Marco Di Mauro
Avanti.it
Sono ormai tre anni che il Libano è in pieno collasso, economico e sociale. I suoi cittadini, che hanno ancora ben saldi nella memoria i tempi recenti in cui erano considerati la media borghesia del Medio Oriente, oggi sono ridotti alla stessa stregua dei paesi più poveri del terzo mondo, con le famiglie che vendono gli ultimi beni rimasti per imbarcarsi verso la Grecia o l’Italia, spesso finendo naufraghi nella vicina Cipro, o trovando la propria tomba nel Mediterraneo, come avvenuto alla fine di settembre, quando hanno terminato la deriva sulle coste siriane 95 cadaveri nel naufragio più letale dall’inizio dell’esodo libanese. Quest’anno, stando ai dati delle Nazioni Unite, 3460 persone hanno già abbandonato il paese, più del doppio del 2021, incapaci di fronteggiare una crisi economica che sembra irreversibile, mentre fanno il giro del web le immagini di piccoli risparmiatori che, impossibilitati a prelevare i propri depositi a causa della mancanza di liquidità delle banche, vi fanno irruzione armi in mano, costretti a rapinare i propri stessi soldi. Ad oggi, infatti, la sterlina libanese ha perso il 95% del suo potere d’acquisto e il cambio col dollaro, fissato dal primo ministro Rafik Ḥarīrī nel 1997 a 1500:1, raggiunge oggi quota 35mila; secondo una stima elaborata da Al Jazeera su dati forniti dai supermercati Carrefour e Spinneys, su una selezione di generi alimentari di prima necessità – 1kg di pomodori, arance, mele, cetrioli, riso, pollo e 1l di latte – quello che nel 2019 si acquistava con 10mila sterline, oggi costa 90mila.
Eppure, secondo quanto riportavano i media locali e gli osservatori internazionali ben prima dell’ultimo tragico triennio, la crisi economica libanese era una crisi annunciata, alla quale si sarebbe potuto far fronte in tempo. Negli anni Novanta la situazione del paese assomigliava molto a quella di tutti i paesi in via di sviluppo, con un’economia da ricostruire: zona fertile per i grandi investimenti, sostenuti da una classe politica parassitaria e un popolo abbastanza benestante da accettare i cronici disservizi – endemici nel paese la malagestione dei rifiuti e la rete elettrica soggetta a frequenti carenze. Gli attuali schieramenti parlamentari, legati a fazioni religiose, sono nati negli anni della sanguinosa guerra civile che ha devastato e destabilizzato il paese dal 1975 al 1990, facendo 150mila morti e vedendo l’esercito libanese, già diviso nelle opposte fazioni sunnita e sciita, contrapporsi alla Falange Libanese cristiana; approfittarono della guerra civile sia i vicini siriani, per il progetto della Grande Siria di Hafiz al-Assad, sia gli USA promotori dell’imperialismo israeliano, con le IDF che invasero il sud del paese e cinsero d’assedio Beirut nel 1978, subendo una sonora sconfitta, ciononostante continuando a promuovere stragi dei palestinesi rifugiati nel paese. Terminato il conflitto con una pacificazione con la Siria e il ridimensionamento di Israele, il Libano si è configurato negli ultimi trent’anni come un paese conveniente agli affaristi stranieri, grazie al suo sistema bancario molto flessibile – basato sulla convivenza tra sterlina e dollaro, usate entrambe disinvoltamente, col cambio valuta gestito dalle banche commerciali locali – e ai tassi d’interesse alti per i depositari stranieri di grandi capitali, oltre a una legge che garantisce il segreto sulle operazioni bancarie. Per non parlare del vasto bacino di idrocarburi che si trova nelle acque territoriali libanesi.
