Giuseppe Russo
Avanti.it
A metà giugno, mentre maturava la crisi del governo Johnson ed iniziavano a farsi sentire gli effetti della prima ondata di rincari energetici, si palesava all’opinione pubblica britannica la campagna Don’t pay UK, in virtù della quale si invitavano i cittadini a revocare gli addebiti delle fatture di gas e luce sul proprio conto bancario a partire dal prossimo primo ottobre qualora le autorità politiche e l’Ofgem, l’ente governativo che si occupa di regolare la distribuzione del gas e dell’energia elettrica, si fossero rifiutati di adottare un piano di riduzione delle tariffe a prezzi ragionevoli. Le motivazioni dell’iniziativa, nata sulla rete e dilagata poi nelle strade delle maggiori città del Regno Unito, sono presentate sul sito Internet che da allora funge da cassa di risonanza: “Milioni di noi non saranno in grado di pagare le bollette energetiche quest’inverno. Non possiamo permettere che ciò accada. Don’t Pay esiste per unire tutti noi, costruire la nostra forza e combattere”. Gli obiettivi sono molteplici: dal ritorno ai prezzi in vigore ad aprile all’introduzione della progressività nel sistema tariffario (in base alla quale “riscaldare una scatola di fagioli non dovrebbe costare lo stesso che riscaldare una piscina”), dall’applicazione di forti sconti alle bollette di edifici comunitari quali scuole, luoghi di culto, centri culturali e pub, fino allo smantellamento del sistema dei contatori “prepagati”, quelli che già oggi sono utilizzati dalle fasce più povere della popolazione e che hanno costi superiori a quelli dei contratti con pagamento posticipato. Al grido di “Nessuno deve avere freddo quest’inverno”, la campagna Don’t pay UK punta a collettivizzare la lotta per il soddisfacimento di un bisogno primario, strappando alle grinfie della speculazione la gestione dell’energia. In una società oltremodo atomizzata, finanziarizzata e americanizzata come quella britannica, tale progetto può apparire utopico, ma il freddo e la miseria incidono sulla carne viva di una ex classe media ormai completamente proletarizzata, ridestandone l’assopita coscienza politica: i poveri “storici” sono pratici nell’arrabattarsi, i “nuovi” poveri fanno fatica ad adattarsi al nuovo status previsto per loro dai Grandi Resettatori. Sono proprio questi neoproletari a essere in prima linea nelle mobilitazioni di Don’t pay UK: conti alla mano, le spese per l’energia finiranno per mangiarsi fino al 50% del loro reddito.
Da quando la campagna ha preso piede, è stato tutto un pullulare di politici, giornalisti, “esperti” vari ed assortiti (si sono pure mobilitati i Charitable Trust, enti di beneficenza di matrice religiosa onnipresenti in Gran Bretagna) pronti a mettere in guardia i cittadini dai rischi legati alla sospensione dei pagamenti: dopotutto, come ribadiscono gli stessi promotori di Don’t pay UK, non si tratta di “non pagare” in senso stretto, ma solo di sospendere o rinviare i pagamenti confidando possano mutare i rapporti di forza in campo. Ad ogni modo, per i disobbedienti britannici ci sarebbero nell’immediato un ulteriore ritocco (di poche sterline, in verità) delle bollette dopo aver revocato l’addebito diretto, l’abbassamento del rating creditizio, ovvero il “punteggio” di affidabilità in base al quale gli istituti di credito decidono se concedere o meno un prestito e l’installazione forzosa dei già citati contatori “prepagati”, disponendo dei quali non è possibile dilazionare né rateizzare i pagamenti. L’ultima questione è chiaramente la più spinosa, visto il timore di molti di vedersi sospesa l’erogazione da un momento all’altro. A tal riguardo, gli attivisti di Don’t pay UK precisano che le compagnie, prima di attivare un nuovo contatore o di procedere al recupero del credito, dovrebbero ottenere mandato dal competente tribunale di contea, al quale è possibile opporre ricorso in modo da guadagnare ulteriori settimane. Si confida infatti