Marco Di Mauro
Avanti.it
Era il 9 marzo e la guerra d’Ucraina era scoppiata da due settimane quando Recep Tayyip Erdogan incontrava ad Ankara il presidente di Israele, segnando una svolta nella diplomazia tra i due paesi. Isaac Herzog è stato il primo presidente israeliano a recarsi in visita in Turchia dal 2007, anno in cui i rapporti hanno iniziato a raffreddarsi fino a giungere ad una aperta rottura nel 2010, quando un commando del Mossad attaccò la nave umanitaria turca Mavi Marmara mentre trasportava aiuti ai braccati di Gaza, uccidendo dieci persone. Da allora, Erdogan si è erto a difensore della causa palestinese, criticando apertamente e pesantemente in più occasioni la brutalità delle Israeli Security Forces e arrivando perfino nel maggio 2018 a espellerne l’ambasciatore a causa della strage di 61 persone durante le proteste palestinesi al confine con Gaza. Quello in corso, però, è un anno particolare, sotto molti aspetti.
Dal punto di vista politico, non vedremo più il popolo di Gaza sventolare la mezzaluna stellata accanto alla bandiera palestinese, in quanto il presidente turco ha deciso di attuare un brusco voltafaccia nei confronti dei suoi correligionari oppressi dalla brutalità sionista, e fare buon viso a Israele: la causa risiede probabilmente negli Accordi di Abramo, stipulati nel 2020 a Washington da Israele con Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, che hanno sancito una storica apertura di Tel Aviv verso il mondo arabo. Lo spostamento degli equilibri geopolitici ed economici che ne è conseguito ha portato Erdogan a temere l’isolamento del suo paese e quindi ad abbandonare in fretta la funzione di garante dell’islam nel Medio Oriente contro le ingerenze occidentali: immediatamente dopo gli accordi sono iniziate progressive manovre di avvicinamento sia a Israele che agli Emirati, che sembravano agli occhi del mondo irriducibili avversari della Turchia. Così a marzo scorso il movimento di resistenza armata palestinese Hamas, che aveva ricevuto nell’ultimo decennio ospitalità e sostegno da Ankara, si è visto chiudere le porte tutto d’un tratto, e dopo la partenza di Herzog è iniziata la progressiva espulsione dei suoi militanti dal paese, primo fra tutti Saleh Aruri, fondatore delle Brigate Izz ad-Din al-Qassam, l’esercito di Hamas.
Anche il popolo di Gaza si è trovato dalla sera alla mattina abbandonato da colui che negli ultimi dieci anni era sembrato un alleato e protettore della resistenza contro l’occupazione sionista. E non è il solo: i grandi esclusi della nuova combriccola arabo-israeliana sono Siria, Libano e Iran; quest’ultimo soprattutto si trova, dopo gli accordi, chiusi tutti i ponti con l’occidente islamico e ne è scaturita una inesorabile, seppur lenta, escalation militare, che vede l’asse turco-israeliano far scintille con quello degli esclusi di Abramo nei campi di battaglia del Kurdistan siriano e iracheno. Il 13 marzo dodici missili iraniani colpiscono un centro di addestramento del Mossad a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, mentre la Turchia inizia a mobilitare truppe sui due fronti curdi, che sfoceranno in veri e propri attacchi dalla metà di aprile nel nord dell’Iraq. Il blocco degli approvvigionamenti di grano causato dalla guerra d’Ucraina ha effetti sempre più devastanti sulla sussistenza delle popolazioni in Libano e Iran, innescando una crisi alimentare che porterà alla destabilizzazione politica, indebolendoli anche militarmente. Il governo iraniano deve affrontare da maggio fortissime contestazioni popolari, mentre le elezioni di Beirut della settimana scorsa hanno sancito una sconfitta di Hezbollah, il movimento islamico avverso a Israele; quest’ultimo ne ha approfittato, avviando un attacco a tutto campo: il 20 maggio le Israeli Air Forces colpiscono una divisione iraniana ad Al-Kiswah, vicino Damasco, e un deposito di Hezbollah; negli stessi giorni iniziano a lanciare missili sul confine con Libano e Siria; il 22 maggio un presunto commando del Mossad crivella di colpi nella sua auto a Teheran il generale iraniano Hassan Sayad Kodayahri; il giorno dopo, 23 maggio, una tremenda esplosione al porto di Beirut uccide 244 persone, e nell’ambiente arabo si accusa Israele.
