Giuseppe Russo
Avanti.it
Domenica 10 luglio 2022 si sono tenute in Giappone le elezioni per il rinnovo parziale della Camera Alta (il “Senato” giapponese). Il Partito Liberal Democratico, una sorta di nipponica “balena bianca” al governo quasi ininterrottamente dalla fine della II Guerra Mondiale, ha incrementato la sua maggioranza raggiungendo, assieme ai partner del partito conservatore Komeito ed alla destra “populista” del Partito dell’Innovazione, fuori dall’esecutivo ma favorevole alle riforme costituzionali, quella maggioranza qualificata che gli permetterà di portare avanti il progetto di riscrittura dell’articolo 9 della Costituzione, quello che vieta all’esercito giapponese qualunque operazione militare al di fuori dei confini del paese. Tutte le opposizioni sono state ridimensionate, dai moderati del Partito Costituzionale Democratico ai comunisti, fatta eccezione per la “giovane” forza di radicale opposizione all’establishment Reiwa Shinsengumi, fondata dall’attore ed ex consigliere comunale di Tokio Taro Yamamoto, che ha raddoppiato sia i voti che i seggi.
La vittoria dei liberal democratici è maturata in una cornice tragica: due giorni prima, l’ex primo ministro e storico leader del partito Shinzo Abe era stato assassinato nella città di Nara, durante un comizio, in circostanze a dir poco controverse. Ad essere immediatamente arrestato ed incriminato per l’attentato è stato Tetsuya Yamagami, un ex militare che avrebbe agito per motivi “personali” più che politici: colpendo Abe, avrebbe inteso consumare la sua vendetta contro la Chiesa dell’Unificazione del reverendo Moon, setta parareligiosa a cui il politico assassinato era molto legato. In quello che è stato il più grave delitto politico della storia del Giappone, le indagini si sono consumate in un lampo: l’arma del delitto è un’improbabile “fucile fai-da-te” costruito dallo stesso attentatore (altri congegni simili sarebbero stati poi rinvenuti nel suo appartamento), mentre il movente risiederebbe in una cospicua donazione che la madre di Yamagami aveva fatto alla Chiesa di Moon, mandando così in rovina tutta la famiglia. Il sipario è immediatamente calato sulla vicenda, e nelle ore immediatamente successive, a ridosso delle elezioni, è stata trasmessa a reti e testate unificate l’agiografia di Shinzo Abe, depurando la sua immagine di tutte le ombre e le smagliature. La stessa Chiesa dell’Unificazione, dopo aver pur ammesso di aver ricevuto la donazione incriminata, è sparita dai radar, e nei reportage viene pudicamente descritta come “il gruppo”.
La Chiesa dell’Unificazione (dal 1996 ufficialmente nota come “Federazione delle Famiglie per l’Unità e la Pace nel Mondo”) è un culto sincretico che assimila Cristianesimo, Confucianesimo ed elementi di spiritualità tradizionale coreana. Fondata nel 1954 in Corea del Sud dal reverendo Sun Myung Moon, la Chiesa inviò i suoi primi missionari all’estero alla fine degli anni ’50, attecchendo poi in due paesi su tutti, Giappone e Stati Uniti. La filiale giapponese ha da tempo superato la casa madre coreana in quanto a numero di adepti e potenziale economico: presa in mano da boss della Yakuza ed alti papaveri del Partito Liberal Democratico già a partire dagli anni ’60 e gestita come un’azienda che opera aggressivamente in un mercato in espansione, la Chiesa dell’Unificazione si è resa protagonista negli ultimi anni di una serie di martellanti campagne di “marketing spirituale” in cui sono state scientificamente prese di mira vedove benestanti allo scopo di estorcere loro ingenti somme con l’assicurazione di salvare i cari defunti dalle fiamme dell’Inferno. La setta è divenuta col tempo il braccio “religioso” della fazione più revanscista, militarista e criminale del PLD, il partito-regime che da sempre governa il Giappone per conto degli USA. La commistione fra politica e “nuovi movimenti religiosi” è un tratto fondante della politica giapponese: lo stesso partito Komeito, partner governativo dei liberal democratici, è storicamente espressione del movimento di matrice buddhista “Soka Gakkai”, e diversi deputati, anche al di fuori dell’area di governo, devono le loro fortune all’appoggio di qualche gruppo, setta, conventicola.
