Giuseppe Russo
Avanti.it
La Bosnia-Erzegovina è uno stato fantoccio che esiste solo sulle carte geografiche o nelle competizioni sportive internazionali. Ottenuta una formale indipendenza all’indomani degli accordi di Dayton del 1995, dopo la sanguinosa guerra triennale che ne aveva flagellato il territorio, producendo centomila morti e due milioni di sfollati, quella che fino al 1992 era stata la Repubblica Socialista di Bosnia ed Erzegovina nell’ambito della federazione jugoslava, è diventata un regime fondato sulla separazione dei gruppi etnici che la compongono da un lato, sulla corruzione dall’altro. Gli accordi sottoscritti a Dayton, negli USA, dalle autorità bosniache, serbe e croate con la decisiva “mediazione” delle potenze occidentali, le cui iniziative diplomatiche prima e militari poi erano state decisive per lo smembramento della Jugoslavia, hanno prodotto quel groviglio di mostruosità istituzionali che è oggi la Bosnia, paese nel quale tutte le cariche istituzionali sono rigorosamente tripartite su base etnica, a partire dalla presidenza della repubblica, ufficio per il quale vengono eletti separatamente un rappresentante della comunità “bosgnacca” (definizione coniata in epoca postjugoslava per i bosniaci di religione musulmana, prevalenti nella parte centrale e nell’estremità nord-occidentale del paese), uno di quella croata ed uno di quella serba. A livello amministrativo, la Bosnia-Erzegovina costruita dall’Occidente è divisa in due entità distinte: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, nella quale convivono, avendo comunque istituzioni distinte, croati e musulmani, e la Repubblica Sprska controllata dai serbo-bosniaci, stato nello stato che ha giurisdizione sulle due aree a maggioranza serba, nel Nord e nel Sud. Il potere politico nella neonata repubblica è stato consegnato agli apparati dei partiti costituiti su base “etnica”, ovvero l’Unione Democratica Croata di Bosnia ed Erzegovina, il Partito Democratico Serbo ed il Partito di Azione Democratica in rappresentanza dei “bosgnacchi”. La nomenklatura di queste tre formazioni, assai più simili a clan paracriminali che a partiti nel senso occidentale del termine, si è incistata nel ventre dello stato fino a controllarne ogni ambito. Il potere reale dei vari cacicchi non è determinato dall’esito delle elezioni, ma dal controllo degli apparati polizieschi o giudiziari: frequenti, nella storia degli ultimi vent’anni, sono state le faide politiche combattute attraverso indagini e sentenze di magistrati nominati dai partiti stessi. Tutti i governi che si sono succeduti, costituiti a loro volta su base “etnica” e non su maggioranze parlamentari, si sono sviluppati all’insegna dell’immobilismo, lasciando prosperare nella corruzione i capiclan. A vigilare sugli accordi e sulla stagnazione politica, la figura esterna dell’Alto Rappresentante per la Bosnia e l’Erzegovina , una sorta di luogotenente, nonché garante degli interessi occidentali, che ha la facoltà di rimuovere ministri e presidenti, come è già capitato nel 2001, quando l’austriaco Wolfgang Petritsch si adoperò per rimuovere dalla carica il capo dello stato di parte croata Ante Jelavić. I fronti “etnici” si sono evoluti negli anni in fronti “geopolitici”, con croati e musulmani a sposare i progetti di “integrazione europea”, mentre i serbi li boicottavano appoggiandosi alle cavillose clausole degli accordi di Dayton e sviluppando una propria politica estera in chiave panslavista e filorussa. Oggi la Bosnia-Erzegovina è fra i paesi europei che non hanno applicato il regime di sanzioni alla Russia predisposto dalla “comunità internazionale” in virtù del potere di veto esercitato, già dalla prima crisi in Donbass del 2014, dal presidente di parte serba Milorad Dodik, che ha più volte rivendicato la sua amicizia con Vladimir Putin.
