Giuseppe Russo
Avanti.it
Le elezioni del 25 settembre 2022 segnano il ritorno in Parlamento dei Verdi italiani dopo quattordici anni di assenza. L’ultima occasione in cui il movimento del “sole che ride” era riuscito ad eleggere rappresentanti nei palazzi romani era stata nel 2006, quando si era presentato all’interno dell’Unione guidata da Romano Prodi. L’alleanza elettorale con Sinistra Italiana di Nicola Fratoianni ha agilmente superato la soglia del 3%, ottenendo poco più di un milione di voti alla Camera e poco meno al Senato: dodici deputati e quattro senatori il “bottino” delle recenti consultazioni, pur nell’ambito di un risultato catastrofico per la coalizione di centrosinistra. Sfruttando l’onda lunga del movimento “gretino” dei Fridays for Future, che ha tenuto una serie di manifestazioni nel quadro dello “sciopero per il clima” del 23 settembre (cortei ai quali gli esponenti di Verdi e Sinistra Italiana hanno partecipato, ma “senza bandiere”), e la sovraesposizione mediatica ad esso legata, la lista è riuscita a fare breccia nell’opinione pubblica, soprattutto al Nord e nelle città maggiori. A livello regionale, solo in Abruzzo, Campania, Calabria e Sicilia il risultato è stato inferiore al 3%, mentre in Toscana si è sfiorato il 5% ed in Trentino-Alto Adige, visto il peso dei Verdi del Sudtirolo, che rappresentano un’entità a sé stante, si è ottenuto il risultato migliore con il 5,9%. Fra le principali aree urbane, la percentuale migliore è stata quella di Cagliari, dove si è raggiunta la doppia cifra, principalmente in virtù dell’apporto dell’ex sindaco Massimo Zedda, oggi capo dell’opposizione in consiglio regionale e fondatore del Partito Progressista. Altrove, a Bologna e Firenze i “rosso-verdi” sono quasi all’8%, a Milano e Torino poco sopra il 6, a Roma al 5 scarso: in alcune realtà, come quella sarda, è maggiore il peso della componente “rossa” dell’alleanza, in altre prevale nettamente quella “verde”, come nelle ZTL dei centri cittadini. Infatti, pur avendo portato alla Camera l’ex sindacalista dei braccianti Aboubakar Soumahoro e pur dedicando pagine e pagine del programma alla “giustizia sociale”, è nelle zone ad alto reddito che l’alleanza Verdi – Sinistra Italiana raggiunge i risultati migliori, come attestato da un’indagine IPSOS sui cosiddetti “flussi elettorali”, in base alla quale la lista “rosso-verde” avrebbe ottenuto il 5,6% fra i cittadini di condizione economica “elevata” (appena il 2,1% fra quelli di fascia “bassa”), spopolando pure nel segmento sociologico degli studenti, che avrebbero premiato la formazione con il 9% dei suffragi (a fronte di un 2% degli operai).
Tale dato potrebbe sorprendere solo i più sprovveduti: i Verdi sono, in tutti i paesi occidentali in cui hanno attecchito, il partito dei ricchi “coscienziosi”. In Germania, che è un po’ la casa madre del movimento, in base ad un’indagine del Deutschen Instituts für Wirtschaftsforschung, l’Istituto tedesco per la ricerca economica, essi otterrebbero i consensi maggiori fra il 10% più ricco della popolazione, mentre in Francia, dove alle ultime elezioni comunali gli ambientalisti hanno conquistato, fra gli altri, i comuni di Marsiglia, Lione, Bordeaux e Strasburgo, proverbiale è la loro popolarità presso i cosiddetti bobos, i borghesi “bohemienne” che vivono nelle aree “gentrificate” delle città. In Italia, per rendere l’idea, fra gli esponenti di spicco della Federazione dei Verdi nella Seconda Repubblica vi erano Milly Moratti, moglie del petroliere ed ex presidente dell’Inter Massimo e più volte consigliera comunale a Milano, e il marchese Carlo Ripa di Meana, che dei Verdi italiani fu anche portavoce nazionale dal ’93 al ’96. Quella del “sole che ride” nel nostro paese è una storia figlia del riflusso degli anni ’80, quando la generalizzata “fuga nel privato” determinò nuove forme di impegno politico nate sulle ceneri del “movimentismo” degli anni ’70. Le liste “verdi” si affacciarono sulla scena politica partecipando alle elezioni amministrative del 1983, sulla scia delle battaglie contro la presenza delle centrali nucleari e dei successi degli omologhi tedeschi, i quali erano riusciti ad entrare in Parlamento proprio nelle elezioni federali dello stesso anno. La culla del movimento in Italia è l’Alto Adige, dove le prime liste di ispirazione ecologista sorsero già alla fine degli anni ’70, mentre i primi tentativi di dare vita ad un soggetto unitario sul piano nazionale risalgono al 1981; tuttavia, è solo con l’incontro di Finale Ligure del novembre 1986 che nasce ufficialmente la Federazione delle Liste Verdi, dopo il “boom” delle elezioni regionali dell’anno prima. L’epoca d’oro dei Verdi italiani matura negli anni della travagliata transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica: nel 1987 si registra l’elezione dei primi deputati e senatori, due anni dopo alle europee le due liste ambientaliste presenti totalizzano oltre due milioni di voti, nel 1993 l’allora “verde” Francesco Rutelli diventa sindaco di Roma con l’appoggio di tutta la sinistra. A quel tempo risale