Fra le tante cose che ci ha chiesto l’Europa per poter arraffare il malloppo del PNRR c’è stata la riforma della giustizia. L’incombenza fu subito presa in carico dal “governo dei migliori”, che annoverava fra i suoi membri, nella delicata posizione di guardasigilli, l’ex presidente della corte costituzionale Marta Cartabia, altissima nonché precoce boiarda di Stato che aveva consumato la sua rapida carriera prima nei dipartimenti universitari di azzeccagarbugli (facendo la spola fra Italia e Stati Uniti), poi nelle “istituzioni europee”, infine nella nostrana corte costituzionale su nomina di Giorgio Napolitano. La riforma che porta il suo nome, approvata a larghissima maggioranza dal Senato nel settembre 2021 (177 sì e 24 no) dopo un iter lungo e travagliato, è entrata in vigore, dopo una serie di rinvii “di ordine “tecnico” e “politico” (l’ultimo dei quali disposto dal governo Meloni), il 30 dicembre scorso. Con il fine dichiarato (e richiesto dall’Europa…) di snellire il lavoro delle procure ed accelerare i processi, la riforma Cartabia ha disposto l’obbligo di querela di parte per sottoporre a procedimento giudiziario alcuni reati per i quali in precedenza si procedeva “d’ufficio”, cioè a prescindere dalla denuncia della vittima: lesioni personali stradali, furto, violenza privata, sequestro di persona, truffa, danneggiamento, appropriazione indebita. Gli effetti di questa rivoluzione della giustizia penale si sono palesati sin da subito, producendo una serie di casi paradossali, dagli scassinatori arrestati in flagranza di reato e subito rilasciati poiché il proprietario dell’albergo preso di mira non era reperibile per sporgere formale denuncia, fino ai rapinatori palermitani che, dopo essere stati pestati dagli sgherri di un boss mafioso al quale si era rivolto il negoziante derubato (quelli sì che son processi snelli…), si sono guardati bene dall’invocarne l’incriminazione. Diverse toghe indignate hanno apertamente parlato di depenalizzazione camuffata e di rottura del patto sociale, paventando uno scenario da legge della giungla, specie in quelle realtà in cui più pervasiva è la presenza del crimine organizzato. Dall’altra parte della barricata, gli oltranzisti cartabisti che difendono la riforma in nome del principio della “giustizia riparativa”, in virtù della quale sarebbe auspicabile risolvere le dispute in sede extragiudiziaria con risarcimenti e riparazioni, si annidano fra le truppe dei berlusconiani e dei renziano-calendisti, nelle paludi che prendono forma nei settori centrali di Montecitorio e Palazzo Madama, nelle redazioni dei quotidiani che si distinguono per la vocazione al “garantismo” (“giornalisti, basta intervistare i citofoni” ammonisce nella sua arringa cartabista l’ex onorevole berlusconiana Tiziana Maiolo su Il Riformista). Dopo una settimana di roventi polemiche, il ministro meloniano della giustizia Carlo Nordio (che pure aveva speso in passato parole di apprezzamento per la riforma) ha espresso la volontà di fare marcia indietro sugli aspetti più controversi della rivoluzione penale, disponendo che si proceda d’ufficio per i reati commessi “con l’aggravante mafiosa”. Al di là del “garantismo e del “giustizialismo”, e ben prima della controversa riforma Cartabia, l’essenza sottile della Legge in questo paese sciagurato era già stata afferrata e rappresentata da Carlo Collodi nel suo Pinocchio. Quando il burattino, dopo essere stato raggirato dal Gatto e dalla Volpe, si reca in tribunale per ottenere giustizia, il giudice (“un vecchio scimmione rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e specialmente per i suoi occhiali d’oro”) gli fa tappare la bocca dai “giandarmi” e lo manda in gattabuia. Quando poi l’imperatore di Acchiappacitrulli dispone un’amnistia per liberare i malandrini dalle carceri, Pinocchio ne è escluso fino a quando non si dichiara malandrino a sua volta. Solo allora il carceriere “levandosi il berretto rispettosamente e salutandolo, gli aprì le porte della prigione e lo lasciò scappare”.
GR
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