Marco Di Mauro
Avanti.it
Le proteste in Cina sono già finite? Ieri non si sono registrate in nessuna delle grandi città, scoraggiate forse dal dispiegamento dei blindati dell’esercito a Shangai. Per scongiurare ulteriori focolai, le amministrazioni locali di alcune grandi città hanno annunciato sui loro canali ufficiali – gli unici da cui si è parlato delle proteste nel paese, essendo stato imposto ai media un rigoroso silenzio e non avendo nessun esponente del Partito Comunista Cinese voluto rilasciare dichiarazioni alla stampa o sui canali governativi – un generale allentamento delle restrizioni che coinvolge a nord la città di Shijiazhuang, a sud Guangzhou, Chengdu a sud-ovest oltre agli epicentri della protesta, Urumqi (a nord-ovest, la capitale dello Xinjiang), Pechino e Shanghai. Si è trattato di proteste soprattutto pacifiche, a differenza di quelle agli stabilimenti Foxconn di Zhenzhou, principale centro di produzione degli iphone – tristemente nota sin dal 2010 come la “fabbrica-inferno” con record di suicidi degli operai – dove i lavoratori hanno attaccato a colpi di pietre e transenne la polizia sanitaria per protestare contro le assurde restrizioni sanitarie a cui erano sottoposti, che si aggiungevano alle condizioni schiavistiche di lavoro. Anche loro hanno ottenuto un allentamento delle restrizioni, nella generale amnistia concessa dal governo di Xi Jinping per scongiurare l’ondata di proteste che il portavoce del ministero degli esteri Zhao Lijian ha attribuito a “forze con secondi fini”, riferendosi a quanto il suo premier aveva già affermato il 16 settembre all’incontro della Shangai Cooperation Organization di Samarcanda, quando propose la creazione di una forza di cooperazione tra Cina, Russia e Iran per prevenire “forze esterne” dal promuovere “rivoluzioni colorate” nei loro paesi.
L’atteggiamento dell’occidente verso la Cina è stato negli ultimi anni di un’ipocrisia esemplare. Già all’inizio dell’anno, immediatamente dopo il diktat di George Soros che alla Hoover Institution stigmatizzava Xi Jinping come nemico della democrazia e della società aperta, iniziarono a girare, soprattutto nei canali schierati contro la dittatura sanitaria, video in cui si mostravano scene apocalittiche provenienti dalla Cina: uomini e donne esasperati dall’essere prigionieri in casa propria che si impiccavano ai balconi o si gettavano di sotto in pieno giorno, interi quartieri affacciati alla finestra che gridavano aiuto, persone che stavano morendo di fame a causa della quarantena forzata, polizia sanitaria che andava a prelevare cittadini direttamente dalle proprie poltrone per portarli in campi di quarantena, uomini presi di peso dalla strada e cui veniva saldata la porta di casa perché resisi colpevoli di una passeggiata, per non parlare delle interminabili code per andarsi a sottoporre al tampone giornaliero, senza il quale il governo da remoto poteva declassificare il cittadino, rendendogli impossibile il ritorno a casa. La politica ‘Zero Covid’, fondata sull’assurdo scientifico che è la pretesa di contenere fisicamente un virus che si propaga per via aerea, è in patria il cavallo di battaglia del governo di Xi Jinping, l’orgoglio del popolo cinese che con la sua disciplina ferrea, diversa dal lassismo delle democrazie occidentali, è stato il primo a tornare alla normalità. Ma è sbagliato e fuorviante concepire la politica Zero Covid soltanto sul piano sanitario, trattandosi in realtà di un’arma politica, efficace sia sul piano interno che estero. Basti pensare all’improvvisa recrudescenza della Covid a Hong Kong di questo febbraio, che ha permesso a Pechino di instaurare un controllo capillare sul territorio e spazzare via gli ultimi residui della storica élite filo-occidentale, o al pesantissimo lockdown cui è stata sottoposta la capitale economica del paese, Shangai, con il quale Xi Jinping ha tenuto sotto scacco i mercati occidentali e limitato i danni alla propria economia della speculazione seguita alla guerra d’Ucraina. Considerato che in Cina il capitalismo della sorveglianza è una realtà di fatto da ben prima della stessa Operazione Covid, con il contante di fatto abolito così come la privacy e il tracciamento totale degli spostamenti, per non parlare del sistema di credito sociale, ovvero della cittadinanza a punti e dei diritti removibili da remoto, già in funzione da più di un lustro, bisogna chiedersi come mai il paese, che visto così sembrerebbe far fare l’acquolina in bocca ai Rothschild e compari dal momento che è letteralmente un’avanguardia del Nuovo Ordine Mondiale così come lo concepiscono, continui a essere stigmatizzato come una dittatura e un nemico della società aperta, mentre nella prima fase dell’Operazione Covid era il paese faro e il modello della gestione delle epidemie. L’atteggiamento dei nostri media sulla Cina è proprio l’indice chiaro del loro smaccato servilismo e della perdita di ogni credibilità: fino a prima del Covid, dovevamo temere il mostro cinese, in quanto stava sviluppando la Belt and Road Initiative (che il governo Conte uno aveva fatto arrivare fino in Italia, suscitando le ire degli americani che imposero a Salvini la crisi del Papeete) e persino in Rai venivano trasmessi servizi sull’abominio del credito sociale; poi è arrivata la pseudo-pandemia, e Pechino è improvvisamente divenuto il paese modello delle politiche sanitarie, in un’operazione mediatica tesa a irreggimentare le masse occidentali, mostrandogli l’efficacia della restrizione della libertà proprio quando si stava facendo la stessa cosa qui; ma a gennaio di quest’anno passato lu santo passata la festa: c’è da fare la guerra mondiale, e la Cina torna ad essere un mostro, lo dice Soros dopo che lo aveva detto Kissinger a Die Welt.
