Giuseppe Russo
Avanti.it
Un po’ per la riduzione degli scranni e un po’ per il meccanismo delle liste “bloccate”, i 400 deputati e 200 senatori della XIX legislatura saranno obbedienti come soldatini. Riducendo, in tutti i sensi, gli spazi della partecipazione politica, si chiudono col mastice pure quelle fessure attraverso le quali poteva capitare che entrasse nel Palazzo qualche “testa calda”, qualche “rompiscatole”, qualche “tribuno della plebe” più o meno in buona fede: salvo un paio di elezioni e bocciature “sorprendenti”, i parlamentari sono stati tutti nominati dalle segreterie dei partiti, e gli elettori, barrando un determinato simbolo, si sono limitati a ratificare, il più delle volte senza averne piena consapevolezza, queste nomine calate dall’alto. Il caso più paradossale è quello della moglie di Berlusconi Marta Fascina, eletta nel collegio uninominale di Marsala senza avervi mai messo piede ed avendo limitato la sua campagna elettorale ad una dichiarazione sulle bellezze della Sicilia e sulle sue vacanze. Allo stesso tempo, per via del cosiddetto “effetto flipper”, sono almeno una trentina gli aspiranti onorevoli la cui poltrona balla fra un rimbalzo e l’altro a causa delle cervellotiche procedure di calcolo previste dalla legge elettorale. È una sorta di “algoritmo” di vecchia generazione ad “aggiustare” i risultati delle elezioni meno partecipate della storia repubblicana. Nel Palazzo va estinguendosi la vita umana.
Ad ogni modo, i partiti che si sono presentati formalmente coalizzati nel “centrodestra” hanno ottenuto una confortevole maggioranza alla Camera (237 su 400) ed una meno solida prevalenza al Senato (115 su 200 o su 206 conteggiando i senatori a vita). Bisogna tornare indietro di un quarto di secolo per trovare maggioranze post-elettorali così ampie, al 1994 e al 2001, quando lo stesso centrodestra, allora a trazione berlusconiana, ottenne successi di portata analoga. Il correttivo maggioritario della legge elettorale premia la coalizione vincente con il 15% circa di parlamentari in più rispetto alla quota che sarebbe scaturita da un riparto puramente proporzionale dei seggi e, all’interno di essa, “massimizza” il risultato delle forze minori: alla Camera Lega, Forza Italia e Noi Moderati, lo pseudopartito di Toti, Lupi e Brugnaro (che con meno dell’un per cento elegge comunque sette deputati) ottengono insieme 118 scranni, uno in meno di Fratelli d’Italia, mentre più equilibrato è il rapporto fra gli eletti al Senato. L’area politica che al tempo della Seconda Repubblica è stata sempre identificata come “centrodestra” (con la presenza costante di Berlusconi e dei principali filoni del postfascismo, quella intermittente della Lega) ha dunque vinto le elezioni per la quarta volta, a quattordici anni dall’ultimo successo del 2008. Ci sarebbero tutte le premesse per affidare l’incarico di formare il nuovo governo a Giorgia Meloni, la quale è pronta a discutere con Mattarella le nomine che più stanno a cuore al canuto presidente, quelle di Interni, Esteri e Difesa attraverso le quali si misurerà la “continuità” col draghismo e l’impegno a rispettare i famigerati “accordi internazionali” e a stringere ancor di più il cappio al collo dell’Italia. La coalizione che dovrebbe sostenere il governo Meloni, tuttavia, è “scomponibile” a piacere in base all’opportunità politica, secondo una prassi inaugurata nella precedente legislatura, quando la Lega “abbandonò” l’alleanza nel cui perimetro si era presentata alle elezioni per dare vita al governo “giallo-verde” con il Movimento 5 Stelle; facendo un bilancio, dal 2018 ci sono state maggioranze con tre “combinazioni” diverse: quella “populista” del Conte I, quella “progressista” del Conte II e quella “di unità (anti)nazionale” del governo Draghi. Sin dalle prime fasi della campagna elettorale, inoltre, quando già si dava per acquisita la vittoria di Fratelli d’Italia, i più arguti retroscenisti politici si sono sbizzarriti nel dare forma a ipotetiche maggioranze “alternative” in grado di rassicurare i mercati e tutto quanto. Calcolatrice alla mano, le maggioranze (per ora) silenziose sono le seguenti.
Maggioranza Draghi
La maggioranza Draghi, Meloni o no, è ancora tutta lì. Alla Camera potrebbe contare su 217 seggi: i 69 del PD, i 66 della Lega, i 45 di Forza Italia, i 21 di Azione – Italia Viva, i 7 di Noi Moderati, i 2 di +Europa, l’unico eletto di Impegno Civico Tabacci ed i 6 degli “altri”, che saranno con ogni probabilità “arruolabili” in tutte le maggioranze possibili, al pari delle residue truppe piddine e delle rampanti schiere della coppia Calenda – Renzi. Al Senato, il margine sarebbe strettissimo (102 su 200), ma si potrebbe fare affidamento sull’appoggio dei senatori a vita, fra i quali il solo Mario Monti è solito partecipare con continuità alle sedute parlamentari. A latere, una manciata di adesioni “responsabili” potrebbe venire da fuoriusciti di Fratelli d’Italia e dei 5 Stelle.
