I governi di Svezia e Finlandia hanno presentato formale domanda di adesione alla NATO nelle mani del segretario generale Jens Stoltenberg. Nonostante l’iter per l’ingresso a pieno titolo sia piuttosto complesso e venga richiesto il via libera di tutti i membri, l’accettazione dei due nuovi soci dell’organizzazione militare guidata dagli Stati Uniti dovrebbe essere ratificata nel giro di poche settimane, cavalcando l’allarmismo per una (alquanto improbabile, per usare un eufemismo) invasione russa dei due paesi nordici. A dire il vero, s’è già messa di traverso la Turchia di Erdogan, che ha espresso perplessità a causa di vecchie ruggini con la Svezia, paese che non solo ha dato storicamente accoglienza ai fuoriusciti curdi vicini al PKK (il partito di Ocalan che il governo turco considera un’organizzazione terroristica), la cui estradizione è stata sistematicamente rifiutata dalle autorità di Stoccolma, ma ha anche concesso l’asilo politico a diversi esuli del tentato golpe anti – Erdogan del 2016, dopo il quale il presidente turco ha fatto piazza pulita dei suoi oppositori all’interno del “deep state” di Ankara. Molto probabilmente, Erdogan sta solo negoziando qualche concessione su altri fronti strategici, e le sue “perplessità” cadranno entro pochi giorni. Forte contrarietà, e non potrebbe essere altrimenti, viene manifestata invece dalla diplomazia russa, per la quale questa mossa rappresenta l’ennesima provocazione: storicamente delicato è stato per i russi soprattutto il rapporto con la Finlandia, paese con il quale condivide oltre mille chilometri di confine terrestre.
La Finlandia si è trovata sotto il controllo dell’Impero Russo per tutto il XIX secolo con lo status di granducato relativamente autonomo. All’indomani della Rivoluzione d’Ottobre, dopo un decennio di brutale russificazione perpetrata dallo zar Nicola II, la Finlandia proclamò l’indipendenza, alla quale seguì una sanguinosa guerra civile fra i “rossi” appoggiati dal neoinsediato governo bolscevico ed i “bianchi”, che ebbero la meglio grazie all’appoggio militare della Germania, la quale instaurò un protettorato che restò in piedi fino alla conferenza di Parigi del 1919, quando la Finlandia divenne a tutti gli effetti una repubblica indipendente. Durante la II Guerra Mondiale vi furono poi due conflitti finnico-sovietici, il primo nell’inverno del 1939-40, il secondo, più lungo e logorante, dall’estate del 1941 a quella del 1944. Anche in questo caso la Finlandia, guidata da un governo di unità nazionale che escludeva solo i comunisti e i fascisti, per fronteggiare l’aggressività militare russa si alleò con la Germania, della quale non assecondò poi i piani per invadere Leningrado. Alla fine della guerra, la Finlandia stipulò con l’URSS un trattato di pace che non la umiliava sul piano delle cessioni territoriali, inaugurando una politica di “buon vicinato” che sarebbe di fatto durata fino ai fatti di questi giorni. Negli anni del dopoguerra, la Finlandia maturò una posizione geopolitica sui generis: “occidentale” sul piano socio-economico (lo stesso welfare state finnico è assai più “leggero” di quello svedese), neutrale per quel che riguarda le alleanze internazionali. La distensione con l’Unione Sovietica fu sancita da un trattato di amicizia e cooperazione sottoscritto dai rispettivi governi nel 1948. Gli interessi sovietici erano garantiti anche dalla presenza di un forte partito comunista, erede dei “rossi” della guerra civile, che seppe ricoprire un ruolo centrale nel panorama politico, partecipando a sette maggioranze governative fino alla sua trasformazione, nel 1990, in “Alleanza di sinistra”. Proprio dai dissidenti di questa formazione politica, che fa parte del governo guidato dalla socialdemocratica Sanna Marin, sono venuti gli 8 voti contrari (su 200) alla domanda di adesione alla NATO sottoposta all’approvazione parlamentare. La Finlandia si avvia dunque verso una nuova fase della sua storia con il consenso di tutte le forze politiche, anche di quelle eredi della tradizione di amicizia fra i due paesi: i suoi 1300 chilometri di confine con la Russia diverranno la principale frontiera nord-orientale dell’alleanza atlantica.
