Marco Di Mauro
Avanti.it
Sua Maestà Rama X, al secolo Raha Vajiralongkorn, ha sciolto oggi il parlamento thailandese e indetto le prossime elezioni, il cui svolgimento secondo costituzione dovrà avvenire entro sessanta giorni dal decreto odierno. Come ormai è una costante nella storia politica del paese sin dal 2006 – anno in cui fu costretto all’esilio il magnate delle telecomunicazioni Thaksin Shinawatra, all’epoca al suo secondo mandato come primo ministro del paese, da un intervento delle alte sfere militari – anche queste elezioni vedranno contrapporsi il blocco militarista, che rappresenta le alte sfere della società thailandese e si è avvicinato negli anni sempre più saldamente a Pechino, e il radicato appoggio popolare conquistato dalle politiche assistenzialiste e dall’utilizzo sapiente del quinto potere di Shinawatra, sostenuto dal democraticissimo occidente, che raccoglie ancora i frutti di un sapiente populismo esercitato durante gli anni del suo dominio assoluto sulla Thailandia, dal 2001 al 2006, quando un colpo di stato militare lo depose e una successiva incriminazione per corruzione lo costrinse a fuggire a Londra. Nonostante tutto, Thaksin ha vinto finora tutte le elezioni indette in seguito: nel 2008, nonostante lui fosse contumace e nel periodo tra il golpe e le urne gli apparati dello stato controllati dall’esercito avessero lavorato alacremente per smembrare il suo apparato di potere, vinse il Phak Palang Prachachon (“Partito del Potere Popolare”) che si era autonominato erede della politica del thai-coon, ospitando tra le sue fila quei membri del suo partito non interdetti dai pubblici uffici (Thai Rak Thai, sciolto nel 2007), la cui vittoria tuttavia portò a enormi manifestazioni d’opposizione da parte delle Suea Lueang, le “camicie gialle” dell’Alleanza Popolare per la Democrazia che bloccarono il paese e la cui repressione violenta da parte del governo non incontrò l’appoggio dell’esercito, fino a essere esautorato dai giudici della Corte costituzionale; la successiva nomina senza consultare le urne di un governo anti-Thaksin suscitò comunque proteste popolari da parte dei suoi sostenitori, le camicie rosse del Fronte Unito della Democrazia contro la Dittatura, i quali vennero duramente repressi dall’esercito con un vero e proprio eccidio nei successivi due anni. A luglio del 2011 furono indette, dopo tre anni di stallo, nuove elezioni, e manco a dirlo le vinsero ancora i sostenitori di Shinawatra, stavolta riunitisi nel partito Pheu Thai guidato da Yingluck Shinawatra, sua sorella minore, il cui governo venne interrotto nel 2014 non dalle proteste delle camicie gialle, che comunque non mancarono, ma ancora una volta dalla Corte costituzionale, cui seguì un altro colpo di stato militare. Stavolta il generale Prayuth Chan-ocha, deciso a non farsi sfuggire nuovamente il potere, nomina se stesso primo ministro ad interim e non fa svolgere elezioni fino al 2019, quando le indice sì, ma solo dopo essersi garantito, con un opportuno cambio della costituzione che riforma totalmente il sistema elettorale, che a vincere sarà lui. Nulla di strano: stessa cosa aveva fatto Thaksin nel 1997, riformando il sistema elettorale in senso maggioritario per premiare la coalizione più votata, mentre la nuova legge inserisce dei criteri di proporzionalità, con regole che non solo aboliscono i premi di maggioranza, ma vanno addirittura a penalizzare l’assegnazione di seggi a chi prende più voti, oltre all’assurdo democratico secondo cui sono i capi dell’esercito a dover eleggere i senatori. Così, a marzo 2019 le urne premiano ancora Pheu Thai, ma a maggio, dopo due mesi in cui la Corte costituzionale arriva al colmo di cambiare in costituzione i criteri di assegnazione dei seggi a scrutinii già avvenuti, viene proclamato il governo Prayuth, approvato in parlamento da una maggioranza di 254 voti su 500, con una coalizione che comprende Palang Pracharat, il partito del generale, e una serie di partiti legati al fronte “democratico”, da sempre avverso a Shinawatra.