Intanto, l’asse arabo-sionista, col patrocinio americano e le simpatie turche, si cementa. Nella seconda metà di marzo il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha incontrato a Sharm el Sheikh il presidente egiziano Abdel-Fattah el Sissi e il principe ereditario degli Emirati Sheikh Mohammed bin Zayed Al Nahyan per parlare di cooperazione economica e militare e a fine mese, il 27, nel deserto del Negev, si è data una solida base agli Accordi con un nuovo vertice tra USA-Israele ed Egitto, Marocco, Giordania, Emirati, Bahrein.
È proprio in questi giorni di successi esteri che sul fronte interno qualcosa inizia a rompersi. Il 22 marzo a Beersheva, nel deserto del Negev meridionale, un giovane insegnante palestinese ha aperto il fuoco e ucciso 4 israeliani; il 27 marzo – proprio in concomitanza col summit del Negev – a Hadera, nel distretto di Haifa, in una sparatoria con giovani palestinesi sono morti due poliziotti; il 29 marzo nella città ebraica di Bnei Brak, vicino Tel Aviv, un uomo ha sparato sulla folla e ucciso 5 persone; il 30 e 31 marzo a Gerusalemme e poi a Neve Daniel nuovi attacchi all’arma bianca feriscono gravemente civili israeliani. Questi assalti stile mass shooting americano – uomo armato contro civili inermi – sono inediti per la resistenza palestinese, ma potrebbero essere indice di un’esasperazione maturata dall’abbandono dei sostenitori internazionali sommata alla situazione in cui versano le quotidiane vittime d’Israele da 55 anni, ben descritta da Michael Lynk, relatore speciale delle Nazioni Unite per i Territori occupati nel suo rapporto presentato all’Onu: «Nel territorio palestinese che Israele ha occupato dal 1967 ci sono cinque milioni di palestinesi apolidi che vivono senza diritti, in un acuto stato di sottomissione e senza alcuna strada verso l’autodeterminazione o lo Stato indipendente che la comunità internazionale ha ripetutamente promesso. Le differenze nelle condizioni di vita e nei diritti e benefici della cittadinanza sono nette, profondamente discriminatorie e mantenute attraverso un’oppressione sistematica e istituzionalizzata».
Immediata la risposta del governo Bennett, che così si è rivolto ai suoi cittadini: «Cosa ci si aspetta da voi cittadini israeliani? Vigilanza e responsabilità. A chi ha il porto d’armi dico che questo è il momento di tenere una pistola (a portata di mano)» e ha sguinzagliato le ISF all’assalto del nord della Cisgiordania, è stata inoltre creata una Brigata speciale della Polizia di frontiera operante nelle città miste ebraico-arabe affiancata da 1000 soldati di leva. Infine, il ministro della difesa Benny Gantz ha inviato dodici battaglioni nella Cisgiordania palestinese e altri due al confine con la Striscia di Gaza. La situazione precipita rapidamente: i posti di blocco rigidissimi portano a morti e arresti tra i palestinesi, così come i blitz notturni nel nord della Cisgiordania – chiamata West Bank dagli occupanti israeliani – che culminano sempre in vera e propria guerriglia. Tra l’1 e il 2 aprile le ISF uccidono tre presunti “terroristi” tra Jenin e Tulkarem; il 7 aprile scene d’orrore a Tel Aviv, nella centralissima via Dezingoff, quando un palestinese ha aperto il fuoco in un bar, uccidendo 3 persone e ferendone gravemente 10. È l’episodio che più di tutti contribuisce a instaurare il contesto di odio etnico che caratterizza l’ondata di violenze di questi mesi, in un clima da Terza Intifada. Numerose le critiche ricevute dall’intelligence israeliana, colpevole di aver sottovalutato le attività interne al paese di piccoli gruppi di salafiti legati all’Isis – che ha rivendicato gli attentati, anche se sembra una versione improbabile, considerato che lo Stato Islamico è una diretta creazione del Mossad e non ha mai agito contro gli interessi di Israele e Turchia – e gli attentatori sono riusciti a farla franca nonostante il progetto Blue Wolf che tiene registrati volti, documenti e spostamenti di decine di migliaia di palestinesi. Sarà che questo tipo di assalti è inedito per gli israeliani e gli attacchi sono stati molto ravvicinati tra loro?
