Giuseppe Russo
Avanti.it
L’astensionismo è il male oscuro delle democrazie occidentali. In Europa, dove il diritto di voto è sempre stato universale e non soggetto a particolari procedure o alla necessità di registrarsi in appositi elenchi (come accade, per esempio, negli Stati Uniti), gli entusiasmi degli anni del Secondo Dopoguerra, quando alle urne si recava la quasi totalità della popolazione, rappresentano una sbiadita pagina di storia. L’inesorabile calo della partecipazione popolare alle operazioni elettorali si manifestò prima negli stati di più lunga e durevole tradizione democratica: alle elezioni tenutesi negli anni ’40 e ’50, mentre in quei paesi che uscivano da un regime dittatoriale o di lunga occupazione politico-militare, come l’Italia, l’Austria o la Germania Occidentale, l’affluenza si attestava su una media del 90%, nel Regno Unito, in Francia e nei paesi nordici il tasso di partecipazione della cittadinanza già vacillava all’80%, ed in Svizzera, paese neutrale per eccellenza e custode di un’antica tradizione di “democrazia diretta” a livello cantonale e confederale, solo i due terzi dell’elettorato erano soliti recarsi alle urne. Il dato restò sostanzialmente stabile negli anni ’60 e ’70, pur subendo, in modo pressoché generalizzato, una lenta ma costante erosione. Quando “rinacquero alla democrazia” quei paesi che erano stati caratterizzati da regimi autoritari sopravvissuti al crollo dei fascismi, come la Spagna e il Portogallo, o che erano reduci da una dittatura militare, come la Grecia, l’affluenza che vi si produsse fu piuttosto deludente: in media, circa l’80%. La democrazia dunque “rinasceva” anche in quelle aree d’Europa dove per decenni non si erano tenute “libere elezioni”, ma in qualche modo si presentava come già inesorabilmente logorata. Questa tendenza si rivelò in forme ancor più eloquenti in tutti quei paesi dell’Europa Orientale nei quali si tennero negli anni ’90 del secolo scorso le prime elezioni multipartitiche dopo il crollo dei regimi comunisti. Già nel corso del primo decennio di libertà elettorali, i tassi di partecipazione alle elezioni legislative nazionali andarono precipitando: in Romania si passò dal 97% del 1990 al 65% del 2000, in Albania dal 98% del 1991 al 72% del 1997, nella Repubblica Ceca dal 97% del 1990 al 74% del 1998, in Bulgaria dal 90% di elettori alle votazioni per l’Assemblea costituente del 1990 al 58% delle elezioni politiche del 1997. In altri paesi post-comunisti considerati allora geopoliticamente o culturalmente più vicini all’Occidente, come la Polonia o l’Ungheria, l’amore per la democrazia non prese piede neppure nei primi anni di “libertà”: alle consultazioni polacche del 1991 votò appena il 43% del corpo elettorale (dato rimasto stabile fino al 2005, lasso di tempo nel quale una sola volta, nel 1994, la partecipazione è stata superiore alla metà degli aventi diritto), nella repubblica magiara il già magro 65% del 1990 precipitò al 56% nel 1998. Questo processo dilagava a Est della fu cortina di ferro mentre a Ovest, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, la disaffezione verso gli appuntamenti elettorali assumeva dimensioni di massa, con marcate decrescite dell’affluenza da un’elezione all’altra soprattutto a partire dalla crisi del 2008 e dall’ascesa continentale dei “populismi”: in tal senso, particolarmente emblematica è la diserzione della maggioranza dell’elettorato consumatasi alle ultime legislative in Francia. Per fotografare la situazione odierna, è utile far riferimento alla partecipazione alle ultime elezioni europee del 2019, circostanza nella quale hanno finito con l’intrecciarsi diverse “correnti” astensionistiche, e dunque il fenomeno si è manifestato in tutto il suo vigore. Nelle più consolidate democrazie del continente, si andò dal 37% del Regno Unito, che stava in effetti già con un piede al di fuori dell’UE, al 61% della Germania, con Italia e Francia poco al di sopra della metà; nelle più giovani democrazie orientali, invece, i seggi andarono deserti, con partecipazione intorno al 30% in Repubblica Ceca, Bulgaria, Croazia, Slovenia, Estonia e Lettonia e addirittura del 22% in Slovacchia, mentre pure il Portogallo faceva registrare il suo picco di astensionismo, con oltre due terzi degli elettori che si tenevano a debita distanza dalle urne.
