDro era appena stata oggetto di un’indagine della Guardia di Finanza che aveva l’obiettivo di fare luce sui finanziamenti che copiosi le arrivavavano, fra gli altri, da ENI, Sisal, e Lottomatica. Successivamente, di VeDro non si sentì più parlare, e gran parte dei lettini della prima ora, cambiata la direzione del vento, si accasarono presso la fondazione “Big Bang” di Matteo Renzi, l’ente che avrebbe organizzato la kermesse annuale nota come “Leopolda”. A conti fatti, Renzi seppe rubare ad Enrico Letta l’idea, il metodo, gli uomini e infine pure la guida del governo. Sic transit gloria mundi.
La segreteria di Enrico Letta è stata caratterizzata, almeno inizialmente, dalla volontà di mettere in piedi un’alleanza politica a cui è stato giornalisticamente attribuito il nome di “campo largo”; in tale campo avrebbero dovuto mettere radici tutte le forze politiche “progressiste” ed “europeiste” che si oppongono al “sovranismo” del centrodestra, coalizione dipinta ancora una volta come l’incarnazione del Male nonostante sono dieci anni che il PD costruisce maggioranze e governi assieme a pezzi di essa. Così, secondo uno schema consolidato, al corpaccione del partitone si sarebbero dovuti affiancare i “centristi” di Calenda e Renzi, la “sinistra” di Fratoianni e Bonelli e, soprattutto, il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, depurato degli eccessi “populisti” della prima ora e folgorato sulla via del draghismo. Le elezioni amministrative della scorsa primavera erano state il primo banco di prova per il “campo largo”, sebbene orfano in quasi tutti i comuni chiamati al voto delle truppe calendiste e renziane. Pur perdendo di brutto nelle due maggiori città coinvolte, Palermo e Genova, Enrico Letta aveva parlato di “risultato straordinario” alludendo alla conquista dei sindaci di Catanzaro, Piacenza, Monza e soprattutto Verona (dove, detto per inciso, il candidato vincente Damiano Tommasi si era tenuto alla larga dal comizio conclusivo dello stesso Letta). Dopo la caduta del governo Draghi, quando è giunto il momento di fare le cose sul serio in vista elezioni politiche, il campo è andato tuttavia restringendosi fino a ridursi ad un orticello spelacchiato. I primi ad esserne allontanati sono stati i pentastellati, ritenuti colpevoli del più infame e imperdonabile dei crimini, il “draghicidio” che aveva lasciato l’Italia in balia delle onde senza il suo Grande Timoniere. Andati via loro, s’era creato lo spazio per far accampare il riottoso Calenda, che aveva più volte ribadito la sua ostilità a qualunque intesa con il movimento guidato dall’ex “avvocato del popolo”. Un posticino si sarebbe trovato pure per Renzi, nonostante l’iniziale veto di Enrico Letta, ancora divorato dal rancore risalente ai tempi in cui l’uomo di Rignano gli augurava di “stare sereno” prima di pugnalarlo alle spalle. Eppure, non se n’è fatto nulla: il capriccioso Calenda ha prima detto “ni,” poi “sì” e infine “no”, perdendo per strada i sodali di +Europa (“campolarghisti” fino alla fine) e finendo col dare vita a un campicello “centrista” con il miracolato Renzi, che, snobbato da tutti, stava per restare col cerino in mano. Oggetto del contendere, la presenza nel fronte lettiano degli “irresponsabili” dell’alleanza Verdi – Sinistra Italiana, rei di aver votato una cinquantina di volte contro il governo del sublime Drago e di essere ostili alla costruzione di nuovi inceneritori e rigassificatori. Alla fine, a presidiare il “campo largo” prima della battaglia campale del 25 settembre sono rimasti il PD col suo tendone e le tre tendine di +Europa, dell’alleanza Verdi – Sinistra e di Impegno Civico, la creatura messa in piedi da Luigi Di Maio e Bruno Tabacci.
