Giuseppe Russo
Avanti.it
Negli anni ’80 del secolo scorso il dottor Robert Goldman, osteopata e medico sportivo americano, condusse un’indagine sui generis sul doping nello sport, i cui risultati furono poi esposti nel suo Death in the Locker Room (“Morte nello spogliatoio”) del 1984. Goldman pose a 198 atleti di primo piano dell’atletica leggera, del sollevamento pesi e degli sport da combattimento il seguente quesito: “se potessi assumere un farmaco in grado di farti vincere tutte le competizioni portandoti poi alla morte dopo cinque anni, lo faresti”? Al quesito, noto come “dilemma di Goldman”, risposero positivamente in 103.
Il dilemma torna attuale nel momento in cui, a pochi giorni dalla scomparsa di Gianluca Vialli per un tumore al pancreas, diversi ex calciatori hanno associato la tragedia all’uso smodato di farmaci nel mondo del pallone, liberandosi di quella cappa di omertà che ha sempre circondato la controversa questione. Il primo a rompere il ghiaccio è stato Dino Baggio, centrocampista che negli anni ’90.vestì per sessanta volte la maglia della nazionale: intervenendo in una trasmissione di una rete locale veneta, il Baggio “minore” ha affermato senza mezzi termini che il doping c’è sempre stato, che troppi ex calciatori si ammalano di mali incurabili e che lui stesso ha paura. Gli hanno fatto presto eco due colleghi che calcarono i campi di calcio nello stesso periodo di Dino Baggio, Florin Raducioiu e Massimo Brambati. Il primo, ex attaccante rumeno che giunse in Italia dopo i mondiali del ’90 militando in Bari, Verona, Brescia e Milan, ha parlato di pillole e di flebo piene di liquido rosa che gli sarebbero state somministrate nei suoi anni in serie A, soprattutto nel Milan; il secondo, ex difensore che prese parte ai giochi olimpici di Seul del 1988, si è spinto oltre, denunciando non solo la prassi dell’abuso di Micoren (uno “stimolante respiratorio” che allora non era catalogato fra le sostanze proibite), ma anche le minacce ricevute dalla Federazione Italiana Giuoco Calcio dopo che, a carriera ultimata, aveva provato a rendere pubblico il malcostume del calcio farmaceutico. A chiudere il cerchio è stato infine il campione del mondo Marco Tardelli, il quale, intervistato dal Corriere della Sera, ha ammesso di aver preso più volte il Micoren e descritto a chiare lettere il clima che si respirava negli spogliatoi ai suoi tempi in fatto di “medicine”.
Il “doping” (dall’inglese dope, droga, ma esistono anche altre etimologie) si definisce come la pratica di migliorare le prestazioni sportive attraverso l’uso di sostanze vietate. Tale pratica è antica quanto lo sport stesso: nelle Olimpiadi dell’antica Grecia gli atleti erano soliti ingozzarsi di testicoli di toro, vino e “pozioni magiche” a base di erbe prima delle gare. Il medico Galeno aveva persino trovato la ricetta del perfetto doping ante litteram: bisognava bollire nell’olio gli zoccoli posteriori di un asino abissino, aromatizzandoli a fine cottura con petali di rosa. Agli imbroglioni, comunque, toccava una sorte peggiore della squalifica, visto che i loro nomi (assieme a quelli dei loro familiari) venivano scolpiti nella pietra lungo il percorso che conduceva allo stadio. Nell’ambito dello sport “moderno”, il doping iniziò a diffondersi già nell’Ottocento, quando presero piede gare di resistenza che si articolavano su più giorni, mettendo in palio per i vincitori ricchi premi in denaro. All’epoca, ogni corridore era accompagnato dal suo soigneur (traducibile come “massaggiatore” o “guaritore”) la cui principale funzione era quella di custodire boccette e polverine “miracolose” da tirare fuori all’occorrenza. Nei primi anni