Milorad Dodik, dopo un complesso quadriennio in cui ha ricoperto l’incarico di presidente da “separato in casa” rispetto agli omologhi croato e musulmano, è stato eletto alle consultazioni del 2 ottobre scorso presidente della Repubblica Sprska, carica che aveva già ricoperto dal 2010 al 2018, con l’intenzione di promuoverne la secessione. Giunto al potere una prima volta dodici anni fa a capo dell’Alleanza dei Social Democratici Indipendenti, che è stata in grado di scalzare dal potere i nazionalisti “storici” del Partito Democratico Serbo, Dodig ha portato avanti un nazionalismo ancor più radicale dei suoi predecessori, giungendo fino a rivendicare per sé l’eredità di Radovan Karadžic e delle sue milizie che funestarono la Bosnia durante la guerra del 1992-95. Dodik non ha mai riconosciuto, ad esempio, la validità della legge che sancisce l’obbligo, pena l’imputazione per “negazionismo”, di definire come un “genocidio” la strage di Srebrenica del 1995, ovvero uno dei più controversi episodi delle guerre nella ex Jugoslavia, attivandosi anche per far annullare la legge da uno dei parlamenti della Repubblica Sprska controllati dal suo partito. Più volte chiamato alle sbarra in processi per corruzione ai quali non si è mai presentato ed oggetto di sanzioni da parte americana, Milorad Dodig ha fatto parlar di sé in Occidente in occasione della partecipazione al forum economico di San Pietroburgo, il 16 giugno scorso, quando il presidente russo lo ha descritto come uno dei migliori amici di Mosca. Da leader dei serbi di Bosnia, Dodig aveva stipulato con Putin un accordo per la costruzione di un gasdotto che avrebbe portato il gas direttamente a Banjaluka, la capitale di fatto della Repubblica Srpska, ma il progetto è stato boicottato dalle autorità centrali, ed egli ha replicato alzando il livello dello scontro: prima ha minacciato di ritirare i rappresentanti serbi dall’autorità fiscale nazionale e dall’esercito, poi ha invitato tutti i serbo-bosniaci a sabotare le istituzioni statali. In questo scenario, l’Alto Rappresentante Christian Schmidt, un tedesco in carica dall’agosto 2021, già più volte ministro nei governi Merkel, è intervenuto dopo le ultime elezioni, mentre era ancora in corso lo spoglio, per annunciare una riforma della legge elettorale che, aumentando il numero dei delegati per ciascuna nazionalità, cristallizza la divisione del paese su base etnica, favorendo di fatto la parte croato-musulmana più vicina alle istanze dell’Occidente. La Commissione europea, dal canto suo, ha gettato ulteriore benzina sul fuoco, raccomandando di concedere alla Bosnia-Erzegovina lo status di paese candidato ad entrare nell’UE, nonostante i quattordici obiettivi per l’adesione individuati nel 2019 siano lontani dall’essere raggiunti ed il governo centrale eserciti la sua autorità solo su una parte del territorio.
Quello bosniaco minaccia di diventare il secondo fronte nel quale si consuma il braccio di ferro fra la Russia e l’Occidente; fino ad ora, fra le parti è stata “guerra fredda”, come in occasione dell’insediamento di Schmidt, nell’estate scorsa, poco prima della quale la diplomazia russa aveva provato, supportata da quella cinese, a far pronunciare il Consiglio di Sicurezza dell’ONU a favore della soppressione della figura dell’Alto Rappresentante per la Bosnia e l’Erzegovina. Pur essendo stata respinta, la proposta aveva legittimato il governo russo a non riconoscere Schmidt come plenipotenziario della comunità internazionale in Bosnia, facendo sì, inoltre, che i rapporti semestrali delle Nazioni Unite sulla questione bosniaca non menzionassero più l’Alto Rappresentante, il quale si trova quindi ad operare per conto delle sole potenze occidentali. Questa soluzione di compromesso è stata raggiunta dopo il cedimento della Russia rispetto all’estensione, fino al prossimo mese di novembre, del mandato della “forza di pace” guidata dalla NATO e dall’Unione Europea, quell’EUFOR che ha visto i suoi effettivi aumentare a 1100 unità dopo l’inizio del conflitto in Ucraina, in quella che è stata una palese violazione degli accordi ed un’ulteriore dimostrazione che le truppe della “missione di pace” agiscono come forza di occupazione militare della Bosnia-Erzegovina, stato-fantoccio dato in subappalto ai clan “nazionalisti”. La guerra incombe su un paese sull’orlo del collasso socio-economico, con un’inflazione che ha raggiunto la doppia cifra durante l’estate e con una parte consistente della popolazione che si prepara ad emigrare dopo che già mezzo milione di cittadini, secondo una stima approssimata al ribasso, hanno lasciato la Bosnia-Erzegovina nell’ultimo decennio. Gli stessi servizi pubblici essenziali, dalle scuole alla nettezza urbana, sono in mano alle cricche “nazionaliste” sopra descritte: celebre è il caso della città di Mostar, rimasta per dodici anni senza amministrazione comunale poiché croati e “bosgnacchi” non riuscivano ad accordarsi sulla ripartizione delle cariche pubbliche ed il cui circondario è costellato da discariche abusive. Cent’anni e passa fa fu proprio a Sarajevo, allora parte dell’Impero austro-ungarico, oggi capitale di uno stato che non esiste, che scoppiò la scintilla della Prima Guerra Mondiale. A novembre scadrà la proroga della “missione di pace” accettata con riluttanza dalla Russia nell’ambito dello scontro diplomatico consumatosi alle Nazioni Unite: qualunque ulteriore proroga verrebbe considerata alla stregua di un atto di guerra. La Bosnia-Erzegovina, oggi come nel 1914 o nel 1992, è una polveriera pronta ad esplodere.
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