Francesco Santoianni
Avanti.it
Ma com’è che l’esercito russo seppellisce i suoi soldati in Ucraina per strada lasciandoli alla mercede dell’inevitabile vandalo russofobo? e come fa a trovare tanti fiori per le tombe? e, soprattutto, come si fa a dire che si tratta di soldati russi e non di civili ucraini (verosimilmente del Donbas considerato le numerose bandiere russe) uccisi in qualche bombardamento e, frettolosamente, seppelliti a bordi delle strade? Perché il tizio, che ha girato il video, messo in onda dalla tv ucraina Nexta e diffuso su Twitter, non si è degnato di riprendere una dette tante foto che sovrastano le tombe per mostrarci che si tratta di un soldato russo?
Putin liberated #Luhansk from the invaders. pic.twitter.com/VqTadBiF3z
— NEXTA (@nexta_tv) November 6, 2022
Ci sarebbe da chiederselo davanti al video della «fila sterminata di tombe dei soldati russi» diffuso da Repubblica e soprattutto da Open «tombe russe per chilometri a bordo strada»…
In realtà, come in questo post Telelegram e nell’immagine qui sopra, basta verificare la presenza della stessa torre nelle due fotografie per rendersi conto che le tombe non sono state realizzate “lungo la strada” bensì in un cimitero (il New Cemetery di Kamenny Brod a Lugansk) in un viale dove vengono seppellite le vittime dei bombardamenti e degli eccidi commessi dal 2015 nel Donbas dalle truppe e milizie ucraine.
Ma passiamo ad una fake news meno macabra e riciclata in questi giorni per servire alla guerra in Ucraina.
La storia di Hvaldimir, il delfino-beluga da guerra di Putin risale al 2019 ma oggi troneggia sui media grazie alla realizzazione di una fantomatica “riserva marina tutta per lui”. «Usato come arma dai russi»: era questo il titolo che campeggiava su tutti gli schermi TV e media mainstream a proposito del beluga – una balenottera bianca, dall’aria simpatica – trovato davanti alle coste norvegesi con un’imbracatura. Ad attestare lo zampino di Putin, sull’imbracatura, una dicitura riportante anche un numero di telefono che, secondo anonimi ‘esperti’ interpellati dai media mainstream, corrispondeva ad una struttura militare russa. “Ma vi pare mai possibile – non si stancava di ripetere il colonnello russo Viktor Baranets – che se avessimo usato questo animale per spiare, o come arma, avremmo fatto trovare un numero di cellulare e il messaggio «Per favore, chiamate questo numero»?”
Considerazioni come queste avrebbero dovuto fare archiviare definitivamente la bufala del delfino costretto a diventare spia (o soldato) per le angherie di Putin. Ma perché non continuare ad utilizzare un animale così simpatico per supportare la guerra? E così, dopo delfini che proteggono la flotta russa a Sebastopoli o che scortano navi russe, si scopre che Putin ha fatto ammazzare 50.000 delfini dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina.
La sorte che Putin, secondo i media, riserva ai delfini altro non è che una delle facce delle fake news finalizzate a spianare la strada ad una guerra: lo storytelling, e cioè fare affezionare il pubblico ad una persona destinata ad essere vittima del dittatore di turno.
Un caso da manuale è certamente quello della fantomatica blogger Amina Abdallah Araf, venticinque anni, universalmente nota come ‘la lesbica di Damasco’, nata in Siria ma cresciuta negli Stati Uniti e tornata in patria nel 2010 per sostenere “l’opposizione siriana”.
Una struggente storia di continui patimenti subiti per il suo essere oppositrice di Assad, e per giunta lesbica, che per mesi ha commosso il mondo. Finché, il 6 giugno 2011, sul suo blog appare l’annuncio di sua ‘cugina’, tale Rania, che racconta del rapimento di Amina da parte dei servizi segreti siriani. Le manifestazioni di protesta dilagarono dovunque (in Italia una pagina Facebook per la liberazione di Amina in poche ore raccolse più di 15.000 adesioni) e Hillary Clinton, allora segretario di Stato, ordinò un’inchiesta sull’accaduto in quanto Amina era anche cittadina statunitense. Eppure non sarebbe dovuto essere difficile, con tutti i particolari della sua vita negli USA riversati nel suo blog, scoprire subito la verità.
Che venne a galla solo quando Andy Carvin – un debunker degno di questo nome – documentò che le che foto postate sul blog di ‘Amina’ erano presenti anche nell’album fotografico di tale Britta Froelicher, studentessa di un master in economia siriana a Edimburgo. Alcuni giornalisti, quindi riuscirono a risalire all’autore della falsa Amina – Tom MacMaster, il cui padre, impegnato in una assistenza a “rifugiati provenienti dai paesi arabi” era sospettato di lavorare per conto del Mi6, l’agenzia di spionaggio per l’estero del Regno Unito. Ma era troppo tardi. La storia di Amina e di tante altre fantomatiche vittime del “regime siriano” aveva già messo milioni di persone sul piede di guerra. Guerra per procura che cominciò nel 2012. Da allora sono state uccise in Siria almeno 500mila persone.
Ma lo storytelling è solo una delle tante tecniche delle fake news di guerra. Ce ne sono tante altre, molto più subdole. Avremo modo di parlarne.
Alvaro dice
Ormai siamo al massimo dell’ipocrisia di noi occidentali, che nel mondo ne abbiamo combinate e continuiamo a combinare di tutti i colori, ma le cause sono sempre degli altri, la propaganda occidentale oggi farebbe esultare Goebbels che di menzogne se ne intendeva, poveri noi che non ci accorgiamo che fine ci faranno fare i nostri regnanti, naturalmente il tutto in nome della “libertà e democrazia”. Alvaro