Giuseppe Russo
Avanti.it
Nelle elezioni politiche israeliane del primo novembre, le quinte in tre anni e mezzo, hanno largamente prevalso le forze del sionismo più oltranzista e guerrafondaio strette intorno alla controversa leadership di Benjamin “Bibi” Netanyahu, il già primo ministro per oltre quindici anni e dominatore della scena politica dagli anni ’90 del secolo scorso. Quello che nella politologia israeliana è considerato il “campo nazionale”, con i conservatori “classici” del Likud di Netanyahu ed i partiti che rappresentano, a diverso titolo, gli ebrei ultra-ortodossi, ha ottenuto la maggioranza assoluta alle elezioni per la Knesset, 64 seggi su 120. Nel dettaglio, in consultazioni segnate da un leggero aumento dell’affluenza alle urne (hanno votato duecentomila cittadini in più rispetto al marzo 2021),il Likud, dopo una martellante campagna pro-Netanyahu, si conferma il primo partito con oltre un milione e centomila voti, pari al 23,4% e a 32 seggi. Le tre formazioni che invece si richiamano all’ortodossia religiosa, Shas, Ebraismo Unito della Torah e Partito Sionista Religioso, passano complessivamente dai novecentomila suffragi di un anno e mezzo fa ai quasi un milione e duecentomila di oggi, con dieci seggi in più nella nuova Knesset. L’incremento più spettacolare è stato quello del Partito Sionista Religioso, che ha più che raddoppiato i suoi consensi, emergendo come terza forza politica. Frutto dell’aggregazione dei più estremisti fra i partiti ultra-ortodossi, come i kahanisti di Otzma Yehudit, che predicano la dearabizzazione dello Stato d’Israele e l’annessione dell’intera Cisgiordania, il Partito Sionista Religioso si è distinto per il suo sostegno attivo alle “truppe di sicurezza” che presidiano gli insediamenti colonici e per le campagne in cui si invitava la popolazione araba a lasciare il paese. Fra i tre partiti di matrice religiosa, il PSR è al contempo il più militarista ed antiarabo, ma anche il più laico, visto che è l’unico aperto alla partecipazione politica delle donne. Il partito Shas, invece, passato da 9 a 11 seggi, rappresenta storicamente gli interessi della comunità sefardita e, in misura minore, di quella dei Mizrahì, ovvero degli ebrei originari del Medio Oriente e del Subcontinente Indiano. Presenza costante nel panorama politico israeliano degli ultimi trent’anni (nel 1999 arrivò al 13% dei voti), Shas ha partecipato a maggioranze di governo di ogni colore politico, prima di essere pienamente acquisito al “campo nazionale” di Netanyahu, all’interno del quale rappresenta l’ala “populista” più ostile alle misure neoliberiste. La lista Ebraismo Unito della Torah, infine, braccio politico degli ultra-ortodossi di origine ashkenazita, divisi a loro volta fra chassidici e non chassidici e fra polacchi e lituani, conferma il risultato del 2021, mantenendo i 7 parlamentari, e si candida a fare da puntello alla futura maggioranza in cambio di provvedimenti mirati per le sue comunità di riferimento, visto che i seguaci di questa corrente di pensiero, non riconoscendo il sionismo laico sul quale si fonda la costituzione israeliana, si rifiutano di assumere direttamente cariche di governo.