Nella Repubblica Italiana l’astensionismo è un fenomeno storicamente recente: negli anni dell’immediato dopoguerra e del boom economico, i tassi di partecipazione erano ampiamente al di sopra del 90%, con una quota ricorrente di due milioni di astenuti o poco più. Un primo scricchiolio si era avvertito alle politiche del 1979, quelle tenutesi all’indomani del sequestro Moro e dell’arenamento del progetto berlingueriano del “compromesso storico”, quando gli astenuti salirono a quattro milioni. Nel 1994, poi, alle prime elezioni della “Seconda Repubblica” dopo il crollo dei partiti storici seguito alle vicende di Tangentopoli, i renitenti alle urne divennero sei milioni e mezzo; alle successive consultazioni del 1996, nonostante la polarizzazione fra Berlusconi e Prodi, ci fu il “sorpasso”, con i non votanti che divennero l’informale primo partito con oltre otto milioni di “non voti”. Da allora, e limitando l’attenzione alle sole tornate generali di elezioni per la Camera e il Senato, l’astensione è andata ulteriormente e robustamente crescendo di scadenza in scadenza, fino a raggiungere la vetta di quattordici milioni e mezzo di non votanti nel 2018, pari al 27% del totale, sancendo un altro e più significativo sorpasso: la coalizione vincente, quella di centrodestra, di voti ne aveva presi appena dodici milioni. Allargando lo sguardo ad altre tipologie di elezioni, i riscontri sono ancora più significativi: i ballottaggi delle recenti elezioni comunali di giugno hanno coinvolto poco più del 40% degli aventi diritto (e al primo turno c’era stato il record, forse imbattibile, di Castelguidone, in provincia di Chieti, dove aveva votato, peraltro scheda bianca, solo un elettore su 278), in una terra tradizionalmente partecipe come l’Emilia-Romagna espresse il proprio suffragio alle regionali del 2014, quelle che incoronarono una prima volta il ras Bonaccini, poco più di un elettore su tre, mentre è prassi che le cosiddette “elezioni suppletive”, quelle in cui si vota solo in un determinato collegio il cui seggio è rimasto vacante per la morte o le dimissioni del parlamentare uscente, si svolgano nella semiclandestinità. In quest’ottica, le cronache politiche hanno enfatizzato il dato delle suppletive del gennaio di quest’anno nel borghesissimo primo collegio romano della Camera, dove si era rivotato dopo le dimissioni “forzate” di Gualtieri in seguito alla sua elezione a sindaco della capitale: appena 20000 elettori “presenti” su 180000, pari a uno striminzito 11%; il record negativo, tuttavia, risale a due anni prima, quando le suppletive tenutesi nel collegio senatoriale di Napoli Est avevano premiato l’ex giornalista Sandro Ruotolo con l’affluenza più bassa di sempre per un’elezione parlamentare: il 9,52%.
Nell’ordinamento costituzionale italiano, il voto è identificato, all’interno dell’articolo 48 della Carta, sia come “diritto”, sia come “dovere civico”. Tale formula ambigua scaturì dal compromesso che si produsse in seno all’Assemblea costituente fra i fautori dell’obbligatorietà del voto (democristiani, liberali e monarchici) ed i sostenitori della libertà di scelta (comunisti, socialisti, azionisti e repubblicani). I primi avevano il timore di perdere una quota consistente di suffragi “conservatori” se non si fosse stabilito l’obbligo: dopotutto, la Democrazia Cristiana era erede della lunga tradizione di astensionismo cattolico che aveva caratterizzato i primi anni dell’Italia unita, dal non expedit di Pio IX che aveva sancito il divieto per i fedeli di partecipare alla vita politica del neonato regno fino al “Patto Gentiloni” dei primi del Novecento, quando i cattolici interruppero la consuetudine astensionista per arginare l’ascesa del Partito Socialista dopo l’introduzione del suffragio universale maschile, avvenuta nel 1912. Nel mondo vi sono d’altra parte paesi il cui ordinamento prevede ancor oggi l’obbligo di partecipare alle elezioni: fra quelli compiutamente “occidentali”, si ricordano Australia e Belgio, ma è nell’America Latina che tale pratica va incontro ad un’applicazione generalizzata, più blanda in Brasile, Messico e Bolivia, più rigorosa in Argentina, Perù ed Ecuador.
