Con lo spirito da prima della classe che da sempre la contraddistingue, Giorgia Meloni si è prodigata per organizzare la “Conferenza bilaterale sulla ricostruzione dell’Ucraina”, che si è tenuta a Roma il 26 aprile con la partecipazione dei rappresentanti di centinaia di grandi imprese italiane e ucraine allo scopo di spartirsi i miliardi che stanno per giungere a Kiev prima ancora che la guerra sia terminata. Per le istituzioni italiche, premier, ministri e presidente della repubblica hanno ribadito il “dovere morale” di supportare il popolo ucraino eccetera eccetera, con la Meloni che ha assicurato “sostegno a 360 gradi” al regime di Zelensky, auspicando inoltre che il paese dalla bandiera gialla e blu entri al più presto a far parte dell’Unione europea; da Kiev hanno invece mandato il capo del governo Denys Shmyhal ed il ministro degli esteri Dmytro Kuleba, i quali hanno invitato gli imprenditori ad investire senza remore nella ricostruzione del loro paese visto che la vittoria finale è lì a un passo. Zelensky non s’è scomodato, ma è intervenuto in videoconferenza esibendo il canonico look militareggiante e ricevendo, mentre si abbandonava alla “commozione”, la più prevedibile delle standing ovation. Nel suo discorso ha descritto questa “ricostruzione” con termini sibillini, alludendo alla necessità di rispettare gli standard di “sicurezza” per far sì che “ogni padre e ogni madre possa essere tranquillo che nessuna organizzazione terroristica colpisca i loro figli”. L’Ucraina è terra di grandi esperimenti: i prossimi riguarderanno la “sicurezza” della popolazione, ed è in funzione di questo che andranno a sfociare a Kiev quei fiumi di miliardi di cui s’è parlato a Roma. Secondo il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, nei prossimi dieci anni ne serviranno ben quattrocento: il governo italiano si candida ad essere fra i principali contributori. Solo durante la conferenza son stati bruciati sull’altare ucraino un miliarduccio e spiccioli in accordi e promesse: cento milioni di euro andranno subito a rimpinguare le casse del Bei, il fondo di garanzia “Eu for Ukraine”, mentre un miliardo tondo tondo entrerà nelle disponibilità della SACE, l’agenzia pubblica che si occupa dell’erogazione di finanziamenti alle imprese italiane che operano all’estero. Questo ente, che vide la luce nel 1977 come “Sezione speciale per l’Assicurazione del Credito all’Esportazione”, è dal 2004 una società per azioni il cui patrimonio è interamente detenuto dal ministero dell’economia e finanze, “evoluzione” che ha permesso ai suoi amministratori di avere le mani libere sul mercato dei prodotti finanziari, acquisendo società già attive, fondandone di nuove ed aprendo sportelli all’estero, Presidente della SACE in quegli anni di tumultuosa crescita era Lorenzo Bini Smaghi, grand commis che oggi siede nel comitato esecutivo della Banca centrale europea, il quale si insediò come successore di Mario Draghi, che aveva invece guidato l’istituto dal 1998 al 2001, quando aveva lasciato l’incarico per andare a prestare servizio, in quel sistema di porte girevoli che girano all’infinito, presso la sede londinese della Goldman Sachs. Dopo mille giri di porte, da Palazzo Chigi Draghi si sarebbe ricordato di quell’istituto misconosciuto da lui con profitto presieduto promulgando il cosiddetto “Decreto SACE”, che ha regolato il riassetto dell’agenzia attraverso quello che ai profani non può che sembrare un gioco di scatole cinesi, con la SACE che ha trasferito alla Cassa depositi e prestiti la sua partecipazione in una società terza, la SIMEST, e Cassa depositi e prestiti che ha ceduto al ministero dell’economia il 100% della SACE stessa. Dopo questo decretino, la SACE è stata abilitata ad operare anche in Italia, accreditandosi come erogatrice di finanziamenti a imprese operanti sul territorio nazionale e come produttrice di garanzie per quelle aziende che lavoreranno nell’ambito del Green New Deal, progetto di cui l’agenzia è considerata ente attuatore già dal luglio 2020, quando era stato Giuseppe Conte ad emanare un primo decreto che ne modificava il profilo per far fronte alle emergenze innescate dalla pandemia. Insomma, c’è questa SACE che gestirà i miliardi destinati alla ricostruzione in “sicurezza” dell’Ucraina premurandosi, si suppone, che non vadano a cani e porci ma vengano ripartiti rispettando le “quote” stabilite in sede politica; tale ente, dopo avere operato per venticinque anni esclusivamente nel settore della protezione degli investimenti italiani all’estero, s’è dato alla finanza creativa dopo un primo riassetto (quello del 2004), per diventare poi protagonista dello strategico Green New Deal in seguito a due recenti decreti legge, l’ultimo dei quali promulgato dal già presidente SACE Mario Draghi; lungi dall’essere un’agenzia pubblica “qualunque”, la SACE ha visto ai vertici negli anni della Seconda Repubblica la crème della tecnocrazia italiana (oggi il presidente è Filippo Giansante, un draghetto di vent’anni più giovane), operando sempre lontano dalla ribalta mediatica in modo che l’opinione pubblica restasse ignara della sua esistenza. Unendo i puntini, prende corpo l’ipotesi che il Green New Deal, prima di farlo in Italia, lo “sperimenteranno” in Ucraina, e lo faranno coi soldi nostri.
GR
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