sull’inceppamento della macchina della giustizia: qualora i piccoli tribunali di provincia venissero sommersi da questi ricorsi, sarebbe assai difficile venirne a capo in tempi brevi. Inoltre, le sospensioni totali sono estremamente rare, visto che gli erogatori dovrebbero prima, a norma di legge, sincerarsi dell’eventuale stato di vulnerabilità del nucleo familiare moroso, e nel caso proporre un piano di rientro calibrato sulle possibilità del debitore. Per prevenire l’ondata di terrore e disinformazione che si abbatterà sui disobbedienti, sul sito di Don’t pay UK si precisa anche che “Il mancato pagamento delle bollette energetiche non è un reato penale, quindi non si può essere arrestati o mandati in prigione per il mancato pagamento“. I problemi relativi all’abbassamento del rating creditizio appaiono invece più complessi, e non è possibile derubricarli a questione secondaria nel momento in cui decine di milioni di cittadini britannici versano in uno stato di indebitamento che non sfocia nella bancarotta solo grazie alla possibilità di ottenere altri prestiti per onorare i debiti pregressi. In base a stime fatte alla fine dello scorso decennio, infatti, l’indebitamento privato nel Regno Unito aveva raggiunto la spaventosa cifra di 225 miliardi di sterline (72 nel settore delle carte di credito), pari a oltre 4000 sterline pro capite. Anche per fronteggiare l’eventuale penalizzazione, rischio riconosciuto dagli stessi promotori della campagna di disobbedienza civile, si fa affidamento sul peso dei numeri: se le inadempienze nei pagamenti fossero milioni, le stesse società finanziarie sarebbero costrette ad adottare criteri più elastici. Quella dell’indebitamento di massa è una bolla sempre sul punto di scoppiare: perdere l’accesso al credito rappresenterebbe per molti britannici una sciagura peggiore rispetto a quella di perdere il lavoro.
Ufficialmente, i promotori di Don’t pay UK sono anonimi. Provando a fare luce sulla loro identità, il quotidiano conservatore Daily Mail ha pubblicato nella sua edizione domenicale un controverso articolo i cui contenuti sono stati poi ripresi da buona parte del mainstream britannico. Nel pezzo, avente come eloquente titolo “Don’t pay UK è organizzato dalla plebaglia corbynista decisa a rompere il sistema“, si rivela che l’eminenza grigia dietro la sovversione delle bollette sarebbe l’anarchico di origine italiana Alessio Lunghi, descritto come “veterano della scena anarchica conosciuto dalle polizie di tutta Europa per la sua partecipazione a rivolte anticapitaliste”, supportato nella sua azione dal collettivo anarco-comunista Plan C, che così si descrive sul suo sito: “Plan C è uno strumento o una risorsa per lo sviluppo dei movimenti sociali. In quanto tale, può essere visto come una sacca all’interno di quei movimenti o come un punto di appoggio per quando sono dispersi o temporaneamente irriconoscibili. Non è un movimento in sé e non ha alcun desiderio di assumere il controllo di tali movimenti”. Leggendo l’articolo del Daily Mail, si ha la sensazione di tornare ai tempi di Errico Malatesta, quando gli anarchici a Londra ci andavano in esilio, oppure di immergersi nelle torbide atmosfere evocate da Joseph Conrad nel romanzo L’agente segreto. Il movimento, in realtà, pur scaturito da ristretti circoli di attivisti, ha presto assunto dimensioni tali da non poter più essere etichettato: gli appelli dei promotori sono stati rivolti sin dalle prime settimane a costituire gruppi sul territorio, uscendo dalla rete per conoscersi personalmente e condividere l’impegno di organizzare iniziative nel mondo reale. Sin dai primi vagiti della campagna di disobbedienza, è emersa la partecipazione di parecchi militanti “corbynisti” (la “plebaglia” di cui parla il Daily Mail), ovvero seguaci di Jeremy Corbyn, l’ex leader laburista che aveva impresso una marcata svolta a sinistra al partito che era stato di Tony Blair, uscendo poi sconfitto dalle