Giuseppe Russo
Avanti.it
Durante il mese di settembre di quest’anno, la Repubblica Ceca è stata scossa da due manifestazioni convocate dal movimento Česká republika na 1. místě! (“Prima la Repubblica Ceca!). Nata su iniziativa di Ladislav Vrabel il 30 giugno scorso per organizzare il raduno del 3 settembre a Praga (erano previsti 500 partecipanti, ne sono arrivati 70000), la piattaforma rivendicativa, inizialmente concentrata sulla necessità di stipulare nuovi contratti di fornitura di gas con la Russia e sulla richiesta di dimissioni del primo ministro Petr Fiala, si è poi allargata ad obiettivi più ambiziosi, come l’uscita del paese dall’Unione Europea, dalla NATO e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, oltre a fare proprie le istanze dell’indipendenza alimentare e della libertà vaccinale. Sul piano politico, hanno aderito sia le forze del variegato panorama “sovranista” della Repubblica Ceca, su tutte il movimento Libertà e democrazia diretta (alleato della Lega nell’Europarlamento) dell’imprenditore di origine giapponese Tomio Okamura, sia i micropartiti dell’estrema destra e sia il Partito Comunista di Boemia e Moravia, il cui candidato alle prossime elezioni presidenziali, Josef Skála, figura fra i sostenitori “ufficiali” di “Prima la Repubblica Ceca!”. Nella piazza praghese si è incontrata quella parte della cittadinanza che non condivide la russofobia che dal crollo del regime comunista caratterizza il discorso pubblico in nome del ricordo della celebre primavera di Praga del 1968, quella che si concluse con l’arrivo dei carri armati sovietici. Quando, in occasione della seconda manifestazione del 28 settembre, ha preso la parola l’europarlamentare tedesca Christine Anderson, del partito Alternativa per la Germania, ed ha fatto un’analogia con la liberazione dal comunismo, l’accoglienza della piazza è stata freddissima. L’incontro fra “estrema destra” ed “estrema sinistra”, fra istanze nazionaliste e nostalgia del regime filosovietico, fra euroscetticismo e panslavismo (per non parlare dei “no vax”), ha fatto sì che la stampa di tutto il continente ululasse al pericolo “rossobruno”. Sulle pagine de Il Foglio, Adriano Sofri ha tratto spunto dalle manifestazioni rossobrune (a suo dire molto più “brune” che rosse) per scagliarsi contro “l’avversione di una parte consistente della popolazione europea alla resistenza ucraina”. Ad ogni modo il KSČM, il Partito Comunista di Boemia e Moravia che ha presidiato coi suoi stand e le sue bandiere il raduno del 28 settembre, sembra avere le idee piuttosto confuse sulla strategia politica da seguire. Sopravvissuti, caso unico fra i paesi dell’Europa Orientale entrati nell’orbita dell’Occidente dopo il 1989, alla violenta “decomunistizzazione” che ha caratterizzato la transizione al capitalismo, i comunisti cechi sono stati per trent’anni una delle principali forze del panorama politico, prima di suicidarsi con l’appoggio esterno al governo del miliardario (in corone ceche) Andrej Babiš, il cui secondo dicastero è caduto, dopo una serie di scandali montati ad arte, nel 2021. Alle successive elezioni, tenutesi nell’ottobre dello scorso anno, il KSČM è infatti uscito dal parlamento ceco per la prima volta dal 1990, stessa sorte toccata al Partito Social Democratico, che era partner di minoranza nei governi Babiš. La stessa neopresidente del partito, l’europarlamentare Kateřina Konečná, che è stata fra le oratrici della piazza “nazionalista” praghese, ebbe a dichiarare in passato durante una trasmissione televisiva che “il progetto dell’Unione europea è di fatto un progetto socialista”. Il Partito Comunista è stato anche partecipe della politica “pandemica” di Babiš, che è stata caratterizzata, almeno fino ad aprile 2020, da estremo rigore (la Repubblica Ceca fu il primo paese europeo a promuovere l’obbligo delle mascherine), salvo poi abbracciare posizioni “negazioniste” dopo la disfatta elettorale. Più che ai comunisti, i manifestanti cechi con il cuore “a sinistra” sembrano guardare al capo dello stato Miloš Zeman, che nell’arco dei suoi due mandati ha avuto più volte occasione di comportarsi come attore autonomo sulla scena politica con le sue prese di posizione (moderatamente) euroscettiche.