ruggenti dello sport agonistico, era stato soprattutto il ciclismo ad essere caratterizzato da quello che ancora non si chiamava “doping”: per dirne una, Gianni Brera scrisse apertamente che Fausto Coppi, in occasione del record dell’ora del 1942, aveva trangugiato sette bustine di anfetamina. Nel secondo dopoguerra sono stati soprattutto i paesi comunisti (in primis la Germani Orientale) a guadagnarsi la fama di “farmacisti” dello sport, mettendo in piedi un sistema scientifico di alterazione delle prestazioni che culminò nei tanti record del mondo stabiliti nell’atletica leggera e la cui triste eredità è rappresentata dalle donne tedesco-orientali che, dopo essere state bombardate di ormoni maschili durante la carriera agonistica, furono costrette al cambio di sesso in età avanzata. Le Olimpiadi in cui lo sport perse l’innocenza furono quelle di Roma del 1960, nelle quali morì il ciclista danese Knud Enemark, il quale cadde rovinosamente durante la 100 km a squadre dopo aver assunto in quantità eccessiva il Ronicol, un farmaco contenente alcol di nicotinile tartrato. Dopo di allora, la lotta al doping divenne una priorità del Comitato Olimpico Internazionale, in nome sia dell’etica dello sport e sia della salvaguardia della salute degli atleti. I controlli sistematici furono istituiti a partire dai giochi di Città del Messico del 1968: da allora, è stata tutta un’incessante guerra fra guardie e ladri, con il doping che s’è fatto scienza a sé stante allo scopo di eludere i controlli con formule sempre più sofisticate. I casi di Ben Johnson, lo sprinter canadese al quale fu revocato l’oro ottenuto sui 100 metri alle Olimpiadi di Seul del 1988, e di Lance Armstrong, il ciclista statunitense che si vide cancellare le vittorie ottenute dal 1999 al 2005 al tour de France sono rimasti scolpiti nell’immaginario collettivo, minando la credibilità del ciclismo e dell’atletica leggera, considerati gli sport più inquinati dal doping.
Il calcio, in base ad un luogo comune duro a morire, è stato sempre considerato meno permeabile al fenomeno doping rispetto agli sport individuali, vista la prevalenza delle abilità tecniche su quelle atletiche. In realtà, diverse vicende oscure hanno caratterizzato il calcio internazionale nel secondo dopoguerra. Il padre di tutti gli scandali è quello che coinvolse i cosiddetti “eroi di Berna”, ovvero i calciatori della nazionale tedesco-occidentale che vinsero i mondiali del 1954 in Svizzera battendo in finale per 3 a 2 la favoritissima Ungheria, denominata all’epoca Aranycsapat, ovvero “la squadra d’oro”, che aveva fra l’altro già battuto i tedeschi nel girone eliminatorio con un roboante 8 a 3. A qualche mese dalla vittoria, quasi tutti i calciatori della rosa tedesca si ammalarono di epatite e, nonostante la cosa fosse di dominio pubblico, la FIFA non ritenne fosse il caso di aprire un’inchiesta. Ad oltre cinquant’anni di distanza, la verità venne a galla grazie alle indagini del giornalista Erik Eggers, il quale ricostruì la storia della frode sportiva appurando che ai calciatori tedeschi era stato fatto assumere il Pervitim, un’anfetamina che nel corso della II Guerra Mondiale veniva distribuita con generosità a soldati ed aviatori guadagnandosi il nome di “cioccolata da combattimento”. Doping e calcio sarebbero andati a braccetto nella Repubblica Federale Tedesca per tutto il resto del XX secolo: prima dei mondiali del 1966 tre calciatori risultarono positivi all’efedrina (senza essere squalificati), mentre negli anni ’80 il silenzio omertoso che accomunava nazionale e squadre di club fu rotto dalla pubblicazione di Anpfiff (“Calcio d’inizio“), l’autobiografia del