Sul piano politico il Libano costituisce un vero e proprio unicum, in cui il meccanismo della rappresentanza si è adattato al settarismo divisivo che caratterizza la cultura politica della nazione. Nel simbolico parlamento monocamerale con 128 seggi, si sono succeduti per lo più i generali protagonisti della guerra civile, che ancora oggi gestiscono la politica del paese, succedendosi quasi a turno nell’occupazione delle più alte cariche della repubblica, nella quale vigono leggi non scritte di compromesso religioso, come quella secondo la quale il primo ministro deve essere un capo musulmano sunnita. Democraticamente fragile ed economicamente vantaggioso, il Libano – sebbene da sempre inviso a Israele, che confina a sud e gli fa continue pressioni territoriali, anche sul mare per fare bottino nelle acque libanesi – può contare nei primi venticinque anni post-guerra civile sul supporto economico di Washington e Riyadh, che hanno interesse a tenere a bada il panarabismo siriano. L’asse inizia a spostarsi tuttavia nel 2005, quando l’ex generale Michel Aoun, tornato in Libano dopo quindici anni di esilio, si oppone alla “Rivoluzione del Cedro” tentativo di rivoluzione colorata che contestava la presenza militare siriana nel Libano e strinse saldi rapporti con Hezbollah e Amal. Dal canto suo Hezbollah – forza di resistenza a Israele e Stati Uniti nata col supporto dell’Iran durante la guerra civile e storica continuatrice dell’OLP – assume sempre più consensi tra il popolo, soprattutto dopo la seconda guerra israelo-libanese del 2006, in cui riesce a contenere le spinte espansioniste di Tel Aviv sul Libano meridionale. La guerra crea un clima di maggiore radicalismo anti-occidentale, e l’alleanza tra il Movimento Patriottico Libero di Aoun, Hezbollah e AMAL – acrostico di Afwāj al-Muqāwama Al-Lubnāniyya, “Distaccamenti della Resistenza Libanese” movimento nato anch’esso con la guerra civile, nel gennaio 1975 – crea un fronte di opposizione alle ingerenze occidentali che nel 2011 spinge alle dimissioni il governo di Saʿd al-Dīn Ḥarīrī – figlio ed erede politico del presidente assassinato sei anni prima, e alla cui morte era scoppiata la Rivoluzione del Cedro – accusato di aver allestito un Tribunale Speciale del Libano con il supporto occulto di americani e israeliani, formalmente per investigare sull’assassinio del padre, in realtà per perseguire personalità invise agli interessi anglo-sionisti nel paese. Così, a partire dal neo-eletto esecutivo di Najīb ʿAzmī Mīqātī, MPL e Hezbollah divengono presenza fissa nei succedanei schieramenti di governo, ma proprio quello stesso anno inizia l’operazione Daesh, che porta alla guerra civile siriana: la crisi nera in cui sprofonda Damasco, la chiusura delle frontiere (la Siria è l’unico stato a confinare col Libano, oltre a Israele) e le sanzioni al governo di Bashar al-Assad si ripercuotono fortemente su Beirut, che inoltre, essendo blindata ai profughi la frontiera turca, ospita un milione e mezzo di profughi siriani, sostenuta formalmente dalle Nazioni Unite. Le sanzioni causano un enorme incremento dei prezzi, ad esempio il combustibile per i generatori di corrente che schizza da 0,75 a 6 sterline al litro. La disoccupazione nel paese sale in pochi anni al 20%, e qui inizia la crisi economica del Libano, tagliato fuori a causa della guerra dalle relazioni commerciali e solidali non solo con la Siria, ma anche con il prezioso alleato Iran. Le banche commerciali del paese, d’accordo con Washington, chiudono sempre progressivamente il rubinetto dei dollari, dando inizio alla svalutazione della sterlina libanese che, sebbene sul sito ufficiale della Banque du Liban continui a essere al tasso fissato nel 1997, viene cambiata dalle banche a quote più alte, fino a 4000:1 – dato importantissimo, che fa crollare la tesi di tutti gli analisti odierni, secondo i quali la svalutazione sarebbe stata attuata dalla Banca Mondiale dopo il default del paese. Già nel 2019 i cittadini libanesi iniziano a vivere le prime restrizioni bancarie, ancora blande, e chi ha i conti in dollari è soggetto