Marco Di Mauro
Avanti.it
Mediaticamente se l’erano giocata bene. Tutti i giornali, anche quelli che si sono costruiti un nome come indipendenti (e che hanno avuto un crollo di vendite proprio quando il pubblico si è accorto che erano schierati con una precisa parte politica) lo hanno chiamato “Piano Mattei”, dipingendo il viaggio in Libia della presidente Giorgia Meloni come l’alba di una nuova era in cui l’Italia sarebbe diventata un importante competitor nell’approvvigionamento energetico europeo. In effetti, il gasdotto Greenstream che dal 2004 collega l’impianto di Mellitah, in Libia occidentale, con quello di Gela, in Sicilia, fendendo il Mediterraneo per 500 chilometri è ancora là, e trasferisce nel nostro paese il 40% del gas prodotto in Libia, circa 238 milioni di metri cubi al mese (poco meno di 8 milioni al giorno) e 2,5 miliardi all’anno (dati Snam). La società estrattrice Mellitah Oil & Gas è posseduta al cinquanta e cinquanta dall’Eni e dalla locale National Oil Corporation; il problema è che quest’ultima dovrebbe essere posseduta dal governo libico, che attualmente non si trova in una situazione del tutto chiara rispetto alla sovranità territoriale, essendo in piena guerra civile sin dalla destituzione ad opera della NATO di Muhammar Gheddafi, e il complesso di Mellitah si trova in Tripolitania, territorio attualmente controllato dal Governo di Unità Nazionale – riconosciuto dall’occidente, ma non dalla stragrande maggioranza del popolo libico, e governato da Abdel Hamid Dbeibeh – che ha sotto la sua influenza solo una piccola parte del territorio nazionale, e attualmente è l’epicentro della tratta degli schiavi (i cosiddetti ‘migranti’) dall’Africa subsahariana e dello smercio di petrolio e gas. La Tripolitania occupata è insomma l’epicentro del saccheggio della Libia da parte dell’occidente e della migrazione forzata di migliaia di giovani africani, che lo fa soprattutto per il tramite dell’Italia – come è spiegato con dovizia di particolari da Michelangelo Severgnini ne L’urlo (Roma, LAD, 2022). E questo non piace al popolo libico, né al generale Khalifa Haftar, che controlla il resto del paese. Già da novembre scorso Eni North Africa Bv ha dovuto comunicare ufficialmente che i flussi di gas del Greenstream erano stati ridotti: “A causa di una manutenzione non programmata presso il complesso di Mellitah, dal 22 novembre si registra una riduzione significativa, con possibile azzeramento dei flussi di gas verso l’Italia. Sono in corso tutte le attività al fine di risolvere la criticità il prima possibile” e l’azzeramento alla fine è arrivato il 5 e 6 gennaio, e il flusso è stato ripristinato al volume consueto soltanto dopo quattro giorni.
Tutto questo fa comprendere non soltanto come la visita di Giorgia Meloni – che batte lo stesso terreno del suo mentore Draghi, il quale visitò Dbeibeh come primo appuntamento estero del suo mandato – costituisca un nulla geopolitico, in quanto tutti gli accordi presi riguardano soltanto una piccola porzione del territorio, e soprattutto i diritti di estrazione sono carta straccia, ma vedere la nostra premier cheek-to-cheek con Dbeibeh ha fatto infuriare il popolo libico, che è sceso in piazza a protestare contro il “piano Mattei” in tutte le città principali, fino ad arrivare ieri a occupare l’impianto di Mellitah, forzando il blocco di polizia fino ad arrivare nei locali di azionamento delle pompe, intimando a ingegneri e operai di bloccare i flussi verso l’Italia, ottenendo di ridurli addirittura del 50%, a quanto afferma Mario Savina di AIRL Onlus, citando fonti locali e Lyobserver. E i libici ne hanno ben donde: il governo Meloni, infatti, lungi dal creare un nuovo centro italico di approvvigionamento energetico, ha concesso un finanziamento al governo di occupazione di ben 8 miliardi di dollari dell’Eni. Diversamente dai giornali italiani, i libici sanno bene che questi soldi Dbeibeh non li spenderà certamente per esplorazioni territoriali o incremento dello sfruttamento dei giacimenti in territori di cui non ha il controllo, ma li utilizzerà per rafforzarsi militarmente e consolidare il traffico di schiavi e petrolio di cui oggi la Tripolitania è centro nevralgico. E lo sa bene anche il governo italiano, che lungi dall’investire per il lustro geoeconomico della nazione, sta soltanto eseguendo i compiti assegnatigli dai padroni a stelle e strisce, finanziando il saccheggio degli idrocarburi del popolo libico e soprattutto i principali fautori e controllori del flusso di migranti che sotto i riflettori dice di voler fermare. Questa è la realtà, e c’è da chiedersi perché tutti i media italiani dicano l’esatto contrario.
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