portiere Harald “Toni” Schumacher”, all’interno della quale si descriveva con dovizia di particolari la “medicalizzazione” del campionato tedesco. Secondo Schumacher, già a partire dagli anni ’70 era dilagato l’uso del Captagon, uno stimolante a base di fenetillina prodotto dal colosso farmaceutico Degussa che si sarebbe guadagnato, quarant’anni dopo, la nomea di “droga dell’Isis” in virtù della sua diffusione fra i miliziani islamisti. Nonostante diversi calciatori di primo piano avessero sostenuto la fondatezza delle rivelazioni di Schumacher, intorno al portiere fu fatta terra bruciata: non solo non venne più convocato nella nazionale tedesca, di cui aveva difeso i pali ai mondiali del 1982 e del 1986, ma venne anche sbolognato dal Colonia, la società nella quale era cresciuto e con la quale aveva collezionato più di 400 presenze, trovandosi poi costretto a riparare nel campionato turco. Il monumento del calcio teutonico Franz Beckenbauer, in quegli anni commissario tecnico della nazionale, dichiarò sprezzante che in tutta la sua carriera non aveva mai conosciuto la parola doping. Per una di quelle amare ironie di cui è piena la storia, Harald Schumacher aveva scelto di ribattezzarsi “Toni” in onore di Toni Turek, il portiere della Germania Occidentale campione del mondo nel ’54 grazie alla “cioccolata da combattimento”. Qualche anno prima della sua emarginazione, Schumacher era sceso in campo in Germania Occidentale – Algeria, partita inaugurale dei tedeschi ai mondiali del 1982, conclusasi con la clamorosa vittoria dei nordafricani per 2 a 1 (poi vanificata dal “biscotto” fra tedeschi e austriaci nell’ultima partita del girone). La selezione algerina era allenata da un anno dal tecnico sovietico Gennady Rogov, il quale si era portato da Mosca tutto lo staff, rivoluzionando i metodi di allenamento e proiettando la squadra ai vertici del calcio africano. A distanza di una decina d’anni, diversi membri di quella rosa, incontrandosi, scoprirono di avere messo al mondo figli disabili, e solo allora venne a galla la natura del “miracolo” algerino. Nel 2006 un’altra controversa autobiografia scoperchiò invece il vaso di Pandora del doping nel campionato francese, puntando il dito su quell’Olympique Marsiglia che si era laureato campione d’Europa nella stagione 1992-93.battendo il Milan di Capello nella finale di Champions League. Jean-Jacques Eydelie, che di quella squadra era l’esterno destro, nel suo Je ne joue plus ! (“Non gioco più !”) descrisse le origini “chimiche” dei successi marsigliesi, con lo stesso presidente, il controverso magnate Bernard Tapie, che si dava da fare distribuendo pillole ai giocatori. L’ombra del doping sul calcio transalpino si sarebbe allungata fino ai mondiali del 1998, quando la Francia vinse, da padrona di casa, il primo titolo iridato della sua storia, surclassando in finale il Brasile di un Ronaldo trasformato in fantasma dall’abuso di farmaci. Quattro anni prima, ai mondiali americani del ’94, vi era stato invece il celeberrimo caso della squalifica di Diego Maradona, positivo all’efedrina dopo la partita con la Nigeria, vicenda dopo la quale el pibe de oro avrebbe più volte gridato al complotto della FIFA contro di lui. Alla fine del secolo, i vertici del calcio mondiale corsero ai ripari contro la piaga del doping, disponendo, a partire dai mondiali under 17 del 1999, il test di controllo delle urine per due calciatori estratti a sorte in tutti i match internazionali. A partire dalla stagione 2005-2006, invece, si inaugurò la pratica di sottoporre le squadre di club a controlli “a sorpresa”, con blitz degli ispettori antidoping direttamente sui campi d’allenamento.