Ai tavoli delle trattative per stabilire le candidature della coalizione nei collegi uninominali, Enrico Letta ha recitato con ostinazione la parte del fesso. In una prima fase, quando della partita era pure il duo Calenda-Bonino, aveva assicurato alla lista di questi ultimi (che a occhio e croce avrebbe “pesato” un sesto o un settimo della lista piddina) il 30% delle candidature comuni, riservando allo stesso Calenda pure il diritto di veto su nomi considerati “divisivi”; andato via il leader di Azione, Emma Bonino, rimasta coi suoi ultrà europeisti nel perimetro dell’ex “campo largo”, ha rivendicato la stessa quota, mentre l’8% veniva concesso agli uomini di Tabacci e Di Maio. La verità è che, stime e sondaggi alla mano, di collegi “sicuri” per il centrosinistra ne sono rimasti pochissimi, e poche sono pure le realtà in cui il seggio appare “contendibile”; in questi collegi, collocati perlopiù negli ultimi avamposti delle già “rosse” Emilia-Romagna e Toscana, una quota rilevante delle candidature è stata riservata all’alleanza rossoverde di Bonelli e Fratoianni (lo stesso Bonelli e l’ex sindacalista Aboubakar Soumahoro sono candidati alla Camera rispettivamente nei collegi di Imola e Modena, Ilaria Cucchi rappresenta la coalizione nel collegio senatoriale di Firenze), mentre ad Emma Bonino è stata assegnata la candidatura nel più “contendibile” dei collegi romani e a Pier Ferdinando Casini è stato “regalato”, come già quattro anni fa, il seggio senatoriale di Bologna città. Anche nel dare vita alle liste per i collegi plurinominali di Camera e Senato Enrico Letta si è mostrato prodigo con gli alleati: “Italia Democratica e Progressista” (questo il nome della lista patrocinata dal PD) annovera fra i capilista alla Camera gli ex LEU Roberto Speranza e Federico Fornaro, oltre alla “sinistra” vicepresidente della giunta emiliano-romagnola Elly Schlein, mentre al Senato posti con elezione assicurata sono stati riservati a “mister spending review” Carlo Cottarelli, al microbiologo d’assalto Andrea Crisanti e alle ex segretarie di CGIL e CISL Susanna Camusso ed Annamaria Furlan; un occhio di riguardo si è anche avuto per due neofite del partito che, a occhio, di voti dovrebbero portarne pochi: Laura Boldrini, candidata alla Camera in Toscana, e Beatrice Lorenzin, in corsa per il Senato in Veneto. Letta ha anche imposto la candidatura di quattro giovanissimi, due dei quali, Rachele Scarpa e Raffaele La Regina, sono finiti nel tritacarne mediatico per alcune loro dichiarazioni di ostilità allo Stato d’Israele: alla fine il secondo, che è anche segretario regionale della Basilicata, è stato costretto a gettare la spugna e ritirarsi dalla corsa, ma la figuraccia è stata, ancora una volta, tutta del segretario nazionale. Nel complesso, le liste sono state sottoposte ad un pesante processo di epurazione in virtù del quale non sono stati ricandidati (o lo sono stati, ma in posizioni “impossibili”) diversi maggiorenti del partito che parevano intoccabili, come, fra gli altri, Luca Lotti, Valeria Fedeli, Alessia Morani, Emanuele Fiano, Monica Cirinnà. Guadagnano quota, invece, le posizioni del vicesegretario Peppe Provenzano, capofila dell’ala “sinistra” del PD, e di Dario Franceschini, che strappa un posto sicuro per sé al Senato e per la compagna Michela De Biase (che ci terrebbe a non esser chiamata “lady Franceschini”) alla Camera. Inalterato appare il potere di due discussi ras locali, come Emiliano e De Luca: il primo ha fatto il bello e il cattivo tempo in Puglia, imponendo pure la candidatura del suo capo di gabinetto Claudio Stefanazzi (gli oppositori hanno presentato formale ricorso per l’assenza di donne nel ruolo di capolista e perché i candidati non sono passati attraverso le elezioni primarie come prevederebbe lo statuto), il secondo ha preteso un posto “blindato” per il figlio Piero nella seconda circoscrizione campana. Come prevedibile, nel PD son presto volati gli stracci: complici la riduzione degli scranni seguita alla riforma istituzionale, il calo dei consensi e gli scriteriati “regali” fatti agli alleati, parecchi hanno dovuto abbandonare i sogni di gloria, e fra le diverse correnti, cordate e comitati d’affari è scoppiata una guerra per bande che minaccia di fare molte vittime. I primi a cadere sono stati Albino Ruberti, ex capo di gabinetto del sindaco di Roma Gualtieri, e l’allora candidato in pectore alla Camera nel Lazio Francesco De Angelis: una mano malandrina ha diffuso, a parecchie settimana di distanza dai fatti, un video in cui Ruberti sbraita, con toni da Romanzo criminale, contro il fratello di De Angelis, minacciando pure di sparargli. Sullo sfondo, le lotte per accaparrarsi i posti alle regionali laziali previste per il prossimo anno. E questo è solo l’inizio.