Il fronte del sionismo laico e moderato, uscito con le ossa rotte dalle elezioni dopo il braccio di ferro con quel “Bibi” Netanyahu assieme al quale pure si erano fatti governi di larghe intese, conterà su 42 deputati nella Knesset di prossimo insediamento, volendo associare a quest’area anche Yisrael Beiteinu, il movimento che rappresenta gli israeliani di origine russa, caratterizzato dal nazionalismo e dall’antiarabismo, ma anche da tendenze secolariste ed anticlericali. Yesh Atid, il partito del premier uscente Yair Lapid, ex giornalista televisivo ed ex ministro delle finanze con Netanyahu nel 2013, ha visto i suoi consensi crescere sensibilmente rispetto al 2021, nonostante le ondivaghe scelte politiche del suo leader: le schede valide passano da seicentomila a ottocentocinquantamila, i seggi da 17 a 24. Partito liberale e liberista di ispirazione “macroniana”, Yesh Atid rappresenta le classi alte e medio-alte che non ne possono più delle influenze religiose sulla vita pubblica e sono favorevoli a soluzioni di compromesso per venire a capo della questione palestinese. Lapid, noto anche come “il George Clooney israeliano”, pur avendo perorato agli inizi della sua parabola politica la causa dei “due popoli e due stati” e pur avendo guidato il primo governo nella storia di Israele a comprendere anche un partito arabo, si è reso da primo ministro protagonista dell’attacco missilistico alla striscia di Gaza dell’agosto scorso, perpetrato con il consueto pretesto di stanare terroristi jihadisti: in quell’occasione è emerso il suo più genuino profilo politico, che sulle questioni della “sicurezza” si discosta assai poco da quello di Netanyahu e soci. Lo storico partner politico di Lapid, Benny Gantz, è uscito invece ridimensionato dalle ultime elezioni: il suo Partito di Unità Nazionale ha infatti peggiorato il risultato che nel 2021 avevano portato a casa il partito Blu e Bianco e quello della Nuova Speranza, poi aggregatisi nel nuovo contenitore. A margine dell’area del sionismo laico, si estingue la sinistra israeliana, che ha visto il suo elettorato storico migrare in parte verso i “centristi” di Lapid e Gantz e in parte verso i partiti religiosi. Il Partito Laburista Israeliano, più volte al governo del paese dagli anni ’60 in avanti esprimendo premier come Golda Meir, Shimon Peres ed Yitzhak Rabin, supera per una manciata di voti lo sbarramento del 3,25%, portando a casa appena 4 seggi, mentre Meretz, la forza storicamente collocata alla sua sinistra, manca l’obiettivo ed esce dalla Knesset per la prima volta dal 1992. Fra i partiti che rappresentano la popolazione araba, all’interno della quale il tasso di astensionismo è sempre molto alto, faranno parte del nuovo parlamento la coalizione Hadash–Ta’al, frutto dell’incontro fra il multietnico Partito Comunista Israeliano ed il partito laico Ta’al, e la Lista Araba Unita, l’aggregazione islamista guidata da Mansour Abbas che è riuscita ad ottenere, con la sua storica partecipazione al governo, importanti interventi a favore del suo elettorato, soprattutto fra le popolazioni beduine del Negev, mentre non ce l’ha fatta ad oltrepassare la soglia di sbarramento il più radicale partito Balad, che si batte per il riconoscimento degli arabi come minoranza etnica.
Benjamin Netaniahu si appresta a diventare primo ministro per l’ennesima volta dopo aver catalizzato verso la sua figura il dissenso legato alla partecipazione degli arabi al precedente governo, che aveva preso forma solo in opposizione a “Bibi” stesso. Nell’immediato, i suoi sforzi saranno legati a preservarlo dal processo per corruzione che lo vede imputato. In prospettiva, si fa strada il sogno della “soluzione finale” contro i palestinesi e dell’annessione della Cisgiordania, progetto che sta particolarmente a cuore a quei pezzi di establishment israeliano legati all’esercito e all’intelligence di cui Netanyahu è da sempre il referente politico. Regolati i conti col nemico interno, le attenzioni potrebbero poi rivolgersi all’Iran, contro il quale la belligeranza non si è mai sopita, producendo una militarizzazione della vita pubblica che è già stata sperimentata nel periodo pandemico, la cui gestione nello Stato d’Israele è stata fra le più scellerate e liberticide di tutto il mondo che si vuole “libero”. Quella che viene solitamente definita come “l’unica democrazia del Medio Oriente” è in realtà un groviglio di rappresentanze etniche e religiose, di comunità impermeabili, di conflitti che è impossibile pacificare. L’allargamento del “campo nazionale” di Netanyahu ai fautori dell’espulsione degli arabi ed ai partiti rabbinici minaccia di ridisegnare il perimetro delle istituzioni israeliane, sancendo il coinvolgimento delle autorità religiose delle diverse fazioni e la fine dello stato di diritto sul modello occidentale che era stato costruito negli ultimi settant’anni. Dall’altra parte, mai come ora l’Autorità Nazionale Palestinese appare così debole, sia sul piano del potere negoziale con una controparte che si fa sempre più aggressiva e sia agli occhi della stessa gente che dovrebbe rappresentare, inerme davanti alla furia dell’esercito israeliano. Fra Tel Aviv e Gerusalemme sta prendendo piede una teocrazia militarista che non ha eguali nel mondo contemporaneo: tornano i tempi delle guerre combattute in nome di Dio.
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