Il calcio italiano del secondo dopoguerra è stato pesantemente condizionato dall’abuso di farmaci che solo per un vuoto legislativo non erano considerati “doping”. La prima gola profonda a raccontare il malcostume fu un centravanti dalla vita spericolata, Carlo Petrini, che rilasciò una contundente intervista al Corriere della Sera nel dicembre del 1998, all’indomani degli scandali che coinvolsero Juventus e Parma, in cui descriveva l’impunito dilagare di bottigliette e “siringate” nel calcio professionistico italiano degli anni ’60 e ’70, con i controlli antidoping ridotti ad una “buffonata” e la decisiva complicità dei medici. “Noi eravamo paurosamente bombati: al confronto, creatina e ormoni della crescita diventano caramelle” le frasi che sintetizzano l’intervista. Negli anni successivi, prima di spirare a causa di un tumore al cervello all’età 64 anni, Petrini avrà modo di dare alle stampe nove opere, tutte edite da Kaos Edizioni (Nel fango del dio pallone, Scudetti dopati, Calcio nei coglioni fra le altre) nelle quali tratteggerà spietato il panorama di uno sport irrimediabilmente malato, e non solo per via del doping. Forte è il sospetto che il male che si è portato via Petrini fosse stato originato dagli intrugli ingurgitati a forza nel corso degli anni o da altre pratiche controverse come le sedute di Roentgenterapia, radiazioni alle quali ci si sottoponeva per guarire più in fretta dagli infortuni. Diversi sono stati infatti i calciatori professionisti che a fine carriera si sono ammalati, chi prima e chi più tardi, di tumori, leucemie e sclerosi laterale amiotrofica (nota anche come “morbo di Gehrig”), con un’alta concentrazione di casi fra gli ex tesserati di Fiorentina e Sampdoria negli anni ’70 e del Como agli inizi del decennio successivo: il Corriere della Sera ne enumera trentatrè nel suo reportage significativamente descritto come “la Spoon River dei calciatori con il morbo maledetto”.Per giungere ad una consapevolezza diffusa dell’incidenza del doping nel calcio italiano bisognerà però attendere gli anni ’90, che iniziano con quella che, alla luce di quanto si appurerà in seguito, appare come un’innocente marachella: la squalifica dei romanisti Angelo Peruzzi e Andrea Carnevale per l’assunzione del Lipopill, un farmaco dimagrante contenente fentermina. Il 1991 fu invece caratterizzato dai quindici mesi di squalifica inflitti a Diego Maradona per positività alla cocaina (una sorte analoga sarebbe toccata al connazionale Claudio Caniggia due anni dopo), fatto che condurrà ad associare sistematicamente ed arbitrariamente il campione argentino al doping, pur non essendo le cosiddette “droghe ricreative” (comunque rilevate dai controlli) efficaci nell’alterazione delle prestazioni sportive. Alla metà del decennio si impose sul campo lo strapotere fisico e atletico della Juventus allenata da Marcello Lippi, che fu in grado di vincere, dopo anni in cui la società bianconera era rimasta (quasi) a bocca asciutta e al termine di un processo di radicale rinnovo del parco dirigenziale, tre campionati, la Champions League del 1996 e la Coppa Intercontinentale dell’anno successivo, oltre ad altre coppe e supercoppe. Poi, nell’estate che precedette la stagione 1998-99, l’allora tecnico della Roma Zdenek Zeman lanciò un paio di bombe contro quella Juve, invocando prima la fuoriuscita del calcio dalle farmacie e rilasciando poi un’intervista all’Espresso nella quale denunciava come sospette le “esplosioni muscolari” di diversi calciatori juventini come Vialli e Del Piero. La Juventus provvide a querelare l’allenatore boemo mentre allontanava silenziosamente dal suo staff tecnico il preparatore atletico olandese Henk Kraaijenhof, che giungerà successivamente ad invocare la liberalizzazione degli anabolizzanti. Zeman si trovò comunque isolato; per rendere l’idea dell’atmosfera che lo avvolse in quel frangente, fra dirigenti che dichiaravano il calcio immune dal doping e medici sportivi che sostenevano l’inefficacia dei farmaci nel miglioramento delle performance, giova riportare le parole di Roberto Mancini, oggi allenatore della nazionale ed allora trequartista della Lazio: “…in vent’anni di carriera non ho mai neanche avuto il sospetto che il calcio fosse un ambiente come quello descritto dall’allenatore della Roma. Faccio questo mestiere da una vita e non solo non mi è mai capitato di imbattermi in medici senza scrupoli o in sostanze illecite, ma non mi è mai capitato neanche di riscontrare una situazione di questo tipo nei miei compagni di squadra” (citazione tratta da Indagine sul calcio del compianto Oliviero