Shinzo Abe è stato, anzitutto per tradizioni familiari, diretta espressione di quel milieu in cui si ritrovano leader politici, organizzazioni criminali e sette parareligiose in nome del nazionalismo giapponese e della tutela degli interessi delle grandi corporation che dominano la vita economica del paese del Sol Levante, universo che ha trovato compiuta espressione nell’organizzazione “Nippon Kaigi”, fondata nel 1997 come think tank di riferimento della destra liberal democratica.
A questa tradizione è associabile anche il nonno materno di Abe, l’iniziatore della sua dinastia, Nobusuke Keshi: alto funzionario nella Manciuria occupata dalle truppe nipponiche negli anni ’30 (vi si guadagnò l’appellativo di “Mostro dell’era Showa”), imprigionato e poi riabilitato dagli americani alla fine della guerra, fu poi promosso, dopo una rapida carriera all’interno del Partito Liberal Democratico, primo ministro nel 1957. Durante il suo mandato fu discussa la revisione del trattato di pace con gli USA, che sanciva un’umiliazione per il Giappone: travolto dalle proteste di piazza, Keshi si dimise nel giugno 1960, subendo pochi giorni dopo un attentato al quale, a differenza di suo nipote, sopravvisse.
Durante i suoi quattro mandati da capo del governo, Abe aveva articolato tutta la sua politica estera in chiave di contenimento della potenza cinese, fungendo da punto di riferimento per gli interessi geopolitici americani nel Pacifico. Il suo capolavoro in tale direzione era stata l’istituzione del “Quad” (Quadrilateral Security Dialogue) nel 2007, un “forum inter-governativo” (di fatto, un’alleanza militare “informale”) fra Giappone, USA, Australia e India. All’ombra di questa “piccola NATO” , Abe ha portato avanti la sua politica di riarmo, muovendosi per la modifica del già citato articolo 9 della Costituzione nipponica, che impone rigorose limitazioni all’esercito, provando in altre parole a realizzare quello che è da sempre il sogno proibito dei circoli revanscisti e imperialisti dai quali proviene. Per aggirare alcune norme costituzionali, Abe ha fatto ricorso a discutibili escamotage, come quando sono state varate due navi “portaelicotteri” che sono in realtà portaerei attrezzate per fare quello che non potrebbero, ovvero svolgere operazioni militari lontano dalle acque territoriali giapponesi. Per supportare il suo disegno, Abe si è reso protagonista di un’invasiva campagna di revisionismo storico atta da un lato a minimizzare la portata dei crimini di guerra perpetrati dai giapponesi in Cina, Vietnam, Corea, Indonesia e Filippine (in primis quelli del suo antenato Keshi, riabilitato come un padre della patria) e dall’altra ad accreditarsi come improbabile punto di riferimento di una “decolonizzazione asiatica” che nasconde in realtà la volontà di riacquisire le posizioni perdute a vantaggio della Cina. Pur giocando sempre all’ombra del padrone a stelle e strisce, Abe aveva saputo costruire ponti di dialogo con la Russia, soprattutto in merito alla risoluzione di alcune dispute territoriali fra i due paesi e, dopo le sue dimissioni da primo ministro di un anno fa, era accreditato fra i più restii, all’interno del Partito Liberal Democratico, ad assecondare il bellicismo russofobico degli Stati Uniti.
Questo il contesto in cui è maturato il delitto Abe e in cui si sono svolte le successive elezioni: il Giappone si attrezza per la guerra in uno scenario sinistro che sa tanto di déjà vu novecentesco.
Guglielmo dice
Quindi, sembra più un assassinio politico di chi si oppone alla scellerata guerra Usa che un fatto di carattere semplicemente di politica locale