Marco Di Mauro
Avanti.it
«Ci avviciniamo al punto di non ritorno stanotte in Kosovo, in quanto il primo ministro ad interim Kurti sta predisponendo la sua polizia militare per razziare il Nord e spazzar via i serbi che vi abitano. L’intero quadro delle sue azioni unilaterali negli ultimi 18 mesi ha portato a questo. La deliberata cecità dell’Occidente equivale a complicità» le parole postate su Twitter da Nemanja Starović, ministro degli esteri della Serbia, nella prima serata di domenica 11 dicembre, bastano da sole a far comprendere quanto la tensione tra Belgrado e l’establishment indipendentista del Kosovo – autoproclamatosi indipendente nel 2008, ma riconosciuto solo da 99 paesi sui 193 componenti le Nazioni Unite – abbia raggiunto livelli altissimi nel corso della settimana appena trascorsa, forse i più alti dalle prime scintille di questa estate.
L’escalation che ha quasi sfiorato il conflitto è iniziata il 6 dicembre, quando si registrano esplosioni e spari nelle città di Kosovska Mitrovica e Zubin Potok, entrambe situate nel nord della regione. A causare i disordini, secondo un comunicato delle autorità serbe confermato successivamente dalla polizia kosovara, sarebbe stata una delegazione della Commissione elettorale municipale di Zubin Potok che, scortata dalla polizia del Kosovo e dalle forze speciali della ROSU (Regional Operation Support Unit), hanno fatto irruzione nell’edificio dell’amministrazione in cerca delle liste elettorali. Non è nuovo a questi metodi Albin Kurti, il primo ministro del Kosovo, le cui azioni da un anno a questa parte sembrano avere come unico obiettivo la creazione di un casus belli nei confronti della Serbia con una serie di leggi prive di alcuna utilità, come il divieto di circolazione ai veicoli con targa serba, ultima di una serie di violazioni dei trattati di Bruxelles del 2013 che ha portato all’ondata di dimissioni partita il 5 novembre dalle città del nord di tutti i quadri delle amministrazioni serbe: dai deputati del partito Srpska Lista a 300 agenti di polizia, fino ai sindaci di diverse città del Kosovo settentrionale. Questo atto di protesta – nonostante un apparente accordo mediato dall’Unione Europea del 24 novembre in base al quale Belgrado si impegnava a non emettere più le targhe automobilistiche che fanno riferimento a città kosovare, mentre Pristina a non multare chi possiede veicoli con le suddette targhe – non ha fatto in verità recedere di un millimetro Kurti, che ha ben pensato di imporre addirittura la confisca dei veicoli con targa serba e indire nuove elezioni amministrative per rimpiazzare i serbi ammutinati, fissandole per il 18 dicembre. Ma gli impiegati comunali, quelli che hanno scelto di non fuggire di fronte alle provocazioni etniche, hanno iniziato a fare boicottaggio verso quelle che Petar Petkovic, direttore della Cancelleria per il Kosovo e Metohija, ha definito “elezioni illegali”; i media filo-kosovari hanno denunciato anche attacchi agli uffici elettorali da parte dei cittadini serbi, di cui tuttavia non vi è traccia da alcun’altra parte; di qui il primo ministro kosovaro ha deciso di passare alle maniere forti: dopo l’irruzione a Zubin Potok, a Mitrovica vengono inviati 200 agenti di polizia in tenuta antisommossa che bloccano le vie di accesso alla città, e nella tarda serata di giovedì 8 dicembre arrivano nel nord del paese circa 400 unità, tra poliziotti semplici, forze speciali armate e unità equipaggiate militarmente, compresi veicoli corazzati. Intanto, la Serbia aveva scelto le vie diplomatiche, denunciando ai paesi europei le aperte violazioni degli accordi di Bruxelles e, dopo un vertice tra il premier Aleksandr Vučić, il ministro della difesa e il capo di stato maggiore delle forze armate, paventa l’ipotesi di schierare un contingente di mille uomini nella regione, per giustificare il quale il 9 novembre il primo ministro serbo Ana Brnabić invoca la Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, che consente il ritorno in Kosovo e Metohija di un numero concordato di truppe serbe e jugoslave per proteggere i siti patrimoniali serbi e i principali valichi della zona.