Beha, lavoro a cui questo articolo è debitore). Quasi venticinque anni dopo, all’indomani delle già citate esternazioni di Dino Baggio, lo stesso Mancini ha avuto occasione di dire che “bisogna stare attenti quando si dichiarano cose del genere” e che “certe cose possono accadere a tutti, dalle persone normali ai calciatori professionisti”. Fu tuttavia l’ex “gemello” di Mancini negli anni d’oro della Sampdoria a polemizzare con maggiore veemenza all’indirizzo di Zdenek Zeman: Gianluca Vialli, nel frattempo passato al Chelsea, diede del “terrorista” al boemo, appellandosi alla Federcalcio affinché lo squalificasse “per almeno un anno”. Successivamente il magistrato Raffaele Guariniello, in servizio presso la Procura della Repubblica di Torino, aprì un’inchiesta sull’abuso di farmaci, e nel suo ufficio sfilarono pateticamente, impacciati e ammutoliti, i campioni del calcio dell’epoca. Sul banco degli imputati finirono su tutti l’amministratore delegato ed il medico sociale del club bianconero, rispettivamente Antonio Giraudo e Riccardo Agricola, i quali furono assolti dalla Corte di cassazione, dopo un lungo iter giudiziario, solo nel 2007. La principale accusa a loro carico era quella di “frode sportiva” che si sarebbe consumata attraverso la massiccia somministrazione agli atleti dell’ormone noto come eritropoietina o EPO. Indimenticabile al riguardo lo striscione che affissero all’epoca i tifosi dell’Inter: “Juve 1994-1998: la belle EPOque”. Quella maledetta stagione 1998-99 proseguì con il “caso Parma”, in cui diversi calciatori della squadra ducale furono “pizzicati” con i valori di ematocrito fuori dalla norma. Sei anni dopo giunse all’attenzione del pubblico addirittura una prova video di quelle pratiche illecite: un anonimo fece pervenire alla RAI un filmato nel quale Fabio Cannavaro, in forza al Parma a fine anni ’90, il giorno prima della finale di Coppa UEFA contro l’Olympique Marsiglia così si esprimeva mentre gli veniva somministrata una flebo del farmaco cardioprotettore Neoton: “Ecco come siamo ridotti…mi stanno ammazzando a 25 anni…questa cassetta me la vendo, sai quanto ci faccio…dai dottore, bucami…questa è la prova che facciamo schifo”. Dopo che il video era stato visto da milioni di telespettatori ed il calciatore era stato omaggiato del “tapiro d’oro” dalla trasmissione Striscia la notizia, il solito Mancini, diventato allenatore, dichiarò: “Cannavaro che cosa ha fatto di illecito? Se una persona normale si sente debole, il dottore può consigliare di fare una flebo”. Il ruspante tecnico romano Carletto Mazzone, uno che negli anni si è guadagnato la stima di tanti appassionati per la sua sanguigna genuinità, disse invece che “le flebo le fanno anche gli impiegati, specialmente nel periodo primaverile” (tutte le citazioni sono tratte dal già citato Indagine sul calcio). A titolo di curiosità, si potrebbe ricordare che lo stesso Mazzone sarà due anni dopo indagato dalla Procura di Firenze per omicidio preterintenzionale in relazione alla prematura scomparsa di Bruno Beatrice, calciatore della Fiorentina degli anni ’70 morto a 39 anni per una leucemia e allenato proprio dal tecnico romano nelle stagioni in cui venne “bombato” dai medici. Un anno prima che assurgesse agli onori delle cronache l’affaire Cannavaro, le orme del già menzionato Carlo Petrini erano state seguite da un’altra gola profonda che ebbe il coraggio di parlare a quarant’anni dai misfatti di cui era stato testimone. Nella sua autobiografia Il terzo incomodo, Ferruccio Mazzola, fratello del più celebre Sandro, gettò un’ombra sulla “Grande Inter” che vinse tre scudetti, due coppe dei campioni e due intercontinentali nella prima metà degli anni ’60 sotto la guida di Helenio Herrera. Il tecnico argentino, soprannominato “il Mago”, era solito offrire ai giocatori quello che confidenzialmente veniva chiamato “il caffè di Herrera”, un caffè corretto con le anfetamine il cui abuso potrebbe essere all’origine della prematura scomparsa del capitano di quella “Grande Inter”, Armando Picchi, morto per un tumore nel 1971 a 36 anni scarsi. Ferruccio Mazzola venne querelato dalla dirigenza interista (che gli chiese tre milioni di euro di risarcimento) e le sue parole furono disconosciute anche dal fratello Sandro, che della Grande Inter era stato un pilastro. Ferruccio Mazzola è morto nel 2015, a 68 anni. Dopo aver fatto nel suo libro nomi e cognomi di dirigenti, allenatori, calciatori e medici coinvolti nel doping, la Procura di Firenze aprì quell’indagine già citata prima a proposito di Carletto Mazzone. Tutti i reati risultarono prescritti nel 2009.
