Marco Di Mauro
Avanti.it
Mentre i faccendieri dei padroni globalisti che governano i simulacri delle nostre democrazie stanno facendo di tutto per inventarsi nuove sanzioni alla Russia dissimulando il più possibile il fatto che non hanno alcuna intenzione di toccare gli idrocarburi, il burattino americano Jens Stoltenberg ha dato uno strattone deciso ai fili del suo omologo Volodymyr Zelens’kyj poco prima del G7 straordinario che si è tenuto ieri. Il premier ucraino aveva dato un chiaro segnale di apertura alla pace con la Russia se le truppe si fossero ritirate dal paese sulle posizioni del 23 febbraio. La risposta del segretario generale della NATO non si è fatta attendere: “I membri della NATO non accetteranno mai l’annessione illegale della Crimea. Ci siamo sempre opposti al controllo russo su parti del Donbas nell’Ucraina orientale” insomma, caro eroe stai a cuccia. Un comportamento che solleva definitivamente il velo su due questioni: la prima è il fatto – ormai conclamato dopo la “soffiata” del New York Times sulla partecipazione dell’intelligence americana all’uccisione di 12 generali russi e l’affondamento della Moskva – che il Pentagono non solo è coinvolto nella guerra, ma lo è più dell’Ucraina stessa, al punto che è Stoltenberg a trattare la pace, non certo l’eroicomico Zelens’kyj; la seconda è che la guerra, per gli americani, non deve ancora finire, perché i pescecani non hanno ancora sfruttato l’occasione fino all’ultimo.
In pole position ci sono le grandi compagnie petrolifere al soldo dei globalisti, che stanno accumulando profitti stellari in questo 2022, come non li vedevano da tempo[1]: comparando i bilanci societari del primo trimestre dell’anno scorso con l’anno corrente, Shell è passata da $3,2 mld a 9,1; British Petroleum da 2,6 a 6,2; Total da 3 a 9; Chevron da 1,4 a 6,3; ExxonMobil da 2,7 a 5,5; Saudi Aramco da 49 a 110; PetroChina da 4,2 a 5,9; Eni da 0,3 a 3,3. Da chi vengono tutti questi soldi? dagli oligarchi russi o dalle sanzioni? Vengono tutti dalle tasche dei cittadini, costretti a pagare la benzina a un prezzo stratosferico per una mera speculazione che con la guerra non ha nulla a che fare. In effetti, nonostante la roboante manfrina che le ha accompagnate, le sanzioni non hanno ancora toccato gli approvvigionamenti di idrocarburi da Mosca, né Gazprom ha alzato i prezzi. Stando a quanto dichiarato dal ministro Cingolani a inizio marzo, i profitti triplicati dell’Eni dipenderebbero da una gigantesca speculazione, perché l’innalzamento dei prezzi avverrebbe nel passaggio dall’Ente ai singoli distributori. Questo, però, non basta a spiegare l’importanza del petrolio nel conflitto russo-americano in Ucraina: il primo obiettivo non era arricchire le multinazionali degli idrocarburi, ma soffocare la vocazione europea della Russia, isolarla e tagliare i legami tra i paesi europei e i suoi colossi Gazprom e Rosneft, per lasciare il mercato alle multinazionali del petrodollaro. Pur dovendo subire pesanti contraccolpi, le Big Oil hanno seguito il diktat, ad esempio British Petroleum ha venduto tutte le sue partecipazioni in Rosneft registrando una perdita di 29,29 miliardi.
Proviamo a delineare il contesto geopolitico facendo un salto indietro di trent’anni. L’inizio di questo secolo ha visto il decennio d’oro delle Big Oil: ai profitti smisurati ricavati dalla guerra contro Saddam erano seguiti i picchi record di valore del barile registrati con la crisi del 2008, e nel 2010 sembrava che le prime guerre dei Neocon e la crisi innescata ad arte dalle lobby dei derivati tossici avrebbero garantito all’economia a traino petrolifero almeno un ventennio di vita. Così non è stato, innanzitutto per l’entrata in scena della Turchia di Erdogan, che è divenuto primo interlocutore dell’ISIS e controllore di gran parte del suo petrolio di contrabbando e poi ha interferito pesantemente nella crisi libica, impedendo la soluzione a senso unico prospettata dalla Clinton e i suoi. Per non parlare della Russia, che ha bloccato la destituzione forzata di Assad in Siria e si è garantita, con l’annessione della Crimea, la partita a due con la Turchia nel mar Nero. Intanto, la strategia della NATO all’inizio degli anni dieci si è concentrata sul fronte europeo orientale, arrivando all’instaurazione di un regime a vocazione neo-nazista in Ucraina con a capo il luogotenente americano Juščenko: alimentazione delle tensioni etniche e rafforzamento degli apparati militari per preparare la guerra, prevista dalla RAND – think tank tra i più vicini alla CIA – con largo anticipo.