La crescita esponenziale dell’astensionismo, ad ogni modo, preoccupa, e non poco, i governi dell’Occidente, tanto è vero che negli ultimi vent’anni ciascuno di essi ha messo in piedi istituti per l’osservazione e lo studio del fenomeno, oltre a promuovere campagne di comunicazione, perlopiù calibrate sul pubblico giovanile, per incentivare la partecipazione. Particolarmente attiva è stata, a livello sovranazionale, l’Unione Europea, i cui processi elettorali sono, come sopra evidenziato, i più “snobbati” dalla popolazione; in occasione del voto del 2019, gli euroburocrati hanno partorito l’operazione “This time I’m voting” (“Questa volta vado a votare”), nell’ambito della quale sono stati prodotti e diffusi video motivazionali sull’importanza del voto e delle istituzioni europee. Nei paesi più riottosi è stato organizzato un vero e proprio circo itinerante, descritto nei termini seguenti dalla solerte euroburocrate slovacca Sonia Mihalikova Mellak: “Abbiamo collaborato con una serie di personaggi famosi, soprattutto youtuber e influencer, per cercare di spiegare ai giovani perché le elezioni europee sono importanti. Abbiamo organizzato un tour in 17 città del Paese, producendo eventi e dibattiti, e in 200 scuole secondarie si è svolta una simulazione delle elezioni europee. Le emittenti televisive si sono mostrate interessate e molti presentatori hanno dichiarato che andranno a votare”. Alla fine di questa baracconata, l’affluenza degli slovacchi è quasi raddoppiata, giungendo al 22% di cui sopra: nel 2014 era stata appena del 12%.
Il governo italiano, dal canto suo, ha commissionato la stesura del Libro bianco sull’astensionismo, frutto del lavoro di una Commissione istituita all’uopo ed affidata alla presidenza dall’eterno Franco Bassanini, già parlamentare per venticinque anni e due volte ministro, nonché ex presidente della Cassa depositi e prestiti. Nel Libro bianco, la cui edizione provvisoria è stata pubblicata nell’aprile scorso, da un lato si analizza il fenomeno astensionistico sul piano tecnico e su quello sociologico, dall’altro si propongono soluzioni alla luce di quanto hanno fatto negli ultimi anni i governi di altri paesi omologhi. Gli esperti coordinati da Bassanini distinguono anzitutto un astensionismo “reale” ed uno “apparente”; con quest’ultima formula ci si riferisce a coloro che risultano formalmente astenuti a causa delle discrepanze fra le liste elettorali e gli archivi anagrafici dei comuni italiani, il cui aggiornamento non è tempestivo (tale disservizio “gonfierebbe” il dato dell’astensione del 2-3%) e, soprattutto, ai residenti all’estero iscritti all’AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero), il cui numero è raddoppiato negli ultimi vent’anni fino a sfiorare, in base a stime dell’estate 2021, i cinque milioni: questi elettori risultano il più delle volte iscritti sia nelle liste elettorali del proprio comune di origine, sia in quelle dello stato estero di residenza effettiva; in questo modo la percentuale dei votanti risulta “viziata” dalla presenza negli elenchi di questi elettori-fantasma. Secondo la Commissione, gli emigrati peserebbero fra il 5 e il 10% di media, con punte di oltre la metà del corpo elettorale in alcuni piccoli comuni del Sud particolarmente caratterizzati da fenomeni migratori verso l’estero. Rispetto all’astensionismo “reale”, invece, nel Libro bianco si opera la distinzione fra quello “involontario”, quello “per disinteresse” e quello “per protesta”. La prima tipologia è associabile ai “grandi anziani” (stimata un’astensione del 62% per gli ultraottantacinquenni), ai disabili non autosufficienti, ai ricoverati negli ospedali o nelle “case di riposo” (tutte categorie per le quali, in verità, la legge già dispone misure per facilitare l’esercizio del voto) ed ai “fuori sede” per motivi di lavoro o di studio, che