Marco Di Mauro
Avanti.it
Il “miglio d’oro” della logistica italiana
Piacenza, per la sua particolare posizione geografica, non è mai stato un comune davvero emiliano: all’estremo occidente della regione, la “Primogenita d’Italia” – così denominata per esser stata la prima ad aderire nel 1848 con un plebiscito al Regno di Sardegna, nel nome dell’unità nazionale – è più vicina a Milano, Torino e Genova che non a Bologna. Anzi, per la sua vicinanza alla Madonnina è addirittura inserita nell’area metropolitana di Milano. Capoluogo della provincia definita «terra di passo» nel Codice Atlantico di Leonardo da Vinci perché già allora crocevia di spostamenti e comunicazioni, Piacenza si trova tutt’oggi al centro di una croce stradale che collega i punti estremi dell’Europa: a nord-est della città, ad essa collegate dalla tangenziale, si incrociano la strada europea E35, che collega Roma e Amsterdam e attraversa Paesi Bassi, Germania, Svizzera e Italia, e la E70, che si snoda lungo un tratto enorme – più di seimila chilometri – partendo da La Coruña per arrivare fino a Poti, Georgia, attraverso Spagna, Francia, Italia, Slovenia, Croazia, Serbia, Romania, Bulgaria, da dove merci e persone via Mar Nero arrivano in Turchia e finire in Georgia.
Proprio per la sua centralità geografica l’area di Piacenza ha visto negli ultimi trent’anni lo sviluppo di uno snodo logistico fondamentale (insieme a Milano, Bologna e la direttrice Alessandria-Genova) sia verso la penisola – da qui passano le merci provenienti direttamente dalle aziende produttrici dell’Europa orientale, come anche quelle che fanno scalo nei porti di Genova e Trieste, dirette sia agli interporti di Napoli e Bari, sia in Spagna, Francia, Olanda e Germania. Per non parlare dei collegamenti via nave – Genova, La Spezia, Livorno, Venezia – e coi vicini aeroporti milanesi.
La prima azienda ad accorgersi del potenziale dell’area fu Ikea, che aprì nel 1999 il suo hub logistico a Le Mose, quartiere alla periferia est di Piacenza, seguita da Hupac, colosso svizzero per la logistica intermodale – ovvero specializzata nella costruzione e gestione di terminali di scambio tra vettori su gomma, ferro, nave – che controlla Piacenza Intermodale, ma è con l’entrata in scena dal 2005 di Generali che a Le Mose si sviluppa il Polo Logistico di Piacenza, allargandosi verso sud fino al quartiere Montale. Oggi a Le Mose in un’area di 2,5 milioni di metri quadri lavorano più di duemila persone alle dipendenze di DHL, GLS, Unieuro, Fercam, Xpo Logistics, Torello Trasporti. Già nel 2004 la periferia est di Piacenza non basta più, e il Polo si espande a ovest con il Logistic Park di Castel San Giovanni – che oggi impiega 2500 lavoratori in un’area di 1,8 milioni di metri quadri con aziende come Geodis, Amazon, Rajapack, Adveo Italia, Ceva, DSV Saima Avandero – e a est in direzione Cremona con il Magna Park di Monticelli d’Ongina – 400mila metri quadrati e 500 dipendenti tra Amazon, Logistica Uno, Lyreco, Scerni Logistics – mentre in direzione Parma gli hub di Pontenure e Cortemaggiore. Con il consolidamento negli anni Dieci dell’e-commerce e delle piattaforme online di spedizione, Piacenza ha visto moltiplicarsi gli spazi e i mezzi a fronte di un incrementato flusso di merci. L’espansione della logistica ha cambiato profondamente il tessuto sociale della città, tanto che già cinque anni fa un piacentino su dieci lavorava nel settore, oltre a tantissimi stranieri, comunitari o extra, e nelle scuole si è iniziato a introdurre l’insegnamento specifico per formare lavoratori della logistica; e l’âge d’or è ancora da venire, ne è certa la Generali Real Estate che promette un’ulteriore espansione in termini di spazi, tecnologie, competitività, invitando i colossi del settore a fidelizzarsi sempre di più alla “capitale logistica d’Italia”, così come la definisce il comune di Piacenza, che possiede parte dei terreni destinati agli hub.