a limiti di prelievo, mentre i correntisti in valuta locale sono improvvisamente più poveri. L’isolamento acuisce l’instabilità politica, in quanto il sistema parlamentare farraginoso e settario del paese rende difficile la durata di un esecutivo, e ancor di più la sua formazione. Come se non bastasse, nel 2016 l’Arabia Saudita decide di interrompere i finanziamenti di 4 miliardi di dollari destinati al paese, e si rende protagonista di un tristo episodio denunciato addirittura in un rapporto dell’ONU: nel novembre 2017 viene convocato a Riyadh il presidente libanese Saʿd al-Dīn Ḥarīrī, che da poco più di un anno ha iniziato il suo secondo mandato. Stranamente, proprio da lì annuncia le sue dimissioni, poi prontamente revocate, e il motivo di questo strano comportamento è scritto nel rapporto delle Nazioni Unite, secondo il quale Ḥarīrī è stato umiliato verbalmente e picchiato dopo essere stato stato rapito e portato all’hotel Ritz-Carlton di Riyadh, dove è stato interrogato e sottoposto a trattamenti «crudeli, inumani e degradanti». Non ci è dato sapere con quali compitini sia stato rimandato a casa il malcapitato, ma un episodio del genere avrebbe dovuto come minimo causare un incidente diplomatico, se il Libano non fosse stato un paese a tutti gli effetti vassallo. A confermarlo sono le politiche del secondo governo Ḥarīrī, che nel 2019 progetta una serie di misure di austerità che fanno infuriare il popolo libanese: la goccia che fa traboccare il vaso è la proposta di una tassa sulle chiamate WhatsApp, che scatena il 17 ottobre la rabbia di un popolo che vede il proprio futuro sempre più minacciato, e che porterà nei successivi quattro mesi a violente rivolte con due morti e circa cinquecento feriti. Sebbene si elevino da tutte le fazioni cori in favore di una riforma strutturale del paese, vi sono troppi interessi incancreniti: la classe politica post-guerra è fatta di piccoli oligarchi parassitari, arricchitisi sulle finanze pubbliche ingrassate soprattutto dall’estero, e a nessuno di loro conviene intaccare il sistema dei grandi capitali da cui essi stessi dipendono. Si creano due blocchi distinti: da una parte, i riformisti, contrari alla formazione di un nuovo governo perché conoscono i tempi libanesi per la formazione di un nuovo esecutivo e temono il prolungarsi ad libitum dell’instabilità, capeggiati da Hezbollah, che si schierano con le proteste e chiedono attraverso il leader Hasan Nasr Allah una riforma strutturale che elimini la corruzione endemica della classe politica. Dall’altro lato, il ministro degli Esteri libanese Gebran Bassil mette in guardia il governo da una “quinta colonna” che cerca di provocare ulteriori tensioni per cavalcarle politicamente, mentre il leader del Partito Arabo Tawhid We’am Wahhab dichiara che “elementi stranieri” stanno cercando di fare pressione sul primo ministro Ḥarīrī perché si dimetta e sciolga il governo. Si tratta in primis degli Stati Uniti, che lavorano alacremente affinché il Libano non abbia un governo stabile, cosa che minerebbe i propri interessi in Siria e favorirebbe Hezbollah e di conseguenza l’alleato iraniano. Sotto il governo Trump gli USA decidono di tagliare i 160 milioni di dollari di fondi annuali all’esercito libanese, con il pretesto non celato di non foraggiare Hezbollah con le proprie donazioni. Israele, dal canto suo, dal 2019 viola lo spazio aereo libanese quasi quotidianamente, quest’anno ha iniziato a contendere allo stato vicino i giacimenti off-shore di Qana-Sidon (vicenda che approfondiremo prossimamente) e ha tutto l’interesse in un Libano debole, così da interrompere il flusso di aiuti che da lì arriva alla striscia di Gaza ed eliminare in maniera netta e definitiva Hezbollah. Quest’ultimo però ha mantenuto intatta la sua reputazione, rifornendo di carburante la popolazione coi cargo inviati da Teheran (il che potrebbe spiegare anche i recenti sequestri di navi iraniane compiuti nel Mar Nero da parte degli USA), che ha rifornito Hezbollah anche di dollari, con cui ha potuto pagare la maggior parte degli stipendi dei propri affiliati.