Già a maggio dell’anno scorso c’erano stati violenti scontri tra palestinesi e ISF, con rispettivamente 205 e 12 feriti, ma quest’anno, dicevamo, è particolare, anche dal punto di vista religioso. Per una coincidenza astrale, infatti, nel 2022 la Festa del Passaggio ebraica (Pesach, dal 15 al 23 aprile) e il Ramadan (dal 2 aprile al 2 maggio) coincidono, e questo ha fatto immediatamente salire il livello di allerta delle autorità di Tel Aviv, perché ebrei e musulmani a Gerusalemme condividono lo stesso luogo di culto, il Monte del Tempio, detto anche Spianata delle Moschee, dove di regola, in base ad accordi passati, gli ebrei non sono ammessi a pregare se non all’esterno delle Mura di Erode, davanti al cosiddetto Muro del Pianto. Come nella Seconda Intifada, ventidue anni fa, le scintille dei giorni precedenti deflagrano nella Spianata delle Moschee: il 15 aprile pesantissimi scontri tra migliaia di palestinesi e le ISF, che cingono d’assedio la Moschea di al-Aqsa, fracassandone le vetrate con le granate stordenti e i lacrimogeni, per poi fare irruzione e arrestare 400 persone, ferendone 117.
Inizia una vera e propria guerriglia, con scontri segnalati ogni giorno, che da Gerusalemme (dove la moschea di al-Aqsa e la Porta di Damasco divengono una sorta di presidio permanente palestinese, tra alti e bassi) si estendono su tutta la Cisgiordania, in un’escalation senza fine che vede la morte di decine di palestinesi e il ferimento di centinaia. Epicentri dove la resistenza palestinese è più accesa sono certamente Jenin, Ariel, Nablus e Gerusalemme; non mancano lanci di razzi da parte di Hamas sia dalla striscia di Gaza che dal Libano, che mettono a dura prova il modernissimo sistema di difesa di Israele, Iron Dome, il primo al mondo che intercetta gli ordigni mediante raggi laser.
Proprio ad Ariel il 29 aprile due giovani palestinesi a bordo di un’auto hanno fatto fuoco su una guardia israeliana, uccidendola e il 5 maggio, terminata la pausa del Ramadan, nella cittadina di Elad – poco a nord della capitale – la ricorrenza israeliana del Giorno dell’Indipendenza (Yom Ha’atzmaut) è stata funestata dall’ultimo sanguinoso attentato: due palestinesi, uno armato di pistola e l’altro di ascia, seminano il terrore tra la folla uccidendo 3 persone e mandandone 4 in ospedale. La risposta di Tel Aviv è durissima, e l’11 maggio durante una sparatoria gli israeliani colpiscono la giornalista di Al Jazeera Sheerin Abu Aqleh, la cui morte provoca una mobilitazione in tutta la Cisgiordania, con violentissimi scontri. Ai funerali, tenutisi a Gerusalemme, le ISF caricano il corteo suscitando stupore perfino nel segretario di stato americano Anthony Blinken. Il Qatar prende posizione a favore dei palestinesi, illuminando i grattacieli di Doha con la foto della giornalista uccisa e la bandiera palestinese e denunciando che l’intenzione di Israele di costruire quattromila nuove unità abitative in Cisgiordania “è una palese violazione del diritto internazionale e una pericolosa minaccia agli sforzi internazionali per raggiungere una soluzione a due stati”. Anche la vicina Giordania, per tramite del suo ministro degli esteri Bassam Haddadin, ha affermato che Israele non ha sovranità sulla moschea di al-Aqsa: “È una terra palestinese occupata e un luogo di culto musulmano”.
Intanto, Gerusalemme vecchia è tuttora bandita ai palestinesi, Porta di Damasco e al-Aqsa comprese, mentre si intensificano sempre più gli le risse tra ebrei e palestinesi: il 15 maggio, giorno della Nakba (ricorrenza palestinese che ricorda la cacciata dalle loro terre da parte degli israeliani) all’Università di Tel Aviv studenti ebrei hanno attaccato i colleghi palestinesi, mentre al Machaneh Yehudah Market di Gerusalemme una rissa ha causato diversi feriti. Il 16 maggio, in occasione di un nuovo funerale palestinese, si rinnovano gli scontri tra resistenti e ISF, sia sulla Spianata che in centro città, con un bilancio di 73 feriti palestinesi e 6 delle forze di sicurezza. Tuttora si susseguono raid israeliani a Jenin e Nablus: l’ultimo assassinio risale a sabato scorso. Nel pressoché totale silenzio della comunità internazionale, troppo occupata a combattere mediaticamente e diplomaticamente la Russia, i popoli della Palestina, legittimi e occupanti, stanno precipitando sempre di più in una spirale di violenza e terrore.
Lascia un commento