Francesco Santoianni
Avanti.it
L’avesse fatto un cardinale, il Vaticano sarebbe già a ferro e fuoco. Ma visto che a fare scandalose avances ad un bambino è stato nientedimeno che il Dalai Lama, beniamino dell’Occidente, i toni dei media risultano impacciati. Tutto chiaro? No. Ci sono alcune cose che non tornano.
Intanto, le avances erano state riprese e messe on line già il 28 febbraio ma solo in questi giorni sono diventate virali. Poi, più che intenzionali avances, si direbbero espressione di demenza senile (le stesse di Biden) considerando che sono state profferte non in qualche posto appartato bensì nel corso di una cerimonia, durata un’ora e mezza, tenutasi nel tempio Tsuglagkhang di Dharamshala, nel nord dell’India, davanti alle telecamere e alla presenza di migliaia di persone, tra le quali i genitori dell’allibito ragazzo. Davvero strano, quindi, che il video delle avances non sia stato bollato dai famigerati debunker di Facebook o di altri social con verdetti tipo “video fuori contesto” (che, solitamente, comportano una penalizzazione per chi lo posta) ma, indisturbato, sta girando da giorni nella sua versione ridotta che mostra solo il ragazzo che tenta di divincolarsi dalle bramosie del vecchio, scatenando così innumerevoli commenti inviperiti contro il Dalai Lama.
E se fosse proprio il suo linciaggio mediatico il primo passo del nuovo corso (così sintetizzato dalle parole di Macron a Pechino: “Il grande rischio che corre l’Europa è di essere travolta da crisi che non sono le nostre”) di settori importanti dell’Occidente nei riguardi della Cina? Se così fosse, dopo l’abbandono del Dalai Lama e del suo “Tibet libero”, aspettiamoci, a breve, analoghe prese di distanza anche da Rebiya Kadeer, (autoproclamatasi rappresentante degli uiguri cinesi e propugnatrice dell’indipendenza dello Xinjiang), da Nathan Law (esponente della “Rivoluzione degli Ombrelli” ad Hong Kong) e da tanti altri burattini dell’Occidente impegnati in Cina.
Ma, visto che ci siamo, due parole su Tenzin Gyatso, il nome dell’attuale Dalai Lama, fino al marzo 2001 capo del governo tibetano in esilio e universalmente riconosciuto come emblema della non violenza; bufala che, nel 1989, gli ha fruttato il Premio Nobel per la Pace. Le cose, in realtà, come ben documentato qui, sono molto diverse, e come ammetteva anche Repubblica l’attuale Dalai Lama è stato al soldo della CIA che, dagli anni 50, ha armato migliaia di guerriglieri tibetani in funzione anticinese; questo fino al luglio 1971, quando il viaggio segreto dell’allora segretario di stato USA Henry Kissinger a Pechino inaugurò la normalizzazione dei rapporti tra gli Stati Uniti e la Cina. Nonostante ciò, fu deciso che Tenzin Gyatso dovesse restare una spina nel fianco del governo cinese e così, finanziato il suo esilio in India, la CIA gli organizzò una colossale campagna mediatica basata, tra l’altro, sulla rappresentazione di un mistico Tibet stuprato da feroci comunisti cinesi e che solo tornando al suo passato sotto la teocrazia buddista avrebbe ritrovato pace e benessere.
In realtà, il Tibet – definizione geografica dai confini incerti, ma fin dal Seicento considerato una provincia del celeste impero – per secoli è stato dominato con mano ferrea dai monaci, che vi hanno sempre esercitato un potere tirannico; uno stato teocratico assoluto, lo stesso stato vagheggiato per decenni da Tenzin Gyatso, nel quale la successione del potere dipende dalle incarnazioni dei Lama. Tuttavia questo retroterra reazionario del discorso di Tenzin Gyatso non è mai stato capito dai suoi sostenitori i quali si sono limitati ad aborrire la Cina che avrebbe “occupato il Tibet” quando la stragrande maggioranza della popolazione è di etnia han, senza dire che nel Settecento furono proprio le truppe cinesi a sconfiggere i britannici che volevano impadronirsi della regione. Che, insomma, esiste una legittimità cinese interrotta dalle vicende della fine dell’impero e, in seguito, dalla lotta tra i signori della guerra e Mao, espressione delle immense masse contadine della Cina.
Non è certo un caso se tutte le proteste che si sono svolte in Tibet nel dopoguerra, immancabilmente generate dagli USA e dai britannici, hanno avuto come protagonisti i monaci, mentre la stragrande maggioranza della popolazione, tibetani compresi, guardava a Pechino come fonte di progresso economico. Ecco perché alla fine tutto si è placato anche se, ogni tanto, i monaci fanno qualche azione di protesta che viene spacciata come moto spontaneo della popolazione tibetana, la quale invece da almeno un ventennio è oramai estranea a queste rappresentazioni anche per l’innegabile miglioramento delle sue condizioni di vita.
Ma anche questa ovvietà è vietata ai cittadini occidentali, ai quali è stata servita da ormai due terzi di secolo una scialba minestra anticinese. E siamo pur certi che, anche quando l’Occidente sarà stato costretto a sposare le attuali posizioni di Macron e a sbaraccare tutta la narrativa anticinese sul Tibet, ci sarà ancora chi – soprattutto a “sinistra” – rimpiangerà il suo favoloso passato teocratico. Certamente, saranno gli stessi che oggi schiumano rabbia contro il “regime medioevale” dei talebani in Afghanistan.
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