Giuseppe Russo
Avanti.it
Nelle elezioni che si sono tenute nella giornata di ieri, domenica 11 settembre 2022, in Svezia si è prodotto un cambio di maggioranza parlamentare. La coalizione di opposizione che raggruppa quattro partiti di centro e di destra ha ottenuto un risicatissimo primato: 175 seggi contro i 174 del blocco informale guidato dal Partito Socialdemocratico della premier uscente Magdalena Andersson, tutt’altro che coeso al suo interno per via dell’opposizione all’ingresso nella NATO del Partito della Sinistra e dello scetticismo dei Verdi sulla stessa questione. Quest’esito, però, non è acquisito: per determinare i risultati definitivi mancano ancora le schede frutto del “voto postale”, il cui spoglio sarà effettuato nella giornata di mercoledì prossimo: alle precedenti elezioni del 2018 furono 226000 e determinarono il passaggio di qualche seggio da un partito all’altro. Nel recente passato, la pratica del voto postale ha cambiato il vincitore delle elezioni in due controverse circostanze riguardanti “mature” democrazie occidentali: nello scontro Biden – Trump con annesse guerriglie giudiziarie ed in occasione delle presidenziali austriache del 2016, che vennero poi annullate e ripetute. La Svezia, tuttavia, ha fama di paese “trasparente”, e dunque le dietrologie dovrebbero essere strozzate sul nascere; eppure, vista l’attenzione che la stampa dell’Occidente sta riservando ai Democratici Svedesi, il partito populista etichettato come “euroscettico di ultradestra” che è stata la seconda forza più votata dopo i socialdemocratici e che dovrebbe appoggiare, con ogni probabilità “dall’esterno”, l’eventuale prossimo esecutivo di centro-destra, resta il sospetto che le cancellerie che contano faranno di tutto affinché tale partito venga escluso dalle future maggioranze. La Svezia è un esperimento socio-politico a cielo aperto: pare che il progetto non preveda smagliature di alcun tipo.
Nel Regno di Svezia vige un curioso sistema di raccolta del voto: gli elettori si recano nei seggi, prendono di loro iniziativa una scheda premarcata con il simbolo di un partito attingendo dai mucchi di schede forniti dai partiti stessi e la depositano in un’urna collocata dietro un tendaggio. Fino a ieri, tutto avveniva con una certa promiscuità: nel momento in cui le schede, caratterizzate da colori diversi per ogni partito, venivano prelevate, la volontà dell’elettore era pubblica per tutti i presenti. A partire dalle elezioni di quest’anno, invece, è stata attuata una riforma volta a tutelare la riservatezza del voto, fatto che ha determinato l’allungamento delle operazioni fino a due ore dopo la chiusura dei seggi, evento assolutamente inusuale per l’efficiente e disciplinato paese scandinavo. Ad avere il privilegio di portare ai seggi elettorali i pacchi di schede colorate, comunque, sono solo i partiti che hanno una rappresentanza nel Riksdag, il parlamento svedese; per tutti gli altri (che infatti riescono a racimolare poche migliaia di voti) ci sono le schede bianche sulle quali scrivere il nome del partito prescelto.
Non sorprende che in uno scenario di tal fatta i consensi alle varie forze politiche restino sostanzialmente stabili di elezione in elezione, con slittamenti minimi che non producono terremoti, ma solo aggiustamenti dell’assetto politico. Quella svedese è una partitocrazia perfetta: i sette partiti rappresentati in parlamento da vent’anni a questa parte (diventati otto a partire dal 2010 con l’ingresso dei “guastafeste” dei Democratici Svedesi) hanno ciascuno i propri sindacati di riferimento, le proprie associazioni femminili, studentesche, giovanili e persino i propri Nomineringsgrupper, emanazioni dei partiti che prendono parte alle elezioni per le assemblee di diocesi e di parrocchia della Chiesa di Svezia. Alle consultazioni del 2022, ancora una volta come avviene da 105 anni, il partito più votato è stato quello socialdemocratico, i Socialdemokraterna che sono stati padroni della politica svedese del Novecento, restando ininterrottamente al governo per un quarantennio abbondante, dal ’32 al ’76, e dando corpo a quel “modello svedese” di stato sociale generoso ed ecumenico e di sistema a economia “mista” che ha reso celebre il paese scandinavo nell’immaginario politico. Dopo aver perso la guida del governo in tre parentesi negli ultimi novant’anni (la più lunga e più recente dal 2006 al 2014), il Partito Socialdemocratico si è presentato all’appuntamento con le urne del 2022 sotto la guida di Magdalena Andersson, il cui governo, un monocolore che si reggeva con una maggioranza di un solo voto e grazie all’astensione di due partiti, era stato caratterizzato dalla domanda di formale adesione alla NATO, provvedimento appoggiato dalla quasi totalità del Riksdag, e dall’impotenza in fatto di politiche di bilancio. In vista delle elezioni, data la centralità del tema nel dibattito, i socialdemocratici si sono rimangiati in un sol boccone tutto il loro passato di politiche “integrazioniste” sull’immigrazione promettendo espulsioni e repressione come i partiti dello schieramento opposto. I quasi due milioni di voti ottenuti, pari a poco più del 30% del totale, lasceranno comunque, con ogni probabilità, i socialdemocratici fuori dalle prossime maggioranze. Come già scritto, il secondo partito è stato quello dei Democratici Svedesi, che ha superato “a destra” i conservatori “classici” raccolti nel partito Moderaterna, il primo poco sopra e il secondo poco sotto il 20%. In flessione gli altri partiti della coalizione di centro-destra, i cristiano-democratici e i liberali, così come i postcomunisti del Partito della Sinistra, che hanno ottenuto poco più del 6%, quasi alla pari con il Partito di Centro, liberali “progressisti” alleati dei socialdemocratici, mentre i Verdi sono andati incontro ad un lievissimo incremento dei consensi, raggiungendo il 5%.