Maggioranza Ursula
Così chiamata ispirandosi alla maggioranza che sostenne l’insediamento di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea, nel 2019, quando si accordarono sul suo nome, dopo lunghe trattative, i tre gruppi “storici” dell’Europarlamento, popolari, socialisti e liberali, puntellati dal supporto del Movimento 5 Stelle e con l’opposizione dei gruppi di riferimento di Lega e Fratelli d’Italia. La maggioranza Ursula che tanto piace a Carlo Calenda starebbe in piedi per il rotto della cuffia, con 203 seggi alla Camera e 101 al Senato, numeri frutto dell’aggregazione dei gruppi di Pd, Movimento 5 stelle, Forza Italia, Azione – Italia Viva e delle altre frattaglie che vanno bene con tutto e tutti. Folgorati sulla via di Ursula potrebbero essere anche alcuni leghisti, quei “giorgettiani” che non ne possono più di seguire il populismo accattone di Salvini: almeno una ventina fra Camera e Senato potrebbero “ursulare”.
Maggioranza antifa
Una sola differenza caratterizza la maggioranza antifa rispetto a quella ursulista: l’appoggio della pattuglia di parlamentari dell’Alleanza Verdi – Sinistra, i quali potrebbero salire sulle barricate governative in nome dell’antifascismo senza se e senza ma e dei diritti LGBTQ+ messi a repentaglio, alleandosi con Gasparri e la Ronzulli pur di sbarrare la strada al Male. Alla Camera, “l’antifascismo” si assesterebbe su 215 seggi, al Senato su 105, senza considerare l’apporto dei senatori a vita, che una simile causa renderebbe di sicuro più arzilli e partecipi.
Maggioranza blu-fucsia
Rovescio della maggioranza antifa, la (quasi) inedita maggioranza blu-fucsia (o “neoarcobalenica”) sancirebbe l’incontro dei serpentoni metamorfici di destra e sinistra, sorprendendo solo i più sprovveduti. Le corrispondenze di amorosi sensi fra Giorgia Meloni ed Enrico Letta vanno avanti da tempi non sospetti: allo stato attuale delle cose, una “unità nazionale” degna di questo nome non può prescindere dalla contemporanea presenza delle due più votate forze politiche. Lei è pronta a baciare tutti i rospi del mondo pur di varcare la porta di Palazzo Chigi, lui ci tiene a rifinire il disastro facendo digerire ai “compagni” pure il governo coi “fascisti”, dopo aver governato negli ultimi anni con tutti gli altri “acerrimi nemici”. La maggioranza blu-fucsia, insomma, non è fantapolitica; i seguaci di altri cromatismi la chiamerebbero “rosso-nera”, i titolisti superficiali e frettolosi parlerebbero di “nuovo compromesso storico”, i critici letterari la definirebbero maggioranza “pennacchiana”, dal recentemente scomparso Antonio Pennacchi, l’autore de Il fasciocomunista (pur non essendoci più nulla né di “fascio” e men che meno di “comunista”), i politologi più raffinati conierebbero l’etichetta di “neomilazzismo“, ma in realtà bisognerebbe volare più basso: il blu “scuro” della Meloni ed il fucsia “chiaro” di Enrico Letta si incontrerebbero in nome dell’obbedienza all’Europa, alla NATO e ai mercati, rinnegando, pur di amministrare da mezzi luogotenenti la colonia Italia, tutta la pantomima elettorale appena consumata. Pure diverse tonalità di celestino, rosé e bianchiccio rientrerebbero nel Grande Arcobaleno: della partita, chiaramente, sarebbero anche Berlusconi, il duo Calenda – Renzi e gli altri “responsabili”. All’opposizione resterebbero Salvini, Fratoianni e Conte, ai quali il ruolo andrebbe a pennello: ciascuno saprebbe ricavarsi una nicchia di sopravvivenza. La blu-fucsia sarebbe la più solida fra le maggioranze silenziose sinora elencate con 270 deputati e 139 senatori.
Già si briga nei sottoscala del sottopotere per accaparrarsi le poltrone del futuro governo: pare che fra i piu attivi in quest’attività ci sia Antonio Tajani di Forza Italia, mentre per dare l’ennesimo “segnale” a chi di dovere diversi saranno i dicasteri occupati da donne. La maggioranza di centrodestra, che sarebbe l’unica legittimata a governare in base al voto, avrebbe i numeri per dare vita ad un esecutivo stabile, ma potrebbe andare a sbattere contro il cumulo di crisi che si prospetta per l’autunno. Allora, finalmente, le maggioranze (adesso) silenziose potranno prendere forma e far sentire la propria voce, che sarà sempre e comunque quella del Padrone.
BRUNO 🦁 dice
Articolo bello…peccato che il novanta per cento degli italiani non lo capirà…nonostante siamo già con l’acqua oltre la soglia della gola. Buona giornata
Alfonso dice
Mi ero adagiato su una base di pessimismo terrestre, ma dopo la lettura di questa analisi sto volando verso le alte sfere del pessimismo cosmico. Mai guariremo dal trasformismo parlamentare?