Ad Amsterdam ha da poco aperto la “Dead End AI Gallery”, che si vanta di essere “la prima galleria di arte prodotta dall’intelligenza artificiale al mondo”. In essa non ci sono, banalmente, opere prodotte da algoritmi qualsiasi, ma dipinti e installazioni realizzate da artisti virtuali precedentemente creati da altri avveniristici programmi informatici. L’ “artista” che va per la maggiore si chiama Irisa Nova: le sue creazioni digitali valgono fra i 3000 e i 10000 euro. Altri pittori algoritmici sono usciti male: la maggior parte delle figure umane presenti nei dipinti ha sei dita per mano. A detta del gallerista Constantin Brinkman, però, è solo questione di tempo, perché la megamacchina “artistica” è in grado di “imparare” assorbendo quantità mostruose di dati. Sulla provenienza di questi dati, gli ultimi artisti umani rimasti sulla piazza sono pronti a dare battaglia: i loro colleghi virtuali non farebbero altro che riprodurre determinati stili, copiando di fatto opere già esistenti e violando così le leggi sul diritto d’autore. È quanto già accaduto con la app Lensa AI, un programma in grado di trasformare i selfie degli utenti in “ritratti personalizzati”, consentendo loro “di essere chiunque scelgano di essere”. Pure qui, sono usciti parecchi ritratti con braccia e gambe in più o con pose innaturali, ma il processo di “apprendimento” dell’intelligenza artificiale è solo all’inizio. La app attinge materiale per le sue lezioni autodidattiche da un archivio con miliardi di immagini chiamato LAION-5B, “addestrandosi” con la riproduzione di opere già esistenti, di cui “ruberebbe” alcuni elementi senza il consenso degli autori. Gli autori “derubati”, in ogni caso, sono tutti “artisti digitali”, cioè pionieri della valorizzazione “artistica” del “progresso tecnologico”: in altre parole, vittime collaterali di questo processo di evocazione diabolica in virtù del quale si è chiesto alle macchine di avere attributi umani, “insegnando” loro a “provare” emozioni e sentimenti e addirittura a produrre “arte”, con tutti i problemi di definizione che tale controversa categoria si porta dietro. Fra gli esponenti di punta di queste avanguardie tecno-artistiche si annoverano i partecipanti alla “Low Form. Immaginari e visioni nell’era dell’intelligenza artificiale“, mostra tenutasi presso il MAXXI di Roma già fra il 2018 ed il 2019 e presentata con queste parole: “Un viaggio nell’immaginario tecnologico e surreale degli artisti di oggi tra sogni generati dal computer, algoritmi creativi e avatar che si interrogano sul senso dell’esistenza”. Il più appariscente fra gli espositori è stato l’americano Zach Blas, uno la cui ricerca si è spinta così lontano da portarlo alla rappresentazione di “entità divine digitali“, proiettando la sua idea di fusione fra arte e tecnologia in una dimensione che è a tutti gli effetti religiosa. Degli altri artisti partecipanti alla pionieristica mostra romana, degni di nota appaiono l’altro americano Trevor Paglen, che indaga da un decennio su come gli occhi elettronici “vedono” la realtà (si è pure immerso nell’oceano per toccare con mano i cavi sottomarini che consentono il flusso), il collettivo lituano Pakui Hardware, la cui opera più celebrata è a tutt’oggi Virtual Care, la rappresentazione di una futuristica sala operatoria in cui sono solo le macchine a “prendersi cura” di esseri umani ridotti ad inerti ammassi di viscere sanguinolente, e l’italiano Emilio Vavarella, il quale, oltre ad approfondire la ricerca sulla storia e la filosofia degli algoritmi, è autore di Amazon’s Cabinet of Curiosities, galleria fotografica frutto della “collaborazione” fra l’ideatore e Alexa Voice Shopping, che ha indirizzato gli acquisti per “realizzare una nuova opera d’arte” (Vavarella precisa che a un certo punto s’è fermato con gli acquisti avendo esaurito il budget).. La “tecno-arte” è dunque una realtà consolidata, e prima che le macchine “imparassero” l’arte stessa (e non certo per metterla da parte), ha prodotto una scena di visionari che hanno già preconizzato un mondo deumanizzato. Fu vera arte? Ai posteri (artificiali) l’ardua sentenza.
GR
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