Caporalato e mafia: la politica lavorativa di Amazon, GLS e compagnia bella
Fin qui, sembrerebbe la descrizione della rinascita economica di una regione, che ha sfruttato le opportunità date dalla new economy per dare lavoro e benessere alla sua gente. Ma è solo la facciata: in verità tra Castel San Giovanni a Monticelli c’è stato negli ultimi vent’anni un vero e proprio ritorno all’Ottocento, dal punto di vista dei diritti dei lavoratori. Tutte le aziende che abbiamo nominato finora, che usano il Polo Logistico come punto fondamentale della propria attività, impiegano direttamente solo il 30% delle migliaia di facchini, autisti, fattorini, impiegati che ci lavorano. Il resto dei lavoratori vive un vero e proprio far west: contratti a tempo determinato rinnovati settimanalmente, orari impossibili e mal pagati, lavoratori spremuti fino al midollo e poi sostituiti senza la minima buonuscita o contributo pensionistico, licenziamenti arbitrari, negazione dei più elementari diritti (si pensi al famoso episodio dei lavoratori Amazon che hanno nelle vetture i pappagalli per urinare). E tutto questo è perfettamente legale, in primo luogo perché una legge del solito Berlusca (142/2001) prevede la possibilità di deroga al contratto collettivo nazionale, che già di per sé andrebbe aggiornato al costo della vita e alle dinamiche del mercato odierne; in secundis, per il bellissimo regalo fatto ai lavoratori dal governo Renzi, ovvero quel Jobs Act che ha abolito l’articolo 18 e reso possibile il licenziamento arbitrario. Tuttavia, è il sistema stesso che si regge sull’iper-sfruttamento dei lavoratori. La grande azienda ha un solo interesse: risparmiare il più possibile sulla manodopera, e il nostro malo paese gli offre la possibilità di trovare un mercato da terzo mondo con il sistema delle cooperative “spurie”, che permette alle major di operare nell’illegalità più totale senza però sporcarsi le mani. Un’azienda come GLS, TNT, DHL o Amazon dà l’appalto per la manodopera a un consorzio, che a sua volta si avvale della prestazione di un pulviscolo di cooperative, la cui durata è in media di un anno, gestite per lo più dalla ‘ndrangheta, la quale utilizza il sistema delle cooperative per riciclare i proventi del racket e la cui politica è quella di cercare di lucrare il più possibile sugli incentivi dati dalle grandi aziende come premi erogati per il raggiungimento di obiettivi aziendali e numero di vetture – soldi che vengono, secondo la magistratura, utilizzati dalle cosche per il mantenimento dei latitanti, e di cui i lavoratori non vedono un centesimo – oltre che risparmiare al massimo su stipendi, spesso differiti ad libitum e poi mai più erogati per chiusura della cooperativa, come anche sulle tasse, che si riducono al minimo con il metodo del falso part-time o dichiarando la massima parte delle ore lavorate come indennità di trasferta, che è esentasse e inoltre toglie al lavoratore la copertura pensionistica e gli ammortizzatori sociali, per non parlare dei tfr, che in questo sistema di aperture e chiusure continue di cooperative è un lontano miraggio. Così, il lavoratore – per lo più immigrato senza documenti, ricattabile e privo di diritti – è soltanto il combustibile di questo sistema che brucia i diritti per dare profitti alle multinazionali e alla criminalità organizzata, un sistema difficilmente tracciabile da parte delle autorità proprio per la sua natura pulviscolare, e in cui si vede chiaramente uno dei molteplici punti di incontro tra la mafia transnazionale dei globalisti e la manovalanza mafiosa delle ‘ndrine.