Il politologo Petr Fiala si è insediato come primo ministro della Repubblica Ceca dopo le già citate elezioni legislative dell’ottobre 2021 a capo di una coalizione fra la sua lista Spolu (“Insieme”: alleanza di centrodestra fra il Partito Civico Democratico, i democristiani del KDU-ČSL ed i liberali di TOP 09) ed il Partito Pirata, il quale, forte del 15% dei voti ottenuti dalla sua lista “Pirati e Sindaci” (è un “pirata” il sindaco di Praga Zdeněk Hřib), ha espresso nel nuovo governo la delicata figura del ministro degli esteri nella persona di Jan Lipavský, la cui nomina venne vanamente avversata dal presidente della repubblica Miloš Zeman. Lipavský, deputato del Partito Pirata dal 2017, si è costruito negli anni la fama di politico russofobo e “occidentalista” a oltranza: protagonista di battaglie parlamentari per escludere le imprese russe e cinesi dalle gare d’appalto, sostenitore dell’invio di truppe in Iraq e in Afghanistan e promotore di una maggiore “integrazione” nella NATO e nell’UE, l’attuale ministro degli esteri ceco ha più volte definito la Russia “una minaccia” e, al deflagrare della crisi bellica, ha paventato il rischio di un’invasione militare russa, rievocando i fantasmi del 1968. Il governo Fiala si è da subito contraddistinto per la sua politica di sostegno all’Ucraina, di cui sono stati accolti nel territorio ceco circa centomila profughi. Tutte le richieste di Zelensky sono state oggetto del plauso di Fiala, dall’ingresso immediato del paese nell’Unione Europea all’invio di armi e munizioni in quantitativi sempre più elevati. Si è venuto formando un asse dei “russofobi dell’Est” fra i governi di Repubblica Ceca, Polonia e Slovenia, i cui premier hanno visitato congiuntamente Kiev nel marzo scorso, e ciò ha determinato la reazione russa in termini di erogazione del gas verso questi paesi, i cui tangibili effetti sulla popolazione ceca si attendono per il prossimo mese di febbraio, quando è previsto il pagamento delle bollette, che avviene con cadenza annuale. Dopo aver assunto, nel luglio di quest’anno, la presidenza del Consiglio dell’Unione Europea nel semestre in cui tale carica spetta al suo paese, Fiala si è fatto ancor più oltranzista in termini di russofobia, e gli stessi manifestanti di “Prima la Repubblica Ceca!” sono stati da lui liquidati come lobbisti che lavorano per Putin allo scopo di ripristinare la dipendenza energetica di Praga da Mosca. Il primo ministro getta benzina sul fuoco della protesta, in un paese in cui la classe politica è delegittimata da un elevato astensionismo (oltre un terzo dei cechi non ha votato alle ultime elezioni politiche) e l’ultimo turbolento decennio è stato caratterizzato dall’eclissi dei partiti “storici” e dall’affermazione di forze “populiste” come il già citato movimento Libertà e democrazia diretta o il partito ANO 2011 dell’ex capo del governo Andrej Babiš. Mai come oggi l’abisso che separa la piazza dal palazzo è stato così profondo: quando la speaker del parlamento Markéta Pekarová Adamová si permette di dare alla popolazione consigli su come affrontare l’inverno per non darla vinta a Putin il cattivone, l’effetto è analogo a quello che produssero sui sanculotti parigini le famose frasi attribuite alla regina Maria Antonietta sui poveri, il pane e le brioche.
