Giuseppe Russo
Avanti.it
Lo scorso 26 maggio è venuto a mancare ad Avellino, alla veneranda età di 94 anni, l’uomo che più di ogni altro aveva incarnato la “democristianità” in quel decennio che rappresenta il lungo crepuscolo della Prima Repubblica. Ciriaco De Mita è morto com’era vissuto, abbarbicato al potere, avvinghiato ad un suo ultimo simulacro, la poltroncina di sindaco di Nusco, il cuore del suo feudo elettorale e sentimentale. Due giorni di lutto cittadino vi sono stati proclamati alla notizia della sua scomparsa. Nel primo è stato concesso ai nuscani un ultimo saluto al loro benefattore; nel secondo si è celebrato il funerale “istituzionale”, con la presenza di tanti suoi figliocci politici, fra i quali il presidente Mattarella con la sua scorta di una ventina di vetture.
Ciriaco De Mita seppe agganciare, dalla provincia profonda nella quale era nato, il giro giusto della democristianeria nazionale vincendo una borsa di studio presso l’Università del Sacro Cuore di Milano, fucina di “talenti” della sinistra democristiana. Nel 1956 uscì dal bozzolo: venne assunto all’ENI su intercessione di Gianni Baget Bozzo e partecipò come delegato al congresso DC di Trento in rappresentanza de “La Base”, la corrente nata pochi anni prima sulle ceneri del dossettismo e foraggiata proprio dal presidente dell’ENI Enrico Mattei. Successivamente, tornò nella sua Irpinia per conquistare il partito locale, strappandolo a quel Fiorentino Sullo di cui arriverà persino a sposare la segretaria. Lo scontro fra i due si consumò all’insegna delle guapperie (celebre la circostanza in cui De Mita rovesciò un’urna coi voti del congresso provinciale democristiano affermando “Siamo uomini liberi”) e della capacità di allargare il proprio bacino clientelare strappando avamposti e vassalli all’avversario, ambito nel quale l’allievo Ciriaco supererà presto il maestro Fiorentino. Eletto per la prima volta alla Camera nel 1963, De Mita saprà tirare su e consolidare il suo regno assoluto del consenso ad Avellino e dintorni, prima di spiccare il grande salto verso la ribalta nazionale.
Nel maggio 1982, al congresso di Roma della Democrazia Cristiana, la sua elezione a segretario è accompagnata dalla discesa nella capitale di legioni di clientes provenienti da tutta la Campania con la regia del suo più brillante pupillo, Clemente Mastella. Tuttavia, non saranno i suoi conterranei, nella loro pur genuina “riconoscenza”, a legittimarlo ai vertici politici della DC e del paese, ma l’élite industriale della Prima Repubblica: saranno Gianni Agnelli, Carlo De Benedetti, Cesare Romiti e Leopoldo Pirelli a coniare la formula “I terroni al partito, i settentrionali al governo”, in virtù della quale, con De Mita alla segreteria DC, alla presidenza del consiglio sarebbe dovuto andare il “settentrionale” della compagnia, quel Giovanni Marcora che poi, gravemente malato, morirà di lì a poco. Marcora, ex partigiano “bianco” strettamente legato a Mattei e capo storico de “La Base”, mise in piedi nell’estate del 1982 degli informali gruppi di lavoro che avrebbero dovuto formulare il programma del suo “rivoluzionario” governo. A coordinare i lavori per le politiche industriali c’era Romano Prodi, al tavolo in cui si discuteva di economia e finanza presiedeva Mario Monti.
In verità, una prima apoteosi del demitismo si era già avuta in occasione del disastroso terremoto che colpì l’Irpinia nel novembre 1980 e, soprattutto, della “ricostruzione” ad esso collegata. I mille rivoli del fiume di miliardi che andò a sfociare nel feudo di De Mita vennero scientificamente intercettati, deviati, prosciugati, sancendo il più grande fenomeno di trasferimento di ricchezza su base assistenzialistico-clientelare della storia della Repubblica.
Ciriaco De Mita divenne presidente del consiglio solo nell’aprile del 1988, dopo aver conquistato, attraverso i suoi vassalli irpini e sanniti, le migliori poltrone dello Stato e del parastato, in primis quelle della RAI, dove, oltre a Mastella e a Gigi Marzullo, seppe installare il conterraneo Biagio Agnes nel ruolo di direttore generale. Elemento di novità del suo governo la presenza di elementi di spicco del mondo finanziario laico-massonico da tempo annidati nell’alta burocrazia statale, come Antonio Maccanico, a sua volta avellinese ed insignito della carica di ministro per gli affari regionali e i problemi costituzionali in rappresentanza del Partito Repubblicano, e Andrea Manzella, capo di gabinetto del premier. Le iniziative “riformiste” del governo De Mita in ambito economico ed istituzionale verranno promosse proprio da questi ambienti, in sinergia con il ministro per i rapporti con il Parlamento Sergio Mattarella.
Sul piano metapolitico, l’eredità di Ciriaco De Mita è da collocare proprio nel suo essersi prestato, per raggiungere scranni che altrimenti gli sarebbero stati preclusi, a mettere in atto l’abdicazione della politica davanti ai “poteri forti”, incarnati nel connubio fra la finanza “bianca” (politicamente rappresentata dai Prodi e dagli Andreatta) e quella laico-massonica, da sempre preponderante sul piano culturale, ma restia ad assumere incarichi politici. Gli stessi potentati che, su mandato dei padroni d’oltreoceano, metteranno in piedi quel “piccolo Grande Reset” noto come Tangentopoli agivano già, alla luce del sole, in seno al governo De Mita: pertanto, più che vittima di quel passaggio storico, egli ne è stato, forse e chissà quanto suo malgrado, un precursore, al di là delle superficiali valutazioni sul crollo della sua Democrazia Cristiana e del sistema politico di cui era stato uno dei massimi rappresentanti. Curioso che nei vari necrologi pubblicati in questi giorni Ciriaco De Mita sia stato fatto passare come l’ultimo “vero” politico: la fine della politica, i cui effetti drammatici scontiamo nella realtà liquefatta di oggi, prende corpo proprio negli anni in cui il suo potere era all’apice, e proprio in seno alla sua corrente. Davanti a tutto questo, i ladrocini, le raccomandazioni, le “truppe mastellate” e i “ragionamendi” sono solo folklore. Paragonato ai nani di oggi, Ciriaco De Mita non può che assumere la statura di un gigante, restando a sua volta un servizievole nano davanti a quel Potere che in quegli anni andava manifestandosi. Profeta appena nella sua piccola patria che andava da Nusco al bar Lanzara di Avellino, la Storia lo ricorderà soltanto nelle note a margine.
Lascia un commento