Nel 2011 la Dda di Milano effettuò l’inchiesta “Redux-Caposaldo”, che portò all’arresto di trentacinque persone e svelò come la ‘ndrangheta avesse messo le mani su sei filiali milanesi della TNT, e in quell’occasione venne fuori per la prima volta il sistema su descritto che secondo gli inquirenti andava avanti almeno da vent’anni. «Io ho smesso da tempo di chiamarle infiltrazioni dei clan. Ormai nel settore possiamo parlare a pieno titolo di un vero e proprio radicamento. E le associazioni di categoria non sono esenti da colpe» ebbe a dire nel 2014 l’imprenditrice del settore Cinzia Franchini, allora presidente nazionale di Cna-Fita, e lo stesso pm di Milano Carlo Nocerino, che nello stesso anno mise su una task force sperimentale con Inps, Tutela del lavoro dei Carabinieri, Guardia di finanza e Prefettura per combattere lo sfruttamento del lavoro nella logistica, «Il problema è che la committenza [cioè le multinazionali NdR] è connivente, sa quello che accade, ma accetta per risparmiare sulla manodopera».
E le infiltrazioni, nella zona, sono anche più pesanti: nel 2019 viene arrestato e poi condannato a 15 anni di carcere Giuseppe Caruso, presidente del consiglio comunale di Piacenza, in quanto conclamato membro della ‘ndrangheta, i cui interessi aveva favorito nell’esercizio della sua carica di funzionario dell’Agenzia delle dogane, nell’ambito del processo sull’inchiesta Grimilde che ha portato al commissariamento per mafia del comune di Brescello, primo nella storia dell’Emilia Romagna. A maggio di quest’anno vien fuori addirittura che il boss calabrese Nicola Bevilacqua aveva preso in subappalto la gestione di una grossa fetta del mercato italiano del colosso della logistica tedesco Schenker per un valore di circa 2 milioni di euro in cinque anni, e nelle dichiarazioni dei giudici vi è una dura reprimenda nei confronti della dirigenza di Schenker Italy, in quanto «esponenti della società muniti di potere decisionale […] hanno intessuto e mantenuto stabili rapporti d’affari con Nicola Bevilacqua, agevolandone l’attività, benché questi sia stato condannato irrevocabilmente per associazione mafiosa ed estorsione aggravata dal metodo mafioso» e «sia stato sottoposto a misure di prevenzione personali […] e patrimoniali» e pure «dichiarato delinquente abituale e sottoposto alla libertà vigilata dal 2008», pertanto le filiali italiane dell’azienda sono state commissariate.
SI Cobas e USB soli contro stato, mafia e multinazionali
In questo lungo decennio di gestione mafiosa del settore della logistica, i SI Cobas, seguiti dall’USB, sono sempre stati in prima linea: scioperi improvvisi, blocchi di strade e picchetti davanti ai poli principali della logistica del Nord Italia. Sono riusciti a unire gli invisibili in un unico fronte di lotta compatto contro i licenziamenti e dislocazioni arbitrari, i salari da fame, gli orari improponibili in un paese europeo e con una tradizione socialista. Si sono trovati su un terreno davvero spinoso, dove era normale licenziare qualcuno soltanto per essersi iscritto al sindacato, o per aver chiesto le tutele che semplicemente gli spettano per diritto. Facendo la spola tra un’azienda e l’altra, fronteggiando continui soprusi quando non vere e proprie condotte criminali da parte delle grandi aziende, i sindacati hanno riportato spesso significative vittorie, per citare le più recenti: a ottobre 2021 i SI Cobas, tramite il responsabile Ali Mohamed Arafat, firmano in Prefettura di Piacenza un accordo che garantisce occupazione e stabilità a 600 lavoratori dello stabilimento XPO Logistics a Le Mose; lo stesso mese i SI Cobas bloccano per la prima volta nella storia un magazzino Amazon, in questo caso il più grande d’Italia a Castel San Giovanni, facendo un grosso danno all’azienda; a gennaio di quest’anno il Tribunale di Piacenza ha costretto GLS a reintegrare 15 lavoratori iscritti all’USB licenziati perché chiedevano maggiore sicurezza sul lavoro; nello stesso mese, i SI Cobas costringono FedEx Piacenza a riassumere i propri iscritti licenziati alle stesse condizioni contrattuali, e allo stesso livello di anzianità maturato prima del licenziamento; ad aprile l’USB ha ottenuto che la Bartolini di Caorso convertisse il contratto part-time di due ore al giorno in un contratto a tempo pieno, e che fosse applicata la kasko per i fattorini a domicilio, prima costretti a pagare a proprie spese eventuali danni ai mezzi utilizzati per le consegne.