Tra i politici libanesi fermi sostenitori del cambio di governo vi è Samir Geagea, leader del blocco parlamentare delle Forze libanesi, che ordina ai suoi quattro ministri di dimettersi. Noto nel paese per gli stretti legami con Washington e Riyadh, accusato di essersi alleato con Israele durante la guerra civile e aver favorito il massacro di Sabra e Shatila a Beirut, che portò alla morte di circa 3.500 civili sciiti palestinesi e libanesi, riconosciuto colpevole nel 1994 di aver ordinato, in collaborazione con l’intelligence israeliana, quattro omicidi politici e quindi tenuto in isolamento in una cella sotto l’edificio del ministero della Difesa libanese a Beirut fino al 2005, anno del suo rilascio. Un altro sostenitore delle dimissioni di Ḥarīrī è il leader del Partito socialista progressista libanese Walid Jumblatt, che ritira i suoi due ministri, si è schierato con il Fronte al-Nusra, alleato con l’ISIS, durante la guerra civile siriana, ed è per questo accusato di collaborare con sauditi e sionisti contro Assad. Alla fine i dimissionisti hanno la meglio, e il 29 ottobre il paese è nuovamente senza un governo. Per far fronte alla crisi, Michel Aoun, che dal 2016 è presidente del Libano, dà mandato il 19 dicembre al ministro dell’istruzione Hassan Diab di formare un nuovo esecutivo, che si insedierà il 22 gennaio del 2020.
Diab, in un tentativo di rompere i vecchi schemi, ma non troppo, forma un governo di tecnici, con il quale elabora quello che verrà battezzato dalla stampa locale come “piano Lazard”, così denominato dalla banca americana che ha assistito il governo libanese nella sua realizzazione: il 7 marzo del 2020 il primo ministro dichiara l’insolvenza del suo paese rispetto alla prima rata di un Eurobond da 1,2 miliardi di dollari, invocando l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale per il Libano. Il piano valutava le perdite a 69 miliardi di dollari, di cui 44 miliardi di perdite nette combinate tra la Banque du Liban e le banche commerciali, e dava priorità alla protezione dei conti di piccole e medie dimensioni a scapito dei grandi depositi. Secondo quanto dichiarato da una fonte interna a The National, “tutti i depositi inferiori a 500mila dollari avrebbero potuto essere preservati all’epoca, consentendo in sostanza a molti libanesi di non subire il peggio della crisi. Ai proprietari di grandi depositi sarebbero state offerte diverse opzioni, tra cui la conversione di parte dei loro depositi in capitale della banca. Si riteneva che questi grandi depositanti avessero beneficiato di interessi eccessivi, che raggiungevano il 15-20%”. Il primo maggio il governo Diab presenta il piano al FMI con una richiesta d’assistenza firmata. Come prevedibile, il piano viene rigettato in toto dall’Association Des Banques Du Liban, che cura gli interessi delle banche commerciali, secondo cui si tratta di un piano “parziale a scapito delle banche” e fa al governo la contro-proposta di mettere in vendita 40 miliardi di dollari del patrimonio pubblico libanese. La proposta dell’ABL viene sostenuta da una apposita commissione parlamentare d’inchiesta, che comprende esponenti di tutti i partiti politici – il presidente è Ibrahim Kanaan, del Movimento Patriottico Libero del Presidente Michel Aoun, tra i membri c’erano Nicolas Nahas, vicino all’attuale primo ministro Najib Mīqātī, Ali Fayyad di Hezbollah, Yassine Jaber e Ali Hassan Khalil di AMAL, Eddy Abi Lamaa delle Forze Libanesi e Faysal Sayeg del Partito Socialista Progressista – e il cui operato sbugiarda completamente chiunque di loro si sia schierato con le proteste popolari. La commissione dimezza la stima del default del piano Lazard, consentendo alle banche di rimanere solvibili e conservare parte del proprio capitale, e così i partiti uniti fanno fronte comune per evitare di intaccare il sistema che foraggia i loro