Giuseppe Russo
Avanti.it
Al primo turno delle elezioni presidenziali in Brasile, svoltesi domenica 2 ottobre in concomitanza con le elezioni per il parlamento e per i governatori dei diversi stati, l’ex presidente Inacio Lula da Silva ha sfiorato la vittoria al primo turno con oltre 57 milioni di voti (pari al 48,5%), mentre il presidente uscente Jair Bolsonaro si è dovuto accontentare della seconda piazza, staccato di 6 milioni di preferenze e con il 43,2% come risultato percentuale. Fra gli altri nove candidati in lizza, i soli ad ottenere un significativo numero di consensi sono stati Simone Tebet, esponente del Movimento Democratico Brasiliano e candidata delle declinanti oligarchie “tradizionali” del paese sudamericano ed il politicante di lungo corso dello stato di Cearà Ciro Gomes, per la quarta volta candidato alla presidenza dopo aver cambiato mille partiti ed essere stato prima ministro e poi successore designato dello stesso Lula: la prima ha ottenuto quasi 5 milioni di voti, pari a poco più del 4%, il secondo, che alle presidenziali del 2018 era arrivato terzo con oltre 13 milioni di suffragi, ne ha ottenuti in questi occasione appena 3 milioni e mezzo, venendo cancellato politicamente anche nello stato del Nord-Est brasiliano di cui è stato dominus politico negli ultimi trent’anni.
Rispetto a quattro anni fa, quando era finito largamente in testa dopo la prima tornata del voto presidenziale, Bolsonaro guadagna circa due milioni di voti, ma perde quasi tre punti in percentuale, fatto imputabile alla drastica diminuzione delle schede bianche e nulle, che nel 2018 furono quasi un decimo del totale. Lula, dal canto suo, coi suoi 57 milioni di suffragi, ottiene in termini assoluti il miglior risultato nella storia delle presidenziali brasiliane: da quando è in vigore l’elezione diretta del capo dello stato, istituita a partire dal 1989, mai nessuno aveva sfondato il muro dei 50 milioni al primo turno. Comparando tale risultato con quello dell’ultima e più fortunata elezione di Lula alla presidenza, nel 2006, i voti in più sono cinque milioni; rispetto al debole e perdente candidato del Partito dei Lavoratori nel 2018, Fernando Haddad, i voti “recuperati” sono invece la bellezza di sedici milioni. Il Brasile è spaccato anche sul piano geografico: Bolsonaro domina negli stati più “europei” del Brasile meridionale ed in quelli più caratterizzati dalla presenza dell’agro-business, che rappresenta il suo principale sponsor politico, come Roraima nel Nord e Rondonia al centro. Lula stravince nel Nord-Est “nero” , dove raccoglie una media dei due terzi dei voti, mentre nelle megalopoli di San Paolo e Rio de Janeiro, pur arrivando secondo dietro Bolsonaro, prende il triplo dei voti che Haddad era riuscito a prendere nel 2018.