Polveroni si erano dunque alzati sul calcio italiano ben prima della morte di Gianluca Vialli e delle dichiarazioni di Dino Baggio e, com’è prassi in questo paese sciagurato, tutto era stato sopito, silenziato, insabbiato, finendo a tarallucci e poo po po po po poooo poo. Del resto, nella società della competizione in cui siamo immersi, il calcio dei miliardi è uno degli ambiti in cui più palesi sono le abiezioni e gli eccessi legati al culto e alla pratica della competizione stessa, in Italia come altrove. In uno scenario così desolante, la chiusa di questo articolo è dedicata a un campione che volle restare pulito in un mondo sporco di chimica. Il centravanti tedesco Rudolf “Rudi” Völler giocò nella Bundesliga delgi anni ’80 (quella di Schumacher), nella Roma di inizi anni ’90 (quella di Carnevale) e nell’Olympique Marsiglia del 1992-93 (quello di Eydelie) ma, a detta dei compagni di squadra poi divenuti “gole profonde”, rifiutò sempre polveri, pillole, flebo e siringhe. Ciò nonostante, fu campione d’Europa e del mondo da calciatore, mentre da allenatore della nazionale tedesca sfiorò il titolo iridato giungendo secondo ai mondiali del 2002.
Arteseo dice
Incredibile descrizione dell’attimo. Partendo dal presupposto che la civiltà da quando è nata si è sempre drogata. E da lì che nasce il rapporto ludico con lo sballo a scopo ricreativo di massa, prima di allora erano riti Shamani propiziatori. La cosa interessante a mio avviso è il rapporto socio-farmacologico che gli ultimi 80 anni hanno apportato Alla storia umana. Per intenderci la cultura del dottore di paese che infarcisce di ogni tipo di medicinale i suoi pazienti, e arriva a trovargli delle malattie, che principalmente servono ad allungare le sue vacanze di qualche settimana e iniziare a comprare villa e barca al male. Di conseguenza l’ indottrinarmento all’uso snodato dei farmaci e alla produzione di farmaci sempre più efficienti per malattie cronache che prima dall’ora non esistevano. Le case farmaceutiche diventano colossi e poi imperi, multinazionali, e poi holding in stile black rock. Io mi ricordo da giovane il mio passaggio dalla medicina allopatica a quella omeopatica, era per me un aprire gli occhi sul mondo dei farmaci. Naturalmente mi drogavo per compensare il gap con il resto dei farmaco-dipendenti. Il punto è che quello che abbiamo visto negli ultimi tre anni è stato la punta dell’ iceberg di un secolo industriale e della sua nefasta evoluzione nel controllo della salute. Che visto alla luce di oggi possiamo ben intuire che era il contrario di quello che si voleva reclamizzare! La tua salute per noi è importante, ovviamente se ti ammali; perché delle persone sane e sane di mente non c’è ne facciamo un cazzo. Anzi se sei prossimo alla morte diventi ancora più interessante. La morte è la sua inevitabile comparsa è stata resa la vera protagonista, perché è chiaro in un mondo di tossici abbandonati da Dio e soprattutto dalla fede: la tua paura della morte assicura alle multinazionali un giro di affari sempre sano, e guadagni in continua evoluzione a vita. La loro chiaramente: la tua e ridotta alla miseria umana.
Il Contadino dice
Un amico era tra i professionisti del ciclismo, ha corso tre volte il Giro d’Italia, fine anni 90 inizio 2000. A detta sua il più pulito tra i professionisti (e non solo) ha il sangue blu (lui compreso). Ricordo che ci dava le pasticche di caffeina quando giocavamo i tornei di calcetto estivi, gran divertimento, quelle pasticche erano “lecite”, le teneva in dispensa, senza problemi, altre scatole un tantino più compromettenti erano custodite in garage, lontane da occhi indiscreti e da possibili perquisizioni.
Comunque, i tempi sono cambiati, ai giorni nostri ci viene detto che Jacobs vince i 100 metri anche grazie al vaccino, purtroppo non ricordo chi l’abbia detta, vi assicuro che le mie orecchie hanno sentito anche questa.
Ora basta, vado a farmi un caffè, liquido