All’alba della Rivoluzione Industriale, in quell’Inghilterra che ne fu la culla, mentre le macchine si mangiavano il lavoro degli uomini e già minacciavano di prendersi pure le loro anime, prese piede quello che sarà poi definito “luddismo”.Tale nome derivava dalla storia apocrifa di Ned Ludd, tessitore di cui si raccontava che avesse distrutto due telai meccanici in un impeto di rabbia e la cui figura venne poi ingigantita e mitizzata fino a diventare, nelle manifestazioni luddiste, “il generale Ludd” o “Re Ludd”. I luddisti distruggevano macchine, quelle diavolerie meccaniche che erano state alla base del boom dell’industria tessile britannica e che avevano stravolto prima i paesaggi e poi le relazioni sociali, determinando da un lato il processo di accumulazione capitalistica di cui avrebbe parlato Marx, e dall’altro l’epocale esodo delle genti dalle campagne agli slum urbani, che era in atto già dal XVII secolo. Dopo essere stati massacrati dall’esercito e dalla repressione giudiziaria (le autorità disposero la pena di morte per i distruttori di macchine), i luddisti vennero massacrati postumi sia dalla storiografia dominante, che li considerava antistorici “nemici del progresso”, e sia da quella marxista, che li ha invece sempre liquidati come esponenti di di una fase acerba e “primitiva” del movimento operaio, quella in cui non s’era capito che il mondo era destinato a ricoprirsi di macchine e che tutto ciò era da ritenersi cosa buona e giusta. Oggi, mentre viene prendendo forma la rivoluzione post-industriale e i padroni del vapore di una volta sono diventati i padroni degli algoritmi, opporsi alla caduta nell’abisso significa inventarsi pratiche neoluddiste. Nell’Inghilterra dell’Ottocento, pur col rischio di finire ammazzati, bastava una mazza per distruggere il “progresso”, o almeno averne l’illusione; nel mondo digitalizzato del XXI secolo (e ancora non s’è visto niente), la mazza non basta più, e pure l’intelligenza umana pare destinata a soccombere davanti a quella artificiale. Il modello Amazon è solo l’antipasto di ciò che sarà: adesso sono le macchine a controllare gli uomini (una volta era il contrario), domani o dopodomani gli uomini saranno compiutamente superflui. L’invadenza del “progresso tecnologico” ha raggiunto una portata tale da svuotare di senso ogni cosa: cosa potrà mai restare nelle vite di chi chiede ad Alexa quale camicia mettarsi, va al lavoro facendosi guidare dal navigatore e celebra ogni istante del suo stare al mondo (salvo, per ora, il tempo del sonno) in simbosi con qualche apparecchio? Fra i cosiddetti “nativi digitali”, un senso non c’è mai stato: già dai loro ricordi più remoti, associano la vita al guardare un display. Ha suscitato pertanto curiosità la notizia di un club di “luddisti” (“luddites” in inglese, che nella neolingua odierna suona un po’ come uno sfottò) che ha preso piede a New York fra gli adolescenti di alcuni quartieri residenziali, che di loro iniziativa hanno abbandonato gli smartphone e ucciso simbolicamente i loro avatar virtuali, scegliendo di vivere esperienze che restano impresse solo nella memoria e non vanno a finire in nessun social. Questi ragazzi, per i quali è decisiva l’estrazione sociale (difficile che nasca un “luddista” fra i loro coetanei nati in famiglie a basso reddito), rappresentano un sussulto di sopravvivenza della nostra specie: anche coloro che cantano sempre il ritornello del “la tecnologia non è buona né cattiva, dipende dall’uso che se ne fa”, sono costretti a riconoscere che a tutto questo va (andava) messo un limite. Mai come oggi, il luddismo è necessario, e non nella dimensione massimalista dell’assalto alle antenne, ma in quella minimalista del quotidiano, dove il diavolo tecnologico è più pervasivo. Non si rischia l’impiccagione, ma solo una “solitudine” che a ben guardare è già in essere. Avere la consapevolezza che, qualora si sparisse da internet, si verrebbe “dimenticati” in mezza giornata è una cosa che atterrisce i più allo stesso modo in cui gli uomini medievali erano sopraffatti dal timor di Dio. Siamo arrivati a questo punto, ma forse c’è ancora tempo per cambiare. Lunga vita a Ned Ludd.
GR
[Postilla che mi sarei volentieri risparmiato: non ho mai avuto lo “smartphone” e uso solo il pc]
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