Quelli della presidenza Bolsonaro sono stati anni vissuti pericolosamente. L’ex militare era giunto sullo scranno di capo dello stato riempiendo il vuoto prodotto dall’eclisse giudiziaria del “lulismo” e dall’inadeguatezza delle oligarchie che avevano guidato la “transizione” seguita alla convulsa destituzione di Dilma Roussef, l’erede di Lula che, dopo essere stata eletta per un secondo mandato presidenziale nel 2014, aveva subito l’impeachment da parte del parlamento. Adoperando i partiti come taxi (nel 2018 si candidò con il contrassegno del Partito Social Liberale, quest’anno con quello del Partito Liberale: gusci vuoti dietro le cui insegne la legge brasiliana obbliga a presentarsi), Jair Bolsonaro è riuscito a costruirsi in un buon quarto di secolo di attività politica un consenso personale fondato sulla lotta alla criminalità di strada e sul conservatorismo in fatto di diritti civili. Parallelamente, si è coagulato intorno alla sua figura un nuovo blocco sociale guidato dalle oligarchie emergenti del settore agroindustriale, all’interno del quale hanno trovato posto membri dell’esercito e delle forze di polizia, piccoli commercianti e classe media residua spaventati dalla criminalità dilagante, chiese e sette evangeliche che hanno ormai prevaricato la chiesa cattolica brasiliana. Nel corso del suo quadriennio da presidente, Bolsonaro ha avuto due priorità: favorire l’export agricolo ed arginare la violenza diffusa. Nel primo ambito, sono stati esautorati quegli enti statali che presidiavano le terre dei popoli indigeni e le tenevano al riparo dall’invadenza degli allevamenti, dell’agricoltura intensiva e dell’industria mineraria, favorendo così la penetrazione del latifondo: non è un caso che il principale finanziatore (ufficiale) della sua campagna elettorale sia stato proprio il latifondista Oscar Luiz Cervi, fra i maggiori produttori di granaglie di tutto il Brasile. I numeri descrivono un successo anche nella sfera della sicurezza e della tutela dell’ordine pubblico: secondo i dati ufficiali, omicidi, furti e rapine sarebbero diminuiti di un 20% abbondante negli ultimi quattro anni. Presidente più filoamericano della storia brasiliana, seppur di sponda “trumpista”, Bolsonaro ha condotto una politica estera saldamente atlantista, mostrando a più riprese sostegno allo stato d’Israele e giungendo a negoziare l’adesione alla NATO, oltre a partecipare a programmi di esplorazione dello spazio patrocinati dalla NASA. Qualche scaramuccia c’è stata con la Francia, con la quale nel 2019 si è sfiorata la crisi diplomatica, ma solo per questioni legate alla liberalizzazione delle esportazioni brasiliane verso l’Europa. Il picco di popolarità per Bolsonaro si era avuto in piena era Covid, quando il suo “negazionismo” pandemico gli aveva guadagnato larghe simpatie, mentre andava compattandosi contro di lui il fronte composto dai principali mass media, dalla magistratura (che pure ne aveva, indirettamente, favorito l’ascesa) e da settori dello stato profondo e delle élite “tradizionali” del Brasile. Promotore dell’uso dell’idrossiclorochina e dispensatore di scetticismo sui vaccini e sulle mascherine, Bolsonaro ha fatto della lotta al “covidismo” una bandiera della sua presidenza, anche a costo di farsi nemici a Occidente e di andare a negoziare con Putin l’acquisto di partite del vaccino Sputnik. Il suo potere è nel cuore dello stato brasiliano, in quell’esercito da lui più volte brandito come un’arma contro gli avversari politici, fino alla minaccia di condurre un golpe nel caso le elezioni risultassero manipolate. Bolsonaro voleva fare l’americano, ma ha finito con l’essere il presidente più “nazionalista” della storia recente, oltre che il più genuinamente “populista”: come fatto di costume, è interessante sottolineare che lo appoggia anche gran parte del mondo dello sport professionistico, dall’ex pilota di Formula 1 Nelson Piquet (secondo principale finanziatore della sua campagna per la rielezione) fino ai campioni del calcio di ieri e di oggi Pelé e Neymar.
Riabilitato davanti alla legge e all’opinione pubblica nel 2019, dopo essere stato condannato a dodici anni di detenzione per riciclaggio e corruzione nell’ambito della Operação Lava Jato, la “Tangentopoli brasiliana” che aveva decapitato i vertici del Partito dei Lavoratori, Luiz Inácio Lula da Silva si è candidato per il suo terzo mandato presidenziale con la stessa strategia politica di sempre: allearsi con un pezzo dell’establishment per portare a casa, in un orizzonte di compromesso a volte al ribasso, a volte al rialzo, riforme sociali in grado di attenuare la povertà e favorire l’emancipazione delle classi popolari, senza però mai mettere in discussione l’impianto neoliberista del sistema socio-economico. In occasione delle presidenziali del 2022, l’élite si incarna nella persona di Geraldo Alckmin, che corre da vicepresidente in “ticket” con Lula. Già governatore dello stato di San Paolo per dodici anni, nonché avversario dello stesso Lula alle elezioni del 2006 in rappresentanza del Partito della Social Democrazia Brasiliana, la forza politica di riferimento delle oligarchie nell’era del “lulismo”, Alckmin ha strumentalmente aderito al Partito Socialista per candidarsi alla vicepresidenza, mentre il suo partito storico, ormai polverizzato, appoggiava la candidatura di Simone Tebet. Nei quattro mandati presidenziali dell’epoca “lulista” (due di Lula, due di Dilma Roussef), i settori dell’élite che vi si erano strumentalmente associati avevano avuto a più riprese occasione di boicottare il processo riformatore, fino a porsi come contrappeso al potere esercitato dai presidenti espressi dal Partito dei Lavoratori. Difficile che in questa circostanza le cose vadano diversamente. Ad ogni modo, la popolarità personale di Lula è ai massimi storici: la terza presidenza sembra a un passo in quello che sarà il quarto ballottaggio della sua carriera politica (due vinti, uno perso) a fronte di sei candidature in tutto alla massima carica dello stato.