Inaugurando la campagna elettorale, Enrico Letta ha rilasciato dichiarazioni che hanno fatto impallidire le metafore zoologiche per le quali era divenuto celebre il suo predecessore Pierluigi Bersani (quello dei “giaguari da smacchiare” e delle “mucche nel corridoio”) e che finiscono di diritto nello stupidario politico: “A partire dalla giornata di oggi, dobbiamo avere gli occhi di tigre. Nei momenti che passerete alle nostre feste, che sono tantissime in tutta Italia, comunicate con gli occhi di tigre ai militanti”. Lo sguardo tigresco dovrebbe essere sfoggiato per accompagnare i ruggiti antifascisti (somiglianti sempre più a rantoli) atti a persuadere il popolo bue della “pericolosità” di Giorgia Meloni e della sua coalizione, con due terzi della quale il PD è stato al governo fino a ieri. L’ultima stracca crociata contro il Fascismo Eterno (c’è sempre qualcuno che abbocca) è stata bandita solo per onor di firma: nessuno si illude possano tornare i bei tempi delle mobilitazioni sardinesche. Inoltre, c’è un limite a tutto: paventare il rischio di una “svolta autoritaria” con il centrodestra al governo dopo che il PD ha appoggiato l’istituzione del Green Pass e del regime segregazionista, ovvero il più significativo processo di limitazione delle libertà costituzionali dopo la fine del Fascismo (quello vero), non può che suscitare grasse (ma amare) risate. Ad ogni modo, qualcosa bisognava pur inventarsi per onorare la campagna elettorale: sulle prime, si è provato a scaldare i cuoricini perorando le cause dello “ius scholae”, del “DDL Zan” e del diritto all’eutanasia; successivamente, visti i magri riscontri, il PD ha ripreso in mano la bandiera degli aborriti diritti sociali, provando maldestramente ad accreditarsi come “partito del lavoro”. In tal senso, il capolavoro è stato il manifesto in cui si prometteva a tutti i lavoratori dipendenti “un mese di stipendio in più”, una “quattordicesima” da elargire grazie al taglio delle tasse. Una brusca inversione di marcia c’è stata pure sul reddito di cittadinanza: ieri iattura populista, oggi “strumento da preservare dall’attacco della destra”. Mai come stavolta, la campagna comunicativa del PD rappresenta un oltraggio al pudore, uno sfregio alla decenza, un’offesa all’intelligenza.
Enrico Letta non vincerebbe le elezioni neppure se i tanto esaltati “occhi di tigre” producessero un’ipnosi di massa. La legge elettorale, il cosiddetto “Rosatellum” di matrice renziana, potrebbe consegnare al centrodestra una maggioranza larghissima in entrambi i rami del Parlamento. In uno scenario siffatto, un partito che si dice “democratico” non potrebbe che accettare il verdetto delle urne preparandosi a cinque anni di dura opposizione, ma le cose non stanno proprio così, ed a chiarirlo è sempre il segretario piddino, che pure presenta il seguente assunto come una “percezione sbagliata”: “Non governeranno, vinceranno ma non governeranno perché si squaglieranno e a quel punto rientrerà in gioco tutto. Si rimescoleranno le carte in Parlamento.” Fra gli scenari fantapolitici che vanno prendendo corpo per il dopo voto, infatti, vi sono quello in cui Mattarella dà l’incarico non al capo della coalizione, ma del partito più votato (e pure in questo caso Letta non dovrebbe correre rischi, visto che gli ultimi sondaggi danno il PD sotto il 20%), quello in base al quale Forza Italia si sfila dall’accoppiata “sovranista” Meloni-Salvini per appoggiare una maggioranza “europeista” assieme a lettini e calendisti, addirittura quello di un “compromesso storico” all’ennesima potenza fra Fratelli d’Italia e Partito Democratico, conditio sine qua non per permettere a Giorgia Meloni di varcare la soglia proibita di Palazzo Chigi. Insomma, come capita da parecchi anni a questa parte, per volontà dei padroni americani, tedeschi e francesi di cui il PD cura gli interessi con una pervicacia che sarebbe degna di miglior causa, non potrebbe insediarsi alcun governo senza la rassicurante (per Loro) partecipazione del partito oggi guidato da Enrico Letta.
È estremamente improbabile che il buon Enrico rimanga in sella dopo il 25 settembre, visto il tracollo annunciato; per molti versi, egli è già oggi un morto che cammina, pronto a tornare, mentre scalda i motori il favorito alla successione Stefano Bonaccini, nelle sue amate università parigine. Facendo un bilancio della campagna elettorale, la sensazione è che Letta abbia giocato “a perdere”: la sua condotta è stata talmente sciagurata che appare arduo attribuirla a mera insipienza politica. Le volontà del Padrone sono imperscrutabili, e un maggiordomo degno di questo nome esegue senza porsi domande.
peo dice
Grazie per la concisione, avevo tanto tempo e non sapevo proprio che fare …
AVANTI tutta !!!