Era inevitabile, perché la perdita di terreno in Medio Oriente, sancita definitivamente con la smobilitazione dell’Afghanistan nel 2021, aveva portato i paesi dell’Unione Europea a stringere partnership sempre più solide con i vicini orientali, con la Russia che tra il 2016 e il 2019 metteva in funzione 60 nuovi giacimenti petroliferi in casa propria, aumentando la sua produzione a 900mila barili al giorno e divenendo il concorrente principale dell’Arabia Saudita, primo produttore dell’Opec, con cui si è scatenata una vera e propria guerra dei prezzi. Dal 2016 si era registrato un calo della domanda mondiale, e l’Opec aveva tagliato la produzione di 2 milioni di barili al giorno, per evitare l’abbassamento dei prezzi, riducendola ulteriormente a marzo 2020 di 1,5 milioni; la Russia si era rifiutata di adeguarsi ai tagli per preservare la propria economia, dipendente per il 40% dall’export del greggio nazionale, già indebolito dalle sanzioni americane imposte dopo il 2014. Così, il 5 marzo 2020 le dichiarazioni del Cremlino fanno crollare il prezzo del barile del 10%, da 45,86 a 41,28 $.
Subito dopo è arrivata l’operazione Covid, che bloccando il settore dei trasporti su gomma e su ala ha causato il crollo di circa il 58% della domanda, precipitando il barile a 19,78 $ nel mese di aprile, a fronte di un calo di produzione del 9% da 102,44 a 92,2 milioni di barili al giorno: uno shock per tutto il mercato. Terminati i lockdown avviene qualcosa di strano: la domanda di petrolio sale quasi ai livelli pre-pandemia – anzi l’EIA ha stimato per il 2021 un incremento del 4% della domanda rispetto al 2019, proveniente soprattutto dall’Asia – ma a ciò l’Opec non fa corrispondere un significativo aumento della produzione, e anzi al vertice straordinario di aprile decide di mantenere i tagli di -7 milioni di barili al giorno rispetto al 2020. [2] Così, a giugno il barile valeva 70 $, cioè più del pre-pandemia, ed era destinato a salire con la guerra d’Ucraina, ai 110 $ che oggi pesano sulle economie nazionali di tutti i paesi. Eppure, all’Opec basterebbe semplicemente aumentare la produzione del greggio ai livelli del gennaio 2020, per provocare un abbassamento dei prezzi e dare una boccata d’aria alle economie, oppure proporre ai paesi membri di mettere sul mercato le voluminose scorte di petrolio che hanno accumulato durante i lockdown, quando producevano senza vendere: o sarà che lo hanno conservato prevedendo di poterlo rivendere con una maggiorazione del 60%?
V’è un chiaro intento dei paesi dell’Opec di utilizzare la guerra per aumentare vertiginosamente i propri profitti e tornare a essere validi concorrenti dei petrolieri russi. Il nuovo pacchetto di sanzioni, quello che si è nuovamente discusso oggi ma tarda ad arrivare, è quello decisivo per loro: riuscire a tagliare gli approvvigionamenti via Nord Stream 1 e Turkish Stream obbligherebbe di fatto la Russia a radicarsi a oriente. E il prezzo da pagare per questa guerra del petrolio è tutto nelle nostre tasche.
[1] Dati tratti da Il Fatto Quotidiano del 09/05/2022
[2] Dati tratti da Orizzonti Politici https://www.orizzontipolitici.it/quale-futuro-per-il-mercato-del-petrolio-dopo-il-covid/
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