Marco Di Mauro
Avanti.it
I tassisti italiani sono sul piede di guerra ormai dall’inizio del mese. Contestano il DDL Concorrenza, che dà mandato all’esecutivo di legiferare in materia di trasporto pubblico, e in particolare contro l’articolo 10, nel quale i primi tre commi del paragrafo 2 recitano:
a) definizione di una disciplina per gli autoservizi pubblici non di linea che provvedono al trasporto collettivo o individuale di persone che contribuisca a garantire il diritto alla mobilità di tutti i cittadini e che assicuri agli autoservizi stessi una funzione complementare e integrativa rispetto ai trasporti pubblici di linea ferroviari, automobilistici, marittimi, lacuali e aerei;
b) adeguamento dell’offerta di servizi alle forme di mobilità che si svolgono mediante l’uso di applicazioni web che utilizzano piattaforme tecnologiche per l’interconnessione dei passeggeri e dei conducenti;
c) riduzione degli adempimenti amministrativi a carico degli esercenti gli autoservizi pubblici non di linea e razionalizzazione della normativa, ivi compresa quella relativa ai vincoli territoriali, alle tariffe e ai sistemi di turnazione, anche in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale in materia;
d) promozione della concorrenza, anche in sede di conferimento delle licenze, al fine di stimolare standard qualitativi più elevati;
Insomma, nel comma a si impone una legislazione che favorisca servizi più diversificati e numerosi, nel b si fa esplicito riferimento alla legalizzazione di servizi erogati da multinazionali come Uber e Lyft, nel c si impone una semplificazione amministrativa nell’acquisizione della licenza, e nel d si istituisce una liberalizzazione nel conferimento delle licenze. Un’apertura in apparenza benefica, dal momento che nella percezione degli italiani i tassinari sono una casta chiusa, gelosa del proprio mercato monopolistico e per questo incline alla speculazione. È quanto scrivono i giornalisti di regime, bollandoli come difensori del vecchio, incapaci di accettare il mercato che cambia e si espande. Dall’altro lato, pochissimi nel settore della libera informazione si sono interessati alla protesta, bollandola come venale e legata al vil danaro: nessun tassista si è schierato contro la tessera verde e l’obbligo vaccinale, e ora scendono in piazza solo perché gli toccano le tasche. E così, la protesta dei tassisti ha trovato spazio soltanto nel mainstream, con l’obiettivo di screditarla, mentre è stata snobbata dai duri e puri del complottismo martire, che mai come stavolta – e non solo stavolta – hanno preso un granchio colossale.
Quando il 24 ottobre 2020 una Napoli tanto vuota che si riusciva a sentire l’odore del mare fino in stazione centrale decise di essere la prima città a rivoltarsi contro le serrate e i coprifuoco, i tassisti erano in prima linea, e rimasero in presidio in Piazza Plebiscito fino a metà novembre. Gli stessi tassisti, due anni dopo, hanno occupato nuovamente la stessa piazza all’inizio di luglio contro la svendita del proprio lavoro nelle mani della multinazionale californiana Uber, ormai nota per il lobbismo spregiudicato che l’ha portata a trattare vis à vis col rampollo francese dei Rothschild, Emmanuel Macron, e in Italia con Matteo Renzi. Qui non si parla infatti della liberalizzazione del mercato, ma dell’apertura di esso a colossi con cui i trasportatori locali non potrebbero mai competere, a causa della tassazione a cui sono soggetti e non avendo a disposizione il capitale che permetterebbe alle grandi aziende di fare politiche di sconti e tariffe convenienti. Inoltre, i detrattori dei tassisti non hanno forse presente che il costo di una licenza per effettuare servizio di taxi va mediamente dai 100mila ai 250mila euro: di qui si comprende appieno la portata criminale del DDL Concorrenza, che dietro la formula “favorire la concorrenza” nasconde in realtà l’ingresso di migliaia di concorrenti a costo zero o comunque assai ridotto in un mercato che è stato pagato a peso d’oro dai tassisti ordinari.
Così, iniziato lo sciopero selvaggio il 2 luglio, i tassisti hanno effettuato una prima mobilitazione generale il 5 e il 6 a Roma, dove è nato un presidio che, tra alti e bassi, continua ancora oggi. Il governo, pur non avendo dato segnali di avvicinamento netti, ha comunque fatto capire che alcune parti del disegno saranno riviste, e poi è venuta la crisi del Drago, che ha messo in sospeso la vertenza, portando i tassisti a revocare lo sciopero indetto per il 20 e 21 luglio in attesa degli sviluppi della crisi dell’esecutivo – anche questo è stato contestato dai duri e puri dei canali d’informazione su Telegram, che hanno visto l’ennesimo tradimento alla causa in quella che è in realtà una decisione presa per non disperdere le energie in una manifestazione fatta senza interlocutore.
