Giuseppe Russo
Avanti.it
Luiz Inácio Lula da Silva è stato eletto presidente del Brasile dopo il ballottaggio di domenica 30 ottobre, prevalendo con un margine di due milioni di voti sul capo dello stato uscente Jair Bolsonaro, i cui sostenitori gridano ai brogli ed inneggiano al golpe militare. Per Lula si tratta del terzo mandato presidenziale dopo quelli esercitati dal 2002 al 2010. Con oltre sessanta milioni di suffragi, l’ex operaio e sindacalista risulta il più votato di sempre nella storia della democrazia brasiliana, superando il suo stesso primato ottenuto alle trionfali presidenziali del 2006, quando travolse al ballottaggio l’uomo delle oligarchie, quel Geraldo Alckmin che è oggi il suo vicepresidente, con oltre cinquantotto milioni di schede valide. Il distacco dallo sconfitto Bolsonaro, che è pari all’1,8% del totale, è il più stretto da quando è stato istituita l’elezione diretta del presidente, nel 1989. Bolsonaro, che ha comunque ottenuto quattrocentomila voti in più rispetto al per lui vincente ballottaggio del 2018 (il dato è spiegabile con il drastico abbassamento delle schede bianche e nulle, passate da undici a sei milioni), ha avuto la meglio negli stati di São Paulo e di Rio de Janeiro, nel ricco e bianco Brasile meridionale, nella cintura amazzonica dove pesa l’egemonia dell’agro-business, elemento cruciale del blocco sociale bolsonarista. Rispetto al 2018, quando ebbe quasi undici milioni in più del suo avversario Fernando Haddad, candidato del Partito dei Lavoratori dopo che il Tribunal Superior Eleitoral aveva negato a Lula, fresco di carcere, la possibilità di correre, Bolsonaro ha perso terreno proprio nei popolosi stati costieri di Rio e São Paulo, nei quali ha ottenuto complessivamente un milione e mezzo di voti in meno, nel Distrito Federal della capitale Brasilia, nel Minas Gerais e nelle sue roccaforti del Sud. Lula ha invece dilagato nello spicchio nordorientale del paese, in quel Brasile nero e povero che rappresenta il nocciolo duro del suo elettorato, superando o sfiorando il 70% negli stati di Bahia, Cearà, Maranhão e Piauì. Paragonando i suoi risultati a quelli ottenuti nel 2018 da Haddad, il debole alter ego di Lula che andò a sbattere contro Bolsonaro, il neopresidente “recupera” sei milioni di voti fra Rio e São Paulo, ma perde qualcosa proprio negli stati del Nord-Est, fatto che attesta la penetrazione del bolsonarismo fra gli strati più poveri della popolazione. Un paragone più significativo appare quello con le già citate presidenziali del 2006, che rappresentano l’acme elettorale del lulismo: allora, il presidente operaio godeva di ampie maggioranze in quasi tutti gli stati amazzonici, cioè quelli in cui è stato doppiato da Bolsonaro nel 2022. Per rendere l’idea, Lula passa dall’87 al 51% nello stato di Amazonas, dal 70 al 48 in quello di Amapá, dal 55 al 29 in quello di Rondônia, che è oggi uno dei principali feudi di Bolsonaro. Anche prendendo in esame territori più rilevanti dal punto di vista demografico, il confronto è impietoso: a Rio de Janeiro, dove pure ha “recuperato” rispetto al candidato del suo partito nel 2018, Lula deve “accontentarsi” del 43% rispetto al 70 del 2006, mentre nel Distrito Federal scende dal 59 al 41%.
Il secondo tempo di Lula da Silva alla guida del Brasile inizierà ufficialmente il primo gennaio dell’anno prossimo. Nell’arco di quattro anni e mezzo, egli è passato dall’umiliazione del carcere al ritorno sullo scranno più ambito (e in mezzo, va detto, c’è stata la copertina del Time). Questa versione senile del lulismo di governo (anche se lui, risposatosi con una donna di vent’anni più giovane dopo essere rimasto vedovo, ha affermato di sentirsi come un ragazzino) minaccia di essere ancor più moderata ed incline al compromesso della precedente. Pur essendosi infatti più volte richiamato alla lotta contro la povertà, che rappresenta al contempo la cifra del suo agire politico ed il suo più abituale espediente retorico, la campagna elettorale di Lula è stata annacquata e sbiadita, persino dal punto di vista cromatico, considerando che ordini dall’alto hanno pure imposto di “mitigare” il rosso delle bandiere, oltre che di tenere i toni bassi ed evitare il confronto diretto con la controparte. Come già successo nelle precedenti occasioni in cui è arrivato alla presidenza, Lula ha messo su una coalizione alla quale si sono associati significativi pezzi dell’establishment: in occasione del ballottaggio, oltre a godere dell’appoggio esplicito della terza e del quarto arrivato al primo turno, Simone Tebet e Ciro Gomes, si sono schierati con “l’usato sicuro” rappresentato dall’ex sindacalista quasi tutti i membri dell’élite politica ed economica, ovvero i nemici di ieri, dagli ex presidenti Sarney e Cardoso (quest’ultimo sconfisse due volte Lula negli anni ’90) ai banchieri Henrique Meirelles ed Armìnio Fraga Neto, una sorta di Mario Draghi tropicale. Ottenuto anche l’appoggio di José Serra, il candidato delle oligarchie che venne sconfitto due volte, una dallo