La lotta non è stata senza conseguenze, in quanto, specialmente all’inizio, le aziende hanno risposto con una repressione ottocentesca delle lotte per i diritti dei lavoratori della logistica. Oltre ai licenziamenti arbitrari, un altro alleato di Amazon e soci sono proprio le cosche, intermediarie tra le multinazionali e i lavoratori, che hanno messo in campo la loro repressione, con i loro metodi: nel 2014 a San Giuliano Milanese viene pestato a sangue Fabio Zerbini, sindacalista dei SI Cobas, da “ignoti” che, dopo averlo lasciato a terra, gli hanno detto: “Adesso basta con le assemblee sindacali”. Poco dopo, a Trezzano sull’Adda, i lavoratori in sciopero vengon sgomberati a sprangate. Le forze dell’ordine non intervengono mai, nemmeno quando, il 24 febbraio del 2016 a Piacenza un commando camorristico in pieno stile da squadracce nere del Biennio rosso effettua un pestaggio contro i lavoratori in sciopero, ed è poi emerso che il mandante era tale G.A., al vertice di un consorzio di cooperative operanti nella logistica, arrestato per riciclaggio e concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo il sindacalista dell’USB Roberto Montanari G.A. “chiedeva alla camorra di fornirgli picchiatori e crumiri contro i facchini di USB in sciopero”. Nessun intervento dei carabinieri, peraltro presenti sul posto, quando al picchetto dell’USB davanti alla GLS di via Riva, Piacenza in 14 settembre del 2016 un autotrasportatore decide di forzare il picchetto col suo camion, uccidendo il sindacalista Abd El Salam, anzi il procuratore di Piacenza dell’epoca Salvatore Cappellieri addusse proprio le testimonianze degli agenti presenti sul posto per affermare con certezza che non c’era nessun picchetto, e che El Danaf, padre di cinque figli, si era fiondato da solo contro il camion. Stessa sorte è toccata al giovane Adil Belakhdin dei SI Cobas, investito il 18 giugno 2021 al picchetto davanti alla Lidl di Biandrate, in provincia di Novara. Alla desolazione dei gesti disperati di questa guerra tra poveri, dove la minaccia di sanzioni spinge un lavoratore ad ucciderne un altro, si aggiunge la risposta dello stato, che lascia i suoi cittadini a scannarsi tra loro per permettere a ‘ndrine e multinazionali di abboffarsi sulla loro pelle.