L’insoddisfazione di massa verso una classe politica disposta a sacrificare i bisogni primari della cittadinanza sull’altare dell’obbedienza alle oligarchie della guerra e del denaro è stata intercettata da “Prima la Repubblica Ceca!”, movimento apparso sulla scena nel momento più propizio come “quella cosa che ancora non c’era” e al quale si sono giocoforza accodate tutte le forze “sovraniste” e “populiste” già esistenti. Il suo fondatore, Ladislav Vrabel, è un imprenditore nei settori dell’accoglienza e della ristorazione gravato da circa tre milioni di corone di debiti (pari a poco più di centomila euro). “Attivista” apparentemente apparso dal nulla, Vrabel è in realtà legato ad un altro “paperone” ceco, Karel Janeček, dal quale ottenne un ingente prestito alcuni anni fa. Janeček, un matematico di rango arricchitosi applicando le sue conoscenze al trading, ha recentemente lanciato la sua candidatura alla carica di presidente della repubblica, dopo aver fatto irruzione nel panorama politico finanziando un’imponente campagna anti-corruzione nel 2011 e facendosi poi una solida reputazione di mecenate e filantropo finanziando pure fondazioni, gallerie d’arte e festival musicali. I suoi fondi sono giunti anche al movimento Milion Chvilek pro demokracii (“Un milione di momenti per la democrazia”), realtà in grado di portare avanti una campagna di 1041 giorni per chiedere le dimissioni dell’allora premier Andrej Babiš, accusato di volta in volta di corruzione, conflitti di interesse, pratiche clientelistiche, soffiando sul fuoco degli scandali che hanno coinvolto il figlio del primo ministro, vittima di un presunto rapimento in Crimea, e diversi ministri dei suoi governi. La campagna puntava inizialmente a raccogliere un milione di firme contro Babiš; il successo ha indotto i promotori ad organizzare presidi permanenti nelle piazze e due oceaniche manifestazioni (le più partecipate della storia post-comunista della Repubblica Ceca) nel giugno e nel novembre 2019. Il sito di giornalismo indipendente AENews (al cui lavoro questo articolo è debitore) fa notare come la storia di “Un milione di momenti per la democrazia” abbia diverse similitudini con quella di “Prima la Repubblica Ceca!”: in entrambi i casi ci sono “attivisti” che escono dal cilindro ottenendo grande risalto sui mass media, in entrambi i casi ci sono le firme da raccogliere (nel secondo caso sarebbero due milioni) per far dimettere i capi del governo, in entrambi i casi ci sono le manifestazioni convocate via web. Quella di Milion Chvilek pro demokracii è stata a tutti gli effetti una piccola “rivoluzione colorata”; quello di Česká republika na 1. místě! minaccia di essere una sorta di “populismo colorato”, un processo di canalizzazione e sterilizzazione preventiva del dissenso. A sostegno di questa tesi, AENews rileva anche il collegamento di “Prima la Repubblica Ceca!” con Reignite Freedom, società australiana che si prefigge di “attuare una reazione globale, unificata e strategica contro l’agenda globalista, garantendo il mantenimento della nostra libertà individuale e collettiva”, e che ha lanciato la campagna Global Walkout , che dovrebbe avere avuto nell’evento praghese del 3 settembre scorso il suo atto fondativo. Nonostante le nobili intenzioni dichiarate, coltivare il dubbio nei loro riguardi appare quantomeno lecito. Nel frattempo, Ladislav Vrabel è stato accusato di gestione fraudolenta dei fondi raccolti in queste settimane (il corrispettivo di duecentomila euro), ed il suo ex sodale Jiří Havel già minaccia azioni legali per stabilire chi sia il titolare del marchio Česká republika na 1. místě! ed il legittimo gestore del ricco salvadanaio. Del resto, quasi tutti i politici o aspiranti tali nominati in questo pezzo sono o sono stati degli “imprenditori”; la politica, a Praga come altrove, è un business come un altro.
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