stesso Lula nel 2002 ed una dalla sua “delfina” Dilma Roussef nel 2010, il presidente per la terza volta ha imbarcato, come già scritto, il suo avversario del 2006 Geraldo Alckmin come vicepresidente. La retorica barricadera ed “antisistema” che ne aveva favorito l’ascesa ha lasciato il posto all’aplomb dello statista consumato che, vinte le elezioni anche grazie al supporto di pezzi dello “stato profondo” brasiliano, si appresta a metter su l’ennesimo governo di compromesso che si troverà a mercanteggiare di volta in volta l’appoggio parlamentare di questa o quella forza politica. Il consenso plebiscitario di cui gode Lula non si riflette infatti sul suo partito, che ha ottenuto appena il 12% dei voti conquistando 67 deputati su 513 e 4 governatori su 23 alle consultazioni che si sono tenute gli stessi giorni delle presidenziali. Nello stato di Bahia, a titolo di esempio, il candidato lulista Jerônimo Rodrigues ha vinto il ballottaggio con il 52%, ma il suo leader di riferimento ha ottenuto venti punti in più. Nella complessa architettura istituzionale della repubblica federale brasiliana, ci sono mille contrappesi al potere presidenziale, come ha avuto modo di accorgersi anche Bolsonaro, e le misure di governo vanno negoziate con una miriade di ras, cacicchi e capibastone. In questa palude Lula è capace di sguazzare come pochi altri: la sua vocazione al compromesso fa sì che egli riesca a blandire il “popolo”, i “mercati” e le caste politiche allo stesso tempo. Nella sua seconda vita, dopo aver visto defenestrata la donna che lui aveva voluto alla presidenza ed essere stato condannato a dodici anni per riciclaggio e corruzione nell’ambito dell’Operação Lava Jato (da lui oggi definita come un “colpo di stato”), Lula ha mostrato qualche segnale di “disallineamento” solo nella politica estera: in un’intervista concessa al Time (nel numero che gli ha dedicato la già citata copertina) lo scorso maggio, ha condannato la politica aggressiva della NATO nella crisi ucraina ed ha affermato che è stato Zelensky il principale artefice del conflitto, dicendo di lui che ”sembra che faccia parte dello spettacolo”. Negli anni ruggenti in cui l’economia brasiliana galoppava, Lula fu fra gli strateghi del gruppo BRICS, riposizionando il suo paese sul piano geopolitico, anche se sempre in una logica compromissoria, ed in queste dichiarazioni si avverte l’eco del “sovranismo” di un tempo, ma nello scenario odierno non pare esserci spazio per le “terze vie” sul piano internazionale, ed è quindi molto probabile che il neopresidente dovrà “moderarsi” anche su questo punto. Bolsonaro, dal canto suo, aveva più volte cercato con Putin un asse sulla questione dello “scetticismo” pandemico (ambito nel quale l’allineamento di Lula con l’agenda globalista è totale e incondizionato), rimescolando le carte all’interno e all’esterno: la sua è stata una presidenza “americanista” con Trump, “nazionalista” dopo l’insediamento di Biden. Insomma, grande è ed è stata la confusione sotto il cielo di Brasilia.
Jair Bolsonaro ha recitato, da presidente in carica, la parte del candidato “antisistema” proprio mentre Lula accettava docilmente di essere “spinto” da quelle oligarchie contro le quali aveva combattuto. I suoi appelli alla violenza hanno incendiato la campagna elettorale, che è stata caratterizzata da diversi episodi cruenti, su tutti l’assassinio del militante del Partito dei Lavoratori Marcelo Aloizio de Arruda, avvenuta a Foz de Iguacu lo scorso 10 luglio per mano di un agente di polizia penitenziaria. Diversi corpi delle forze dell’ordine sono stati parte attiva nel clima da guerra civile che si è venuto ad alimentare: il capo della polizia stradale Silvinei Vasques è stato oggetto di denuncia poiché i suoi uomini hanno effettuato posti di blocco e blitz sugli autobus per scoraggiare la partecipazione alle elezioni delle fasce più povere della popolazione, che avrebbero per legge diritto ad usufruire del trasporto gratuito verso il seggio. Prisão, morte ou vitória ha più volte tuonato Bolsonaro negli ultimi mesi, presagendo la sconfitta ed avvelenando i pozzi con le accuse di brogli. L’esercito al quale più volte ha fatto appello non ha prodotto segnali di intesa, ribadendo attraverso i suoi vertici che le stellette garantiranno l’insediamento del prossimo presidente. Gli restano fedeli, tuttavia, diversi milioni di brasiliani che condividono le sue accuse: fra questi, serpeggia la parola d’ordine di “fare come nel ’64”, alludendo all’anno in cui le forze armate deposero il presidente legittimo João Goulart ed ebbe inizio la dittatura militare che sarebbe durata fino al 1985. Allo stato attuale delle cose, Bolsonaro non ha riconosciuto la vittoria di Lula. Metà del paese è con lui, in un blocco sociale in cui l’emergente oligarchia agroindustriale scalpita per scalzare dal potere i dinosauri del regime coloniale. Lula ha vinto, ma le ferite della società brasiliana minacciano di diventare piaghe insanabili.
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