La procura dalla parte dei caporali
Lo stato è intervenuto sempre a favore delle grandi aziende, e non soltanto lasciando impuniti i crimini. A marzo 2021 ci fu l’arresto di due lavoratori per aver scioperato con l’accusa di resistenza aggravata in relazione a 13 giorni di sciopero tra gennaio e febbraio al magazzino Fedex-TNT di Piacenza. Il 6 aprile di quest’anno hanno alzato il tiro, inviando un avvertimento all’USB davvero speciale: su segnalazione anonima, la polizia si reca alla sede nel Tuscolano di Roma e punta verso i bagni, uno in particolare, nel cui scarico trovano al primo colpo – che fortunata coincidenza – una pistola. Ma il colpo più grande, tenuto in caldo da tempo, è arrivato la settimana scorsa, quando il procuratore di Piacenza, insediatosi a giugno 2020, Grazia Pradella ha fatto arrestare otto persone, tutte appartenenti ai due sindacati e tutte coinvolte nelle proteste per i diritti del lavoro nel settore logistico. Finiscono ai domiciliari Ali Mohamed Arafat, Aldo Milani, Carlo Pallavicini, Bruno Scagnelli dei SI Cobas, insieme a Roberto Montanari e Issa Mahmoud Elmoursi dell’USB. Di quest’ultimo anche Elderdah Fisal e Riadh Zaghdane, sottoposti alla misura cautelare di obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria e divieto di dimora nella provincia di Piacenza. L’accusa è quella di aver utilizzato le lotte sindacali per questioni di potere personale, nel nome di una spietata concorrenza tra le due sigle sindacali, per accaparrarsi più iscritti. Il mondo del lavoro ha risposto sabato scorso a Piacenza, dove sono sfilati in corteo circa duemila lavoratori per sostenere i loro compagni vittime della repressione. Dalla società civile, ancora niente: è come se in Italia si protestasse a compartimenti stagni, ognuno nel proprio piccolo segmento d’influenza, e non si capisse che questi attacchi riguardano tutti noi, indiscriminatamente.
Alla luce di quanto sopra descritto anche in merito ai pericoli affrontati dai sindacalisti affrontando realtà apertamente criminali, sarebbe davvero strano che qualcuno si mettesse a correre rischi tali soltanto per una prospettiva di carriera e reti di clientela, esistendo nell’ambito degli stessi sindacati terreni molto più favorevoli e meno rischiosi. Quello della procura di Piacenza sembra a tutti gli effetti un tentativo di trovare un pretesto per criminalizzare blocchi, picchetti e scioperi, e silenziare definitivamente i fautori di queste grandi mobilitazioni che tanti problemi hanno creato alle multinazionali. Eppure, la dottoressa Pradella, distintasi nel corso della sua carriera proprio nella lotta alla ‘ndrangheta, dovrebbe conoscere le dinamiche di questa regione.
Ma forse, come ci ha abituati la nostra trista storia patria, anche in questo caso si è messo in moto un sottobosco di interessi, tra circoletti massonici e lubriche strette di mano, in cui mafia, magistratura e multinazionali si incontrano, e magari decidono di mettersi d’accordo per far fuori un nemico comune. E troppo spesso quest’ultimo coincide con i lavoratori italiani.
Marco dice
Inchiesta tagliente e ben articolata che tocca un tema a me molto caro, quello del Lavoro e delle tristi vicende sociali ed umane ad esso intrecciate, troppo spesso trascurato dalle penne dei nostri media appecorati al potere! Complimenti al Sig.Di Mauro
Roberto Florio dice
Il silenzio assordante del main stream su temi fondamentali come questo affrontato con coraggio da Di Mauro, testimonia il livello raggiunto da connivenza e corruzione nel nostro paese. L’origine e la causa dei nostri problemi (sfiducia, calo demografico, svalutazione, disoccupazione giovanile, sicurezza…) è semplicemente questa.
Bertozzi dice
Molto interessante, complimenti.
Anna dice
Che tristezza, che degrado sociale, che corruzione dell’anima. Il dio denaro porta alla disperazione e all’annientamento di ogni diritto faticosamente conquistato dai lavoratori italiani, ora si comprendono tutte le politiche di immigrazione degli ultimi venti anni. Del sistema globalusta e di tutto il resto marcio delle connivenze delle mafie con le multinazionali che ormai sono padroni dell’Italia. C’è sempre un punto debole dal quale partire con coraggio per cambiare. Questione di tempo e di nostra volontà di agire nel bene.