La vicina Svezia è stata capace di incarnare, nel corso del XX secolo, l’idea stessa di “neutralità”, assai più della “passiva” Svizzera. Dopo che il paese era rimasto neutrale nelle due guerre mondiali, i governi a guida socialdemocratica che si sono succeduti dagli anni ’40 in avanti hanno attivamente lavorato per la distensione fra i blocchi, promuovendo al contempo istanze antimperialiste, come in occasione della guerra in Vietnam e delle varie ondate di conflittualità fra Israele e mondo arabo. Principale fautore di questa politica estera è stato il più volte premier Olof Palme, assassinato nel 1986 in un delitto irrisolto che rappresenta un episodio di “strategia della tensione” a livello europeo. La vocazione alla neutralità è sempre stata maggioritaria nel popolo svedese; pur essendo l’ingresso nella NATO uno storico cavallo di battaglia dei partiti conservatori, neanche i governi da loro guidati si erano spinti su questa strada. Il passo decisivo lo ha fatto un governo socialdemocratico, cioè della forza politica che fino a ieri faceva del pacifismo la propria cifra identitaria, il primo guidato da una donna, la premier Magdalena Andersson. Va detto che già nel 2014 il governo svedese aveva stretto un accordo con i vertici NATO, in base al quale l’alleanza atlantica avrebbe potuto condurre operazioni sul territorio del paese scandinavo sia in tempo di pace che di guerra. La Svezia, insomma, ammainata la bandiera di Olof Palme, era già da qualche anno un paese “semi-neutrale”. La piena adesione alla Nato rappresenterà, ad ogni modo, un passaggio strategicamente e simbolicamente decisivo nella storia svedese.
Con l’ingresso di Svezia e Finlandia, la Nato completerebbe il processo di espansione in Europa iniziato negli anni immediatamente successivi al crollo dei regimi comunisti. Tale processo ha conosciuto tre fasi. Nella prima, fra il 1999 ed il 2004, sono entrati nell’alleanza tutti i paesi dell’Europa orientale che erano stati alleati dell’URSS nel Patto di Varsavia, comprese le tre repubbliche baltiche che erano parte integrante del territorio sovietico. Nella seconda fase, a partire dal 2009, la NATO ha consolidato la sua presenza nei Balcani, assorbendo Croazia, Albania, Montenegro e, nel marzo di quest’anno, anche la Macedonia del Nord, dopo aver già ottenuto l’adesione slovena nel 2004. Considerando che l’area, almeno nella sua parte meridionale, è storicamente e culturalmente vicina alla Russia, che il Kosovo è a tutti gli effetti un protettorato americano e che progetti di partnership restano in piedi con la Bosnia e persino con la Serbia, si può ben dire che l’alleanza atlantica ha quasi completato la “derussificazione” della penisola balcanica. Infine, questa terza fase dell’allargamento, con la creazione di un “blocco nordico” in cui Svezia e Finlandia si aggiungono a Norvegia, Danimarca e Islanda, paesi che hanno attraversato diverse vicissitudini geopolitiche e che furono fra i fondatori dell’alleanza nel 1949. Si stringe dunque la morsa sulla Russia dal versante occidentale, dove la NATO ha decisamente guadagnato posizioni rispetto ai tempi della Guerra Fredda. La stessa “conquista” geopolitica dell’Ucraina rappresenterebbe un ulteriore tassello di questa avanzata che pare inarrestabile. L’Europa si candida a diventare una delle tante “zone cuscinetto” fra gli Stati Uniti e la Russia.
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