sarebbero in tutto più di cinque milioni. Gli “indifferenti”, invece, che sarebbero fra il 10 e il 15% del corpo elettorale, non votano per puro disinteresse, per abitudine o per tradizione familiare: caratterizzati da un basso livello di istruzione, vengono considerati sostanzialmente irrecuperabili. Sui “protestanti”, infine, la parola va direttamente al Libro bianco, sulla cui quarantatreesima pagina si può leggere: nella terza classe troviamo l’astensionismo di protesta, ovvero, con un’espressione un po’ forte, quelli che possiamo considerare gli alienati, che vanno da coloro che dissentono esplicitamente dalle politiche governative, a quelli che contestano la classe politica con posizioni chiaramente anti-establishment, a quelli che non hanno fiducia nel metodo (elettorale) democratico, a quelli con posizioni radicali, anche neo-autoritarie. Pure quelli che vengono definiti (“con un’espressione un po’ forte”) “alienati” son considerati pressoché irredimibili, pertanto gli sforzi della Commissione sono stati orientati a risolvere il problema dell’astensionismo “involontario”. In questo senso, dopo aver preso in esame procedure elettorali in vigore in altri paesi, come il controverso “voto per corrispondenza”, l’immediatamente scartato “voto per delega” e il più fattibile “voto anticipato presidiato”, in virtù del quale gli uffici postali permetterebbero di votare fino a una settimana prima dell’election day, gli esperti a libro paga del governo si sono concentrati sul “voto elettronico”, auspicando la digitalizzazione a tappe forzate delle tessere elettorali e degli elenchi di aventi diritto. L’eureka dei commissari si chiama election pass, ed ancora una volta si rende necessaria una citazione testuale. A pagina 24 del Libro bianco sull’astensionismo si legge: Si propone l’introduzione di un certificato elettorale digitale per tutti i cittadini in sostituzione delle tessere elettorali cartacee, c.d. election pass, utilizzando la tecnologia ampiamente sperimentata con il green pass. […] L’election pass potrà essere scaricato sul proprio smartphone (o stampato in forma cartacea) e sarà verificato in tempo reale al seggio attraverso una apposita app: i cittadini non dovranno più preoccuparsi dello smarrimento della loro tessera elettorale né di rinnovarla una volta esaurita. Inoltre,
l’election pass potrebbe rendere facilmente praticabili nuove modalità di espressione del voto, in particolare il voto anticipato presidiato presso strutture autorizzate o il voto presso un altro seggio elettorale nel giorno delle elezioni (all’interno della medesima circoscrizione/collegio).
L’astensionismo “occasionale” o “tattico”
È quello di chi opta consapevolmente per il non voto in determinate circostanze. Una tradizione ormai trentennale vuole che tale posizione venga di solito associata ai referendum abrogativi, quelli per la cui validità è necessario il quorum della metà più uno degli aventi diritto, e nei quali dunque l’astensione assume un valore politico. A sdoganare l’astensionismo “tattico” fu Bettino Craxi, che invitò tutti ad andare al mare nel 1991, in occasione del referendum sulla preferenza unica alla Camera, forte del caso dell’anno precedente, quando erano stati respinti per mancato quorum, primi di una serie che si sarebbe rivelata lunghissima, i quesiti sull’abrogazione della caccia e dell’uso di pesticidi. Nelle tornate referendarie gli astensionisti “tattici” sommano il loro peso a quello degli altri filoni dell’astensionismo, massimizzando l’impatto politico delle loro scelte. Associabili a questa categoria sono anche gli astensionisti “intermittenti” o “selettivi”, quelli che non partecipano in occasione di elezioni considerate poco importanti: le percentuali più basse si registrano, oltre che per le europee, per le regionali e, ove previste, le circoscrizionali o di quartiere.