Il ballottaggio decisivo si terrà il prossimo 30 ottobre. Lula è favorito non solo per i sei milioni di voti di vantaggio su Bolsonaro, ma anche perché sulla sua persona dovrebbe convergere gran parte dell’elettorato che ha votato per Ciro Gomes (che in questi anni ha recitato il ruolo di un Lula più “moderato” e borghese) al primo turno. Bolsonaro, invece, ha già fatto il pieno e solo una parte dell’elettorato “centrista” di Simone Tebet sposerà la sua causa al secondo turno. Sapendo di trovarsi di fronte ad un’impresa disperata, il presidente uscente ha agitato il fantasma dei brogli elettorali, che avverrebbero attraverso la manomissione del voto elettronico, procedura oggetto di un progetto di riforma che non è stato portato a termine. Pur essendo il sistema vigente in Brasile assai diverso da quello degli Stati Uniti, è a Donald Trump che Bolsonaro pare ispirarsi nello spirito della denuncia. Non è da escludere che l’ex ufficiale dell’esercito diventato presidente faccia appello all’uso della forza in caso di esito “sgradito” del ballottaggio: sia essa la forza militare (ma ampi settori delle forze armate hanno già avuto occasione di non assecondare la sua retorica golpista), sia essa quella dei suoi milioni di sostenitori, alcuni dei quali sono armati fino ai denti, legittimati nel possesso di armi da fuoco proprio da alcune norme emanate dal governo Bolsonaro. La campagna elettorale è già stata segnata dalla violenza. La prima sfida di Lula sarà quella di pacificare un paese sull’orlo della guerra civile.
Emilio landi dice
Cari compagni dell’Avanti, io vivo e lavoro in Brasile, se vince Lula, dovrà rifare la compra dei deputati che fu il primo ladrocinio che fece nel 2001, non ha maggioranza né al senato, né alla camera. È previsto in caso di sua vittoria un governo di 3mesi. Bolsonaro, rappresenta le fasce popolari, cosa che il pt non rappresenta più. È la stessa cosa del PD, il.paetito delle banche e dell’apparato che vive alle spalle del governo. Lula rappresenta i borghesi e il sottoproletariato che vive di assistenza. Ma non ha le città e interruttori produttivi. Ha vinto nel nordest, poiché le sue promesse sono quelle di un assistenzialismo selvaggio, difatti lo chiamano papai. Oggi il brasile non si può permettere di tornare indietro ai tempi del credito sfrenato, che spinse i consumi, ha arricchito le banche e inguaiato i poveri cristi. Il brasile ha bisogno di una.pilitica che lo conduca a pieno titolo tra le potenze mondiali, per la forza del suo territorio, economia, 1/5 degli alimenti al mondiale viene dal Brasile.
Emilio landi dice
Ha fatto un’analisi non da tifoso, come normalmente fa la sinistra o dettato da ideologie da anni 70, ma non ci sarà nessuna guerra civile, anche se vince Lula, non potrà governare, non ha la maggioranza al senato e alla camera, quindi dovrà o comprare i deputati, ma questo gli comporta la perdita del partito, poiché dovrà dare ministeri, enti ecc. Da togliere ai suoi o dovrà inginocchiarsi a Bolsonaro, ma la sua base radicale lo abbandonarebbe. L’ipotesi più probabile è impeachment, che risolve che va a governare il vice che come moderato, può accordarsi con i conservatori.