Non è la prima volta che un governo cerca di liberalizzare il settore del trasporto pubblico su auto. Il primo a provarci fu il governo Prodi nel 2006 con la legge Bersani che si concluse in un nulla di fatto dopo aspre proteste che bloccarono Roma e richiesero una lunga mediazione tra politica, forze dell’ordine e autisti: alla fine, la liberalizzazione ‘soft’ portò soltanto a un aumento dei prezzi delle corse e delle tariffe base, un aumento dell’evasione e dell’arbitrarietà dei costi del servizio in base alla città (dati Bankitalia 2011); poi c’è stato Monti sei anni dopo, un altro buco nell’acqua, come quello del governo Gentiloni a febbraio 2017, che in un emendamento al Milleproroghe provò a capitalizzare il lobbismo di Uber sul suo predecessore Renzi, e si trovò a fronteggiare una vera e propria rivolta: bombe carta a Montecitorio, assalto al Nazareno, con l’allora incendiario Beppe Grillo che twittò: “Fermiamo la porcata del PD” e veri e propri agguati dei tassisti contro gli autisti Uber. Insomma, se da un lato il tassì in Italia è sempre rimasto un servizio da una tantum, inequiparabile per gli alti costi agli altri vettori del trasporto pubblico, dall’altro non si è mai pensato di intervenire in maniera effettiva sulle licenze: ad oggi per il tassista medio l’elevato costo della licenza è una fondamentale buonuscita per chiudere la carriera.
L’acme della protesta è stato il 13 luglio a Roma, quando ai tassisti si sono unite altre categorie: pescatori, contadini, trasportatori. Anche su questi ultimi, nonostante si siano messi più volte in gioco contro il caro carburante e l’aumento dei costi, è calata un’assurda cappa di silenzio.
Pochi sanno, infatti, che dal 20 al 23 febbraio di quest’anno centinaia di camionisti foggiani, seguiti dagli agricoltori, hanno bloccato la A14 in tre punti, creando code chilometriche e formando quattro presidi permanenti. La protesta si diffuse a macchia d’olio, prima in Puglia, raggiungendo San Severo, Cerignola, Andria, Canosa, Corato, Ruvo e Gravina, fino a Bari, dove un centinaio di trasportatori cercarono di bloccare la Statale 96. Il movimento, totalmente spontaneo, si diede il nome di Italia Unita e pianificò di andare a Roma lunedì 28 febbraio insieme a molti sindaci solidali alla protesta per parlare con il sottosegretario ai trasporti Teresa Bellanova. L’esempio dei pugliesi contagiò dapprima i siciliani: il 22 febbraio cento pullman turistici occuparono Piazza Indipendenza davanti alla sede della regione di Palermo, mentre a Catania lo stesso numero di camionisti e trattoristi bloccò il casello della A18. Dal caro carburante al costo dei pedaggi, dalla carenza dei trasportatori alla paralisi del turismo, la protesta iniziò a coinvolgere il Molise e la Campania, e il 23 febbraio si videro i primi blocchi autostradali in provincia di Ravenna. Ma il giorno dopo è scoppiata la guerra d’Ucraina, e di punto in bianco tutto è scomparso, ignorato, taciuto.
Il 14 marzo però a infiammarsi è la Sardegna, dove per sei giorni i trasportatori hanno bloccato le merci nei porti, fermando l’approvvigionamento di merci dell’isola, poi smorzato sempre più dopo gli appelli di Coldiretti a non rovinare il mercato ai contadini bloccando il transito di merci deperibili, ma il 19 il consiglio regionale, riunitosi in seduta straordinaria, diede garanzia ai trasportatori di “rivendicare [a Roma, NdR] una misura per la Sardegna mirata a sostenere il costo del trasporto merci via mare perché maggiorato dalla condizione di insularità”. La misura ovviamente non è mai arrivata, e i trasportatori sono tornati a protestare il 27 giugno con una nuova sigla, la ASR “Autotrasportatori Sardi Riuniti”, anche in questo caso attenzionati soltanto dal tiggì regionale, e nessun altro.
Il 28 aprile di quest’anno, poi, hanno protestato gli allevatori di bufale casertani, contro le politiche regionali di eradicazione della brucellosi che nella regione d’oro della mozzarella campana, tra Grazzanise, Santa Maria la Fossa, Cancello Arnone e Castel Volturno, gli hanno imposto l’abbattimento di 140mila bufale di cui hanno scoperto in seguito che più del 90% erano perfettamente sane.
Nell’ultima settimana di maggio è iniziata una grande protesta dei pescatori dell’Adriatico, che hanno tirato i remi in barca per due settimane in segno di protesta contro l’aumento del costo del carburante, che li sta riducendo allo stremo: il 26 maggio trecento persone sfilano in corteo ad Ancona, provenienti da città vicine e lontane, fino a Vasto e Gaeta. La protesta si ingrandisce, e il primo giugno arriva fino a Roma, dove pescatori e armatori non sono stati neppure ricevuti dal sottosegretario alla pesca Francesco Battistoni e dal direttore generale Riccardo Rigillo.
Anche in questo caso, non un solo medium che ne abbia parlato nel campo dell’informazione libera. Il pregiudizio è chiaro: costoro scendono in piazza per il pane, magari per lo stesso motivo si sono persino vaccinati, e per questo non sono degni del popolo dei libertari No Green Pass: così l’Italia che si ribella al globalismo imperante, alla carestia imposta dalla mafia sionista capeggiata dai Rothschild e gestita nei vari Bilderberg e Davos, ovvero la stessa cricca che ha imposto vaccini e lasciapassare, viene criminalizzata dal mainstream e negletta dai dissidenti. E il guadagno è tutto dei globalisti, che passano la schiacciasassi della tecnopolitica su tanti piccoli eserciti divisi tra loro, che non sanno di essere un unico popolo e di combattere un unico nemico.
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