elezioni politiche del 2019 e vedendo i suoi sostenitori epurati dal partito dopo la controsvolta “moderata” seguita all’elezione del suo successore, Keir Starmer. Corbyn aveva suscitato grandi speranze nella working class britannica, ma il suo coraggio è andato a infrangersi prima sulla questione Brexit, davanti alla quale ha finito per sposare l’europeismo più impopolare, poi addirittura sull'”antisemitismo”, ovvero sul massacro mediatico seguito alle manifestazioni di vicinanza alla causa palestinese, vicenda per la quale Corbyn è stato persino sospeso dallo stesso Labour Party. Il “corbynismo” sembra essere sopravvissuto all’uscita di scena di Corbyn: si tratta dell’area che ieri era raccolta nell’organizzazione Momentum e che oggi ha dato vita al movimento Enough is Enough (che può essere tradotto come “Ne abbiamo abbastanza” oppure “Ora basta”), all’interno del quale, con il patrocinio di due deputati laburisti dell’ala “corbynista” sopravvissuti alle purghe, Ian Byrne e Zarah Sultana, si sono ritrovati i sindacati più attivi e intransigenti, come quelli dei lavoratori delle poste e delle ferrovie, i volontari che hanno dato vita a centinaia di banchi alimentari in tutto il Regno Unito in nome della “campagna per il diritto al cibo”, addirittura i gruppi ultras di squadre storicamente popolari fra la working class, come il Liverpool. Enough is Enough ha già sviluppato una piattaforma analoga a quella di Don’t pay UK, di cui si candida ad essere il braccio “visibile”. Nel grande movimento sociale che va crescendo in Gran Bretagna, tuttavia, ci sono anche “nazionalisti” che all’epoca del referendum sull’uscita del Regno Unito dall’UE sostennero la Brexit. L’incontro e la ricomposizione fra queste due sensibilità è quanto più spaventa i giornalisti del Daily Mail, e soprattutto i Padroni del Discorso che commissionano loro gli articoli.
Nella torrida estate britannica di mobilitazioni e scioperi che hanno riguardato diverse categorie, dai ferrovieri ai netturbini, dagli avvocati ai giornalisti, dai pensionati agli studenti universitari, e che ha fatto somigliare il Regno Unito alla Francia dei “Gilet gialli” (movimento al quale diversi militanti si richiamano esplicitamente), nei palazzi e nei sottoscala del Potere si è consumata la resa dei conti fra le fazioni del Partito Conservatore per la nomina del nuovo primo ministro dopo la defenestrazione di Boris Johnson. Alla fine, a spuntarla è stata Elizabeth “Liz” Truss, che ha battuto con uno scarto di oltre 20000 voti il suo rivale, l’ex Cancelliere dello Scacchiere (carica affine al nostro ministro delle finanze) Rishi Sunak nell’ambito delle elezioni per la leadership dei Tories, consultazioni aperte solo ai circa 170000 iscritti al partito. Liz Truss, figlia di intellettuali della sinistra laburista, liberal-democratica e repubblicana negli anni dell’università, da matura conservatrice prima ostile e poi favorevole alla Brexit, si presenta con un curriculum da “dura” che si è costruita da segretario agli esteri del governo Johnson. All’atto di insediarsi da primo ministro, ha subito ribadito il sostegno all’Ucraina, confermando il ruolo del Regno Unito quale longa manus degli interessi statutinensi in Europa. Sul piano sociale, la piattaforma con la quale si è fatta eleggere leader dei Tories parla chiaro: taglio delle tasse ai ricchi per “rilanciare l’economia”, feroce deregulation del mondo del lavoro con limitazioni draconiane del diritto di sciopero, privatizzazione del sistema sanitario (già falcidiato da decenni di tagli ed “esternalizzazioni”), ridimensionamento dell’assistenza sociale pubblica. Riguardo alle questioni energetiche, la neopremier si è limitata a dichiarazioni vaghe e ambigue, sostenendo che si sarebbe occupata della crisi affrontando sia il caro bollette (senza specificare come), sia “i problemi a lungo termine dell’approvvigionamento energetico”, che è poi la parte più sibillina dell’enunciato.