Durante i suoi due governi, Prayuth ha cercato di creare un delicato equilibrio con gli Stati Uniti, storici alleati di Bangkok che contano sui suoi aeroporti in un eventuale confronto con la Cina, e che soprattutto nell’era Trump hanno chiesto uno schieramento più netto al generale rispetto al potente vicino; inoltre la Thailandia continua a essere membro dell’ASEAN e a mantenere strette relazioni con Washington in campo diplomatico e politico, favorendo l’agenda internazionale dei cartelli criminali anglo-sionisti per quel che riguarda la pseudo-pandemia e il cambiamento climatico. Ma è anche vero che tra la monarchia costituzionale di Bangkok e la Repubblica Popolare di Pechino i rapporti nell’ultimo decennio sono divenuti stretti come non mai. Proprio durante le proteste popolari seguite alle elezioni del 2019, il ministro degli esteri cinese Wang Yi si è recato in visita nel paese e ha supportato la dichiarazione dello stato di emergenza da parte di Prayuth che rendeva illegali le proteste annunciando un aumento dei finanziamenti da parte di Pechino e un ampliamento del volume di investimenti – che già all’epoca superavano il miliardo di dollari annui – soprattutto nel Corridoio Economico Orientale, ovvero il segmento thailandese della Belt and Road Initiative avviato da Prayuth nel 2017, e che negli obiettivi della Cina deve andare a integrarsi nella Greater Bay Area, che comprende Hong Kong, Macao e Guangdong, e sollecitato la fine della costruzione della ferrovia ad alta velocità tra la regione cinese dello Yunnan e Bangkok (che passerebbe per il Laos) e che è stata rallentata dall’instabilità politica e dal sabotaggio indiretto di Washington; tale ferrovia permetterebbe a Xi Jinping di bypassare lo Stretto di Malacca, tuttora sotto il controllo della talassocrazia statunitense. Sul piano del turismo, sotto la giunta militare la Thailandia è continuata a essere il bordello del Sud-Est Asiatico – negli ultimi anni ai puttanieri occidentali si sono aggiunte frotte di russi e cinesi – e sono state favorite le multinazionali alberghiere occidentali, accontentando lo storico alleato USA mentre gli imponenti flussi di denaro cinesi favorivano l’industrializzazione a discapito delle aree di interesse naturale e culturale, volendo Pechino fare di Bangkok un porto franco tecnologico alternativo a Taiwan.
Alla luce di tutto questo, le elezioni di maggio 2023 prospettano uno scenario molto caldo: da un lato c’è l’attuale premier, pronto a incassare un terzo mandato a tutti i costi, sostenuto dall’establishment militare-industriale che si batte da venticinque anni contro l’homo novus Shinawatra e i suoi famelici clientes, disposti a svendere la sovranità thailandese ai cartelli del globalismo transnazionale, una sorta di compagine conservatrice e militarista sostenitrice della monarchia e della Cina, che incontra l’appoggio dal basso dei ceti medi, dei nazionalisti e dei musulmani che vivono nella Thailandia meridionale (i quali non hanno mai perdonato a Shinawatra la brutale repressione delle loro proteste d’inizio millennio); dall’altro, il nord e nord-est del paese continuano a essere strenue roccaforti del magnate esule, e hanno formato un’alleanza con i repubblicani che puntano a rovesciare la monarchia e una gran parte del popolo che – vuoi per la propaganda martellante fatta dalle televisioni di proprietà del magnate, vuoi per le sue politiche assistenzialiste che hanno fatto assaggiare il benessere consumistico nella prima decade del Duemila a classi sociali per cui prima era stato impensabile, e soprattutto per un evidente merito di Thaksin: aver creato il servizio sanitario nazionale thailandese, oltre ad aver iniziato, con il PPP nel 2008, una riforma agraria per favorire le classi povere – continua a votare per lui. Sostenuto dei poteri globalisti fautori dell’imperialismo americano che puntano a incistare nel paese un governo anticinese proprio nel cuore della sfera d’influenza di Pechino, Pheu Thai adesso è guidato dalla figlia di Thaksin, Paetongtarn, che è già additata dai media come la probabile vincitrice delle elezioni, e lei si è dichiarata sicura di vincere con “una valanga di voti” e probabilmente questa è l’unica eventualità in cui potrebbe vincere, stante la legge elettorale attuale. Intanto i marciapiedi delle principali città del paese traboccano dei manifesti dei più di trenta partiti thailandesi, tra i quali spicca, oltre a Paetongtan Shinawatra e Prayuth Chan-ocha, il partito di Prawit Wongsuwon, anziano e potentissimo militare fedelissimo al re, considerato il fautore principale di entrambi i colpi di stato, braccio destro dell’attuale premier (ma secondo alcuni un premier a sua volta, pari merito) e irriducibile antiamericano – basti leggere la pagina Wikipedia a lui intestata, che dedica pari spazio alla sua vita e alla lista degli orologi costosi da lui posseduti e non dichiarati – che stranamente non si è presentato nello stesso partito di Prayuth, forse consapevole di fare, allo stato attuale del sistema elettorale, cosa più vantaggiosa per Palang Pracharat.
Ma si è capito che in Thailandia un partito vale l’altro, e le regole democratiche vengono piegate all’arbitrio dei contendenti in questa ventennale battaglia dove sovranismo e globalismo, liberalismo e democrazia, indipendenza e dittatura si confondono e perdono di significato alla luce di altri interessi, quelli degli attori principali di questa vicenda che sono USA e Cina, così chi fa il dittatore sta lottando per non far spazzare via la residua sovranità del suo popolo costruendo un fragile equilibrio economico che soddisfi gli interessi delle due grandi potenze imperialistiche, mentre chi lotta per la democrazia sta lottando per gli interessi di un’altra forma di imperialismo, quello di matrice occidentale e transnazionale, favorendo allo stesso tempo la sanità pubblica e il welfare creati da Thaksin. Il pericolo più grande è che alle soglie del conflitto mondiale orchestrato dalla cricca globalista tra blocco orientale e occidente americano, le posizioni diverranno sempre più radicali e sfoceranno ancora una volta nella violenza e nell’instabilità.
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