una frase attribuita a Giulio Andreotti: “I Verdi sono come cocomeri: verdi fuori, ma rossi dentro”, chiara allusione al personale politico che animava le prime esperienze ecologiste, proveniente in larghissima parte dalla sinistra extraparlamentare o da Democrazia Proletaria. Durante gli anni dell’insorgente berlusconismo, i Verdi furono componente (minoritaria) di tutte le coalizioni che al Cavaliere si contrapposero, vivacchiando come un cespuglio prima all’ombra della Quercia di Occhetto e poi dell’Ulivo di Prodi. I consensi si mantennero fra il 2 e il 3% fino alle sciagurate elezioni politiche del 2008, quando il “sole che ride”, partecipe della lista La Sinistra l’Arcobaleno, non riuscì ad eleggere alcun parlamentare. A quel punto, una buona parte del ceto politico che aveva prosperato sotto le insegne dei Verdi abbandonò la formazione per accasarsi nel Partito Democratico, mentre i “superstiti” arrancavano fra un maquillage e l’altro: l’originaria Federazione dei Verdi si trasformò in “Green Italia” in occasione delle europee del 2014 (escamotage che permise alla lista di presentarsi senza raccogliere le firme) e in “Europa Verde” in quelle del 2019. L’eclissi dei Verdi dopo i promettenti esordi è legata soprattutto all’inettitudine della sua “classe dirigente”, fatta di assessori comunali e regionali all’ambiente e di presidenti dei parchi nazionali coinvolti in pratiche clientelistiche e disavventure giudiziarie. Finalmente, nel 2022, ecco “le prime elezioni climatiche della storia”, con il battage mediatico legato alle manifestazioni dei Fridays for Future che ha permesso al “resiliente” portavoce Angelo Bonelli, sopravvissuto ad un decennio di naufragi, di tornare alla Camera a braccetto con Nicola Fratoianni in nome della lotta al “negazionismo climatico” di Giorgia Meloni e soci.
L’ambientalismo moderno prende forma nel Secondo Dopoguerra in Occidente come processo elitario: fra il 1961 ed il 1971 nacquero prima il World Wildlife Fund for Nature su iniziativa del biologo Julian Huxley, (fratello dell’autore de Il Mondo Nuovo), di Godfrey Anderson Rockefeller e della crème dell’aristocrazia europea, poi i Friends of the Earth, gli “Amici della Terra”, che saranno i primi a ramificarsi nei diversi paesi del mondo, infine la più “radicale” Greenpeace, che farà parlare di sé soprattutto per le “azioni dirette”. L’atto fondativo dell’ambientalismo del XX secolo, tuttavia, può essere simbolicamente ricondotto alla pubblicazione del celebre Rapporto sui limiti dello sviluppo del 1972, commissionato dal Club di Roma ad alcuni ricercatori del MIT di Boston, documento nel quale si lanciava l’allarme sulla crescita esponenziale della popolazione e sullo sfruttamento indiscriminato delle risorse, paventando il rischio di un collasso della società industriale nell’arco di cento anni. La sensibilità ecologista diverrà patrimonio delle masse occidentali solo dopo eventi catastrofici come la crisi petrolifera del 1973, l’eccidio di Bhopal, in India, del 1984, quando una nube tossica fuoriuscita da un impianto industriale causò migliaia di vittime o l’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl del 1986. Proprio in quegli anni l’ambientalismo si dotava di articolazioni politiche in grado di condizionare le democrazie occidentali, prima nei più “sensibili” paesi dell’Europa centro-settentrionale, poi negli altri, anche se nella sfera anglosassone i Verdi non sono riusciti a mettere radici nelle aule parlamentari e nelle maggioranze governative a causa dei vigenti sistemi elettorali maggioritari. Oggi partiti “verdi” sono forza di governo in sei paesi dell’Unione Europea: Austria, Belgio, Finlandia, Germania, Irlanda e Lussemburgo. L’ancoraggio “a sinistra” che aveva caratterizzato i primi passi del movimento è venuto meno davanti ad un pragmatico “governismo” che ha preso le mosse proprio dalla Germania, dove i Grünen, che hanno ottenuto il 15% alle ultime elezioni politiche e addirittura il 20% alle europee con storico “sorpasso” ai danni del Partito Socialdemocratico, sono da anni avvezzi ad una certa flessibilità in materia, avendo dato vita anche a maggioranze “Giamaica” con democristiani e liberali nelle amministrazioni locali. Il programma dei Verdi Europei è sovrapponibile a quello della famigerata Agenda 2030, di cui costituiscono una sorta di avanguardia. Sono mesi che ce lo dicono in tutte le salse: la Quarta Rivoluzione Industriale, altrimenti chiamata “Grande Reset” sarà green, e per portare a compimento il progetto servono politici postmoderni che non si lascino irretire dai cascami del Novecento. Quelli dei Verdi sarebbero perfetti, se il popolo bue li votasse: in tutto l’Occidente sono loro il braccio politico del Grande Reset.
Federico dice
A parte il titolo e la frase finale, il resto è tutto vero! Purtroppo se è vero che i verdi maturando diventano rossi, è altrettanto vero che molti rossi invecchiando diventano marroncini se non addirittura neri…
Marco Remotti dice
“Sostenibile” è il nuovo tormentone commercialculturale senza il quale nulla si può fare.