privilegi di casta e il sistema clientelare consolidato in trent’anni. Così, tutto si risolve in un nulla di fatto, la situazione valutaria precipita a causa della dichiarazione di default, portando il cambio a 6000:1, intanto alla crisi si aggiungono le serrate dell’operazione Covid e ai libanesi non resta che protestare: a Tripoli un ragazzino perde la vita durante la serie di violenti scontri che scuotono il nord del Libano, la zona del paese più colpita dalla crisi. A luglio, il Fondo Monetario Internazionale sospende le contrattazioni col Libano, e il 4 agosto la ciliegina: qualcuno piazza bombe sotto 560 tonnellate di nitrato di ammonio, causando un’immane esplosione che devasta il porto di Beirut, uccidendo circa duecento persone e facendo scomparire tutti i silos contenenti le scorte di cereali importate, inizia così la crisi del pane, le lunghissime code ai forni e la crisi economica diviene fame. In pochi mesi, il 75% della popolazione scende sotto la soglia di povertà, e la sterlina si svaluta del 70%, e anche Hassan Diab si dimette.
A gennaio 2021 il deficit raggiunge i 72 miliardi e riprendono i negoziati con il FMI, che chiede al Libano il solito pacchetto di riforme: una ristrutturazione del settore finanziario che affronti le “grandi perdite” e unifichi i numerosi tassi di cambio del Paese, una “appropriata risoluzione di emergenza delle banche”, una riforma della legge libanese sul segreto bancario, l’approvazione da parte del Fondo del bilancio 2022. In cambio, sosterrà il paese con 3 miliardi di dollari in quattro anni. Il vice primo ministro del governo uscente Saadeh Al Shami si è fatto carico della trattativa con il Fondo, e ha proposto un secondo piano di risanamento dell’economia che prevedeva un audit (ovvero una revisione contabile e legale dei conti di una banca da parte di una società indipendente) delle 14 maggiori banche libanesi. Quelle che risultate redditizie sarebbero state ricapitalizzate con “contributi significativi” da parte degli azionisti e dei grandi depositanti. Oltre a ciò, un audit completo delle finanze della banca centrale da completare entro luglio. Gran parte degli obblighi in valuta estera della banca centrale nei confronti delle banche commerciali sarebbero stati cancellati, e le banche “non vitali” chiuse entro novembre. Inoltre, i fondi della Banque du Liban – ridotti all’epoca a 10 miliardi di dollari – avrebbero potuto preservare i depositi inferiori a 100mila dollari. Anche questa proposta viene rigettata dall’ABL secondo la quale il piano di al Shami “assolve lo Stato e la Banque du Liban dai loro obblighi di pagare i debiti”, portando anche questo piano in un nulla di fatto, e ribadendo la propria disponibilità a costituire un fondo che gestisca i beni dello stato.
A maggio vi sono le elezioni meno partecipate della storia del Libano, che portano alla formazione di un nuovo governo di Najib Mīqātī, oggi alle prese con la guerra d’Ucraina, che ha dato il colpo definitivo all’economia del paese: il Libano infatti foraggia il proprio fabbisogno di cereali quasi interamente dall’Ucraina, e il blocco delle navi – neanche risolto dagli accordi di Istanbul, in quanto le navi sono state bloccate nuovamente e dirottate altrove in barba a tutti i contratti firmati dal Libano – ha portato la crisi alle conseguenze estreme che vediamo oggi: le banche, a fronte dell’ondata di assalti sempre più frequenti, sono state chiuse a tempo indeterminato, e il popolo libanese, che è troppo allo stremo ormai anche per ribellarsi come ha fatto tre anni fa, non ha altra scelta, come durante gli anni della guerra civile, che avviare un nuovo esodo e lasciare la propria terra alle fauci delle caste politiche interne, che si tengono strette le briciole lasciategli dai grossi avvoltoi americani, sauditi e israeliani.
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