Liz Truss lo ha assicurato: ha fatto campagna da “conservatrice” e manterrà questa inclinazione nella sua azione di governo. I paragoni con Margaret Thatcher, la celebre “Lady di ferro” della politica britannica scomparsa nel 2013, si sprecano: entrambe esponenti dell’ala destra del conservatori, entrambe ascese alla carica di capo del governo in tempi di marasma sociale e politico. La Thatcher ottenne la sua più significativa vittoria politica disarticolando nel 1985 lo sciopero dei minatori e reprimendone i picchetti a suon di manganellate. Oggi che i minatori non ci sono (quasi) più, a trentasette anni dall’apoteosi del “thatcherismo”, il movimento Don’t pay Uk si candida ad assolvere lo stesso ruolo ricoperto all’epoca dal NUM, il sindacato dei minatori che era guidato da Arthur Scargill, il quale era un po’ il Corbyn dell’epoca. Sull’esito finale del braccio di ferro che si profila fra il governo appena insediato e i disobbedienti energetici c’è ragione tuttavia di essere più ottimisti, e proprio facendo riferimento ad un altro episodio dell’epopea thatcherista. Fra i fatti che determinarono la caduta della “Lady di ferro” nel 1990 vi fu l’introduzione della Poll Tax, un’imposta comunale uguale per tutti i cittadini a prescindere dal reddito. L’istituzione della nuova tassa, che colpiva duro i ceti medi e bassi, determinò la nascita di un movimento spontaneo di opposizione che condusse a uno sciopero fiscale di massa: 18 milioni di britannici si rifiutarono di pagare, i tribunali vennero ingolfati con decine di milioni di cause e gli stessi conservatori si adoperarono, una volta disarcionata la Thatcher, per l’abolizione della Poll Tax. Dell’epoca si ricordano le sommosse di Bristol, Hackney e Trafalgar Square, a Londra, dove cariche selvagge furono effettuate dalla polizia a cavallo e dai furgoni lanciati contro la folla, e la manifestazione, che vide la partecipazione di 250000 persone a fronte delle 20000 previste, si concluse con oltre trecento arresti e un centinaio di feriti solo fra le forze di polizia. Tutti i partiti politici condannarono il movimento, il cui spontaneismo anarcoide non si prestava ad essere incanalato verso placide secche; i laburisti, allora all’opposizione da oltre un decennio, si adoperarono in tal senso con un ardore superiore a quello dei conservatori, senza neppure provare a cavalcare opportunisticamente il fenomeno in funzione anti-thatcheriana, mentre la loro base affollava le piazze cambiando il corso della storia. Davanti alla mobilitazione popolare, pure le signore di ferro diventano colossi dai piedi d’argilla.
La campagna Don’t pay UK, a detta degli stessi organizzatori, proseguirà promuovendo la descritta disobbedienza di massa solo se si raggiungerà, entro il fatidico primo ottobre (data nella quale è anche prevista una manifestazione nazionale), la massa critica di almeno un milione di aderenti. Queste le parole indirizzate ai timidi, ai tiepidi e agli indecisi dai curatori di dontpay.uk: “Se vi impegnate a scioperare, non vi impegnate a farlo da soli o a prescindere da tutto. Vi impegnate a unirvi ad almeno un milione di altre persone per trasformare la nostra debolezza individuale in potere collettivo, il potere di cui abbiamo bisogno per proteggerci a vicenda, per proteggere le nostre comunità e per costringere il governo ad agire”. Allo stato attuale delle cose, in base al contatore presente sul sito, le adesioni superano di poco le 180000. Raggiungere il milione in una ventina di giorni appare difficile, ma in ogni caso il movimento non si sgonfierà. Il modello britannico, anzi, minaccia di dilagare oltremanica: è di pochi giorni fa l’apertura del canale Telegram Io non pago, che a detta di uno dei promotori, Federico Ciaravella, si ispira apertamente a Don’t pay Uk, e che ha raggiunto quasi 20000 iscritti, mentre a Napoli lo scorso 2 settembre è andata in scena la prima manifestazione di disobbedienza civile contro i rincari dell’energia, con un centinaio di disoccupati che hanno platealmente dato fuoco ai bollettini nei pressi dell’ufficio postale di Piazza Matteotti. L’auspicio di tutti i resistenti è che l’originale don’t pay possa essere presto tradotto e coniugato in tutte le lingue del mondo.
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