I Democratici Svedesi sono stati la (relativa) “sorpresa” della recente tornata elettorale: il loro secondo posto ha fatto sì che gli allarmi potessero suonare a festa, dando modo ai tedeschi della Süddeutsche Zeitung di scrivere che ” la Svezia è solitamente associata a Bullerbyn, Abba, Ikea, innovazione e democrazia. A questa immagine vanno aggiunti i Democratici Svedesi e le bande criminali”. Il partito Sverigedemokraterna rappresenta la coniugazione in svedese del verbo “populista” che ha movimentato, con alterne fortune, le democrazie occidentali negli ultimi quindici anni. La sua matrice, più che nella destra “tradizionale”, va cercata in quel populismo in salsa nordica che seppe mietere successi in Danimarca negli anni ’70 ed in Norvegia nel primo decennio del nuovo secolo. La storia dei Democratici Svedesi può essere divisa in due parti, prima e dopo l’avvento di Jimmie Åkesson alla leadership. Fondati nel 1988 sulle ceneri dell’organizzazione Bevara Sverige Svenskt (“Mantieni la Svezia svedese”) e di altri gruppuscoli della destra nazionalista, gli Sverigedemokraterna vissero i primi anni all’insegna della marginalità e del teppismo politico: per rendere l’idea, due suoi militanti furono arrestati nel 1993 mentre recavano una bomba ad un comizio indetto per celebrare il Primo Maggio, e solo a partire dal 1996 fu fatto formale divieto di partecipare alle iniziative del partito indossando uniformi o giubbotti antiproiettile. In quegli anni i Democratici Svedesi si avvicinarono prima agli omologhi britannici del National Front e poi ai francesi del Front National, dai quali ottennero sostegno economico a partire dagli anni ’90, due partiti “gemelli” che subiranno però sorti assai diverse. La svolta maturò nel 2005, quando il partito che si definiva “democratico e nazionalista” passò sotto il controllo dell’allora ventiseienne Jimmie Åkesson, il quale gli diede una ripulita allontanando gli elementi folkloristici e riformulandone la politica sintonizzandola sul canale populista. A titolo di esempio, l’originaria istanza di “preservazione del patrimonio biologico svedese” si traduce nell’era Åkesson in richieste simboliche come l’abolizione dell’insegnamento della lingua madre ai bambini immigrati nelle scuole o l’esclusione dal novero delle festività nazionali di quelle di matrice musulmana. La retorica di Åkesson contro le “élite multiculturali” fa presa su quella Svezia profonda tradita e abbandonata dal Partito Socialdemocratico, su quegli svedesi non più benestanti che sentono la propria quota di servizi pubblici ridursi a beneficio degli immigrati, sugli abitanti delle grandi città atterriti dall’impennata della criminalità registratasi nell’ultimo decennio. Sul piano economico, i Democratici Svedesi mettono insieme, tratto fondante di tutti i “populismi”, il diavolo e l’acqua santa, l’abbattimento delle tasse e l’incremento dei servizi pubblici, il liberismo più feroce e la salvezza dello stato sociale, anche se solo per gli svedesi nativi, in quella prospettiva che i politologi descrivono come “sciovinismo del benessere”. In quanto al (presunto) “euroscetticismo”, Åkesson si è limitato nelle sue ultime uscite a blande richieste di riduzione delle competenze di Bruxelles e a impegni per mantenere la corona come moneta corrente, mentre la volontà di sottoporre a referendum l’abbandono dell’Unione Europea è stata rinviata a orizzonti remotissimi. Oltre che “europeista”, il leader dei Democratici Svedesi si è fatto pure “atlantista” per legittimarsi agli occhi dei potenziali alleati di governo: lasciato alle spalle il neutralismo delle origini, la pattuglia di deputati da lui coordinata ha votato compatta per l’ingresso della Svezia nella NATO. Entrati per la prima volta in parlamento nel 2010, ostracizzati da tutte le altre forze politiche fino al 2019, gli Sverigedemokraterna hanno trovato la quadra con gli altri partiti di opposizione sulla base della lotta al crimine, del contenimento dell’immigrazione e dell’apertura di nuove centrali nucleari per produrre stabilmente elettricità. È stata la brutalità dei numeri a far sì che Åkesson venisse invitato ai tavoli dai quali prima era bandito: i Democratici Svedesi sono passati dai mille voti del 1988 ai quasi un milione e trecentomila di oggi. Dal suo feudo di Sölvesborg, nel Sud della Svezia, dove venne eletto a diciannove anni consigliere comunale e di cui è oggi sindaco la sua compagna, Jimmie Åkesson ha scompaginato gli asfittici equilibri della politica svedese.