L’astensionismo di principio
Forma politicamente più “matura” di tutti i filoni astensionistici, questa tendenza è storicamente legata agli anarchici, i quali, rifiutando il meccanismo della delega e diffidando di tutte le “istituzioni borghesi”, non partecipano, appunto, “per principio”. Nella lunga e tumultuosa storia degli anarchici, va detto, ci sono pur state delle eccezioni, dalle candidature di “protesta” di Amilcare Cipriani e Francesco Saverio Merlino alle elezioni del 1882 e successive (proprio negli anni in cui, con la “conversione” di Andrea Costa al socialismo e la sua elezione in parlamento, maturava la frattura fra anarchici e socialisti in Italia), fino all’appoggio informale al Fronte Popolare nelle “epocali” elezioni spagnole del 1936. Gli anarchici ottocenteschi, ad ogni modo, sono i nonni dell’astensionismo di principio; i nipoti, frantumati dalla collisione con la postmodernità, si ritrovano dispersi in mille babeliche tribù: sono, riprendendo la citazione dal Libro bianco, “quelli con posizioni radicali”, (“anche neo-autoritarie” ci aggiungono loro a sfregio) che non riconoscono alcuna legittimità al sistema politico, e ne rifiutano in toto le pratiche. Per questi astensionisti consapevoli, le elezioni sono una carnevalata, una truffa, uno strumento di distrazione. L’azione politica segue altre traiettorie. Gli astensionisti di principio sono pochi ed emarginati, ma nell’imminenza dei ludi elettorali si fanno sentire, consegnando ancora una volta le loro parole al vento.
L’astensionismo di rigetto
Straripante in questi ultimi vent’anni, l’astensionismo di rigetto accomuna uomini e donne delle più diverse estrazioni sociali, culturali e politiche. Figli più o meno legittimi del riflusso e della “fuga nel privato” degli anni ’80, i “rigettisti” hanno sovente alle spalle una o più scombussolanti delusioni politiche. Ebbri di cinismo, sguazzano nella consapevolezza che niente e nessuno potrà far vibrare un’ultima volta le corde della loro sensibilità ferita a morte. L’astensionismo di rigetto, consolidandosi, può diventare astensionismo di principio, ma più spesso si risolve in astensionismo di strafottenza.
L’astensionismo di strafottenza
Gli esperti commissari del Libro bianco, dopo non essersi fatti scrupoli a definire “alienati” quegli altri, descrivono gli astensionisti che rientrano in questo filone come “indifferenti”. Quella della meno eufemistica strafottenza, però, appare più appropriata come categoria.Giovani o meno, gli strafottenti hanno semplicemente altro per la testa, e della politica se ne strafottono solennemente. Ciò non vuol dire che non si trovino spesso ad onorare, a modo loro, la democrazia, televotando per cacciare questo o quel famoso da un’isola, da una casa, da un divano. A occhio, al contrario di quel che si afferma nel Libro bianco, sono assai più dei “rigettisti”. Solo qualcosa come “Chiara Ferragni for president!” potrebbe “avvicinare alla politica” una (minima) parte di essi.
In occasione delle elezioni del 25 settembre si è mobilitato anche un “fronte astensionista” che promuove la diserzione delle urne: è il caso dell’ “astensionismo costituente” di Paolo Sceusa, già trattato su queste pagine. Parallelamente monta anche la campagna per esercitare il “voto di protesta”, recandosi ai seggi senza ritirare le schede e facendo verbalizzare dichiarazioni di dissenso. Il boicottaggio delle elezioni, che per l’Italia è una novità inusitata, è invece prassi consolidata in tutte quelle realtà in cui una minoranza politica, etnica o religiosa non si sente tutelata nell’esercizio del voto, percepisce la competizione come pesantemente condizionata, punta a delegittimare un governo centrale dal quale vuole separarsi. Per restare alla cronaca recente, senza scomodare baschi, corsi ed irlandesi, in Tunisia le opposizioni hanno prima boicottato il referendum costituzionale indetto dal presidente Kais Saied nel luglio scorso, per annunciare successivamente il sabotaggio anche delle elezioni legislative, che a loro giudizio si svolgeranno con una legge elettorale fatta su misura per il capo dello stato in carica. In Italia nessuna forza politica avrebbe il coraggio di invitare al boicottaggio: anche i movimenti più radicali nascono quasi esclusivamente in funzione degli appuntamenti elettorali, e considerano quella della raccolta dei voti la principale, se non l’unica, dimensione dell’agire politico. Eppure, sta per prendere forma un boicottaggio silenzioso nel quale confluiranno tattica, principi, rigetto e strafottenza: quelle del 25 settembre saranno le elezioni politiche meno partecipate della storia repubblicana.
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