Il giorno dopo, sabato 10 dicembre, la tensione diventa escalation: ai checkpoint della polizia kosovara i serbi rispondono organizzando barricate di fortuna con camion e transenne per impedirgli l’ingresso nelle loro città; nel corso della giornata si segnalano scontri, vengono attivate le sirene d’emergenza a Kosovska Mitrovica, ma tutto precipita quando al valico amministrativo di Yarinje gli agenti della polizia kosovara arrestano il loro ex collega Dejan Pantic, uscito a fare alcune commissioni private con la propria consorte e che è sospettato dagli agenti di aver preso parte agli assalti agli uffici elettorali da parte dei cittadini serbi. Una chiara rappresaglia, secondo Petar Petkovic, in quanto Pantic era uno degli agenti dimissionari per protesta contro le leggi discriminatorie di Albin Kurti: “Si tratta di brutali ritorsioni e intimidazioni da parte di Albin Kurti (primo ministro kosovaro), che ha deciso di perseguitare ora i poliziotti serbi, ai quali, senza alcun fondamento o prova, sta cercando di attribuire atti con i quali non hanno nulla a che fare, per cercare di intimidire tutti i serbi che non vogliono subire il suo terrore e la violazione degli accordi presi a Bruxelles” (Fonet). Scoppia così la rivolta dei cittadini serbi, che erigono barricate in tutto il nord del paese – oltre a Mitrovica, anche Zubin Potok, Soqanicë, Rudare, Zvečani – e si confrontano con la polizia di Pristina, attaccando direttamente i checkpoint, tanto da costringere il presidente del Kosovo Vjosa Osmani a rinviare al 23 aprile le elezioni nei sei comuni dove erano previste. L’Unione Europea, mentre finge un’opera di mediazione, accusa ufficialmente Belgrado dell’escalation attraverso Josep Borrell e, addirittura, avvia l’iter di adesione del Kosovo all’Unione, come denuncia Vučić nel suo discorso la sera stessa dell’escalation, e si appella ai paesi europei che non hanno riconosciuto il Kosovo – Spagna, Grecia, Cipro, Slovacchia e Romania – per invocare l’illegittimità dell’adesione, in quanto non tutti i paesi membri riconoscono l’autonomia della regione. Vučić si appella nuovamente alla Risoluzione 1244, chiedendo l’immediata liberazione di Pantic e l’autorizzazione a schierare le proprie truppe nel nord del Kosovo. Albin Kurti, che ricorda sempre più l’eroicomico Zelens’kyj – con cui peraltro si vanta di essere in continuo contatto telefonico – di tutta risposta denuncia le aggressioni serbe ai propri posti di polizia, ingiunge la rimozione di tutte le barricate serbe e assicura il contrattacco: domenica 11 le forze kosovare prendono d’assalto una struttura vicino alla diga di Gazivoda, abbattono le bandiere serbe e cacciano una guardia, costringendo Vučić a convocare il Consiglio di sicurezza nazionale nella giornata di domenica. È questo il “punto di non ritorno” denunciato su Twitter da Nemanja Starović. Il giorno dopo, una lunga colonna di mezzi serbi si dirige verso sud e si attesta a tre chilometri dal confine, mentre Miloš Vučević, il ministro della difesa, si reca a Raska, dove si trova la guarnigione militare più vicina al Kosovo, per passare in rassegna le truppe.
Le tensioni continuano: il 14 i poliziotti kosovari entrano nel consiglio comunale di Mitrovice e impongono l’elezione di sindaco e consiglio, ovviamente con tutti membri di etnia albanese, mentre il 15 la Serbia ufficializza la propria richiesta alla NATO di schierare un contingente di mille uomini in Kosovo, le cui autorità mantengono attivi i checkpoint e arrestano un altro cittadino serbo. L’alleanza nord-atlantica glissa e attende, e tutte le sue mosse fanno pensare soltanto che un nuovo fronte aperto nei Balcani – come quello che si sta preparando in Bosnia – è la mossa più appetibile per Washington. Intanto, domenica 18 migliaia di manifestanti di etnia serba hanno manifestato davanti al checkpoint di Yarinje, intonando lo slogan “Non accettiamo accordi: il Kosovo era, è e sarà Serbia”. Quello che hanno ottenuto è soltanto un rafforzamento dei controlli al valico da parte della missione NATO, denominata KFOR, che si sono uniti alla polizia di Kurti. E intanto, mese dopo mese, lo spettro della guerra si fa sempre più vivido: come la Russia nel Donbas, la Serbia dovrà solo scegliere di intervenire per difendere i propri connazionali, e il nuovo mostro e il nuovo eroe, l’aggredito e l’aggressore, saranno serviti sul piatto senza fondo delle guerre scatenate dall’occidente.
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