La questione NATO è rimasta fuori dalla campagna elettorale; la premier Andersson, del resto, era stata chiara al riguardo, rilasciando una dichiarazione congiunta assieme al leader dell’opposizione, l’esponente dei Moderaterna Ulf Kristersson, nell’ambito della quale aveva descritto l’adesione all’Alleanza Atlantica come frutto di “ampio sostegno politico”, affermando anche che il processo sarebbe andato avanti a prescindere dall’esito delle elezioni. Kristersson sarà il prossimo capo del governo qualora il voto postale confermasse i risultati dell’undici settembre: sulle questioni cruciali, come quelle riguardanti la politica estera e la “transizione climatica” che rientra nel programma di tutti i partiti (fatta eccezione per i Democratici Svedesi), c’è perfetta sintonia con i socialdemocratici, Gli unici ad essersi opposti, seppur in modo altalenante, all’adesione della Svezia alla Nato sono stati i deputati del Partito della Sinistra, il Vänsterpartiet erede della tradizione comunista. Pur avendo espresso voto contrario nella ratifica parlamentare della scorsa primavera, il partito ha mantenuto l’appoggio esterno al governo Andersson, impedendone la caduta e perorando al contempo l’indizione di un referendum per far pronunciare il popolo sulla svolta “militarista” (proposta liquidata come una “pessima idea” dalla premier). Successivamente, si è provato a boicottare il processo organizzando la tutela dei curdi sui quali pende un mandato di estradizione chiesto dalla Turchia, che per l’ingresso della Svezia nell’alleanza ha posto questa e altre condizioni. Ad ogni modo, la causa pare data per persa: nella campagna elettorale del Partito della Sinistra il tema non è stato prioritario. Per ora l’estradizione dei curdi di origine turca è inattuabile a causa delle tutele ancora previste dall’ordinamento svedese per i rifugiati politici, le stesse tutele che un governo di centro-destra potrebbe abolire, chiudendo un difficile cerchio: ed ecco che i tanto stigmatizzati Democratici Svedesi tornano utili alla finalizzazione del processo che doveva andare avanti a prescindere.
La Svezia è un paese-laboratorio: gli esperimenti attecchiscono su un substrato culturale fatto di vocazione alla riservatezza, solitudini assolute, primati nelle lugubri classifiche dei tassi di suicidi, conformismo post-luterano, libertinaggio passivo. La Svezia è oggi il paese che funge da apripista per l’impianto di microchip sottocutanei e per le gravidanze fai da te.Le stesse misure “pandemiche” sono state poco più che cosmetiche: quella svedese è una società fondamentalmente già “anestetizzata” che non ha bisogno di shock e terapie d’urto. I suoi armadi, nonostante la patina di apparenze, pullulano di scheletri, a partire da quelli delle vittime del programma di sterilizzazione su base eugenetica che andò avanti per settant’anni fino a quello di Olof Palme, il premier socialdemocratico assassinato a pistolettate nel centro di Stoccolma, nel 1986, fautore della distensione verso l’Unione Sovietica e di una parziale collettivizzazione delle grandi imprese che non giunse mai a compimento, Il delitto, principale episodio di una “strategia della tensione” in salsa svedese che non ha nulla da invidiare a quella di casa nostra, è tuttora fondamentalmente irrisolto, nonostante le varie “piste” di volta in volta percorse dagli inquirenti. Esiste, e soprattutto è esistito, un Deep State nella pieghe della “progressista” e neutrale monarchia scandinava, come si può evincere, metastoricamente, dalla lettura dei romanzi di Leif GW Persson o di Stieg Larsson, l’autore della trilogia Millennium morto di infarto, in circostanze da taluni ritenute “sospette”, nel 2004. Le elezioni, come hanno detto all’unisono i capi di maggioranza e opposizione uscenti, non contano: certe istanze vanno avanti a prescindere, traendo origine da profondità inaccessibili. Socialdemocratici o conservatori, “estrema sinistra” o “estrema destra” conta poco: la Svezia entrerà nella NATO, promuoverà le sanzioni alla Russia, assaggerà gli effetti della crisi degli approvvigionamenti energetici. La “democrazia” ha il pilota automatico.
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