Ne aveva di ragioni, Xi Jinping, quando a Samarcanda ha paventato la possibilità di rivoluzioni colorate nel suo paese: esiste una lunga storia di infiltrazioni e tentativi di destabilizzare la Cina da parte della CIA, ma anche di politici americani, che inizia con i fatti del 1989 a piazza Tienanmen. All’epoca capo del partito era Deng Xiaoping, quello che Soros contrappone a Xi definendolo un politico illuminato e dalla mente aperta, che represse nel sangue le rivolte: in quei giorni a Pechino si trovava Gene Sharp, ritenuto il padre del concetto di “rivoluzione colorata” (forma di protesta non violenta mirata a rovesciare un determinato regime) con il suo opuscolo How to Start a Revolution. La CIA riuscì a far rifugiare alcuni degli organizzatori a Hong Kong, e nel 1991 ci fu la famosa visita di Nancy Pelosi, che espose provocatoriamente uno striscione in lingua cinese espressamente riferito a Tienanmen: «A coloro che morirono per la democrazia in Cina» cercando di provocare la reazione del popolo cinese, ma senza successo. Nei trent’anni seguenti, gli USA hanno provato a destabilizzare la Cina promuovendo la disciplina del Falun Gong – pratica spirituale che si rifà al buddismo cinese e al taoismo, ponendosi in aperto contrasto con la rivoluzione culturale maoista, e riproponendosi di restaurare la cultura cinese distrutta dal PCC – e sperimentando anche in Cina una strategia che aveva avuto grande successo in Medio Oriente, ovvero quella di armare e radicalizzare gruppi legati all’islam, di fatto creando il terrorismo uiguro nello Xinjang – come ha più volte denunciato il fondatore di Grayzone Max Blumenthal – e facendo passare per pogrom e repressione etnica quella che è stata la normale reazione dello stato cinese a degli atti di terrorismo. Nel 2019, proprio quando il governo Xi mostrò pubblicamente i progetti per lo sviluppo della Greater Bay Area del Guangdong-Hong Kong-Macao, ci sono state le proteste di Hong Kong, un ultimo tentativo di strappare alla Cina il controllo dell’ex protettorato e boicottarne lo sviluppo economico.
E proprio il fatto che, subito dopo le proteste spontanee della Foxconn, la prima città a ribellarsi sia stata la capitale dello Xinjang, Urumqi, desta i primi sospetti di infiltrazione americana. In effetti, il video dell’incendio al palazzo che ha ucciso dieci persone, non mostra alcuna prova del fatto che queste siano morte a causa delle restrizioni dovute alla pandemia – anche se è comunque vero che la città, forse proprio perché uigura, è stata sottoposta al più lungo lockdown dall’inizio della pandemia, più di cento giorni – ma sono stati coloro che hanno diffuso i video sui social cinesi a dare per certa questa interpretazione. Se l’oppressione per i lockdown è reale, ed è molto probabile che la maggior parte dei cittadini sia scesa in piazza proprio per contrastare l’oppressione cinese, è anche vero che fin da subito è partita la cooptazione e inquinamento delle proteste da parte di infiltrati occidentali: a Shanghai, per esempio, le proteste sono avvenute a 500 metri dal consolato americano, e sono stati rilasciati da fonti filo-cinesi degli screenshot (da verificare, ma facilmente reperibili sul web) di chat Telegram dei gruppi di protesta in cui si davano appuntamento da Starbucks “perché i giornalisti sono stati informati che avverrà da Starbucks alle sei di pomeriggio” – quali giornalisti, visto che nessuno dei media cinesi avrebbe mai accettato di coprire le proteste? – e come riferimenti per chi volesse scendere in piazza proprio i contatti di Edward Lawrence, il giornalista della BBC arrestato a Shanghai, e Su Yutong, giornalista di Radio Free Asia; il Collettivo Shaoshan mostra addirittura screenshot in cui si parlerebbe di un fantomatico “capo” delle proteste, individuandolo in un uomo caucasico, ma queste sono tutte informazioni da verificare. Di certo, il governo cinese, sia a causa dell’esiguo numero di manifestanti, sia per non mettere altra carne sul fuoco della propaganda occidentale, ha disperso i manifestanti in modo pacifico, addirittura in un caso salvandoli dalla folla che voleva linciarli. Un altro elemento che fa pensare al tentativo di rivoluzione colorata è l’utilizzo dei fogli bianchi, chiara forzatura simbolica da manuale di Gene Sharp, e il fatto che tanto i media occidentali a una voce, quanto i politici dei paesi NATO abbiano appoggiato apertamente le proteste. Ma la Cina è un paese su cui si possono fare solo ipotesi, le cui vicende sono incastrate nella morsa di due propagande opposte, quella comunista e quella atlantista, e sarà soltanto un’analisi a posteriori delle conseguenze che potrà permettere di venirne a capo.
Lascia un commento