Angelo Serafini
Avanti.it
Si siede nella sua auto e nel momento in cui la mette in moto esplode la bomba che era stata piazzata sotto il sedile, muore così improvvisamente il 6 luglio 2022, Omar Hashi Hassan, il somalo condannato e poi assolto per il delitto Alpi-Hrovatin. L’episodio rende più che mai attuale la vicenda dei due giornalisti a distanza ormai di quasi trent’anni. Infatti se da un lato secondo Repubblica viene già dato per certo che l’omicidio sarebbe da attribuire al rifiuto di pagare il pizzo da imprenditore ai fondamentalisti di Al-Shabab, dall’altro lato la Federazione Nazionale della Stampa Italiana chiede in una nota alla Rai di tenere accesi i riflettori sul caso e tramite l’avvocato Giulio Vasaturo e insieme all’ordine dei giornalisti depositeranno una richiesta alla Procura di Roma per sollecitare le indagini e verificare possibili legami con l’omicidio dei due giornalisti.
“Ho perso 17 anni della mia vita in carcere da innocente”, commentò Hassan all’epoca dell’assoluzione, appellandosi ai giudici di Roma perché non archiviassero “l’inchiesta sui depistaggi che ci sono stati dopo l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin”, che lo avevano portato in carcere sulla base di false accuse. “Non possono proprio archiviare e non far venire fuori la verità”, sottolineò ricordando che di ampi depistaggi si era parlato nella sentenza d’assoluzione emessa dalla Corte d’Appello di Perugia.
Tutto inizia in un giorno di primavera del 1994: Ilaria Alpi e Miran Hrovatin erano appena tornati a Mogadiscio, dopo essere stati nel nord della Somalia per intervistare il sultano Abdullah Moussa Bogor. I due si stavano spostando in auto per la città accompagnati da un autista, e verosimilmente discutevano preoccupati del materiale che avevano raccolto, cioè pericolose testimonianze per cui si poteva anche rischiare la vita. Ma i due non potevano sapere che proprio quel giorno le loro paure si sarebbero avverate. Infatti la loro auto fu improvvisamente fermata e i due furono uccisi a colpi di kalashnikov da un misterioso commando di sette persone. Era il 20 marzo 1994, e oggi dopo ventotto anni le circostanze non sono state ancora chiarite. Chi erano Ilaria Alpi e Miran Hrovatin? Cosa avevano scoperto di tanto scomodo?
La vicenda va inquadrata nel contesto della guerra civile Somala che aveva portato da pochi anni alla fine del regime di Siad Barre (al governo dal 1969 al 1991), e di un’entità statale frazionata tra poteri locali in guerra gli uni con gli altri. Siad Barre era un ex sottufficiale dei carabinieri reali ai tempi del protettorato italiano, poi generale dell’esercito somalo ed infine dittatore dopo il golpe del 1969. Inizialmente il suo governo, caratterizzato da spiccate tendenze autocratiche, era ispirato al marxismo-leninismo, con il passare degli anni però ne mitigò gradualmente l’applicazione per orientarsi ad un socialismo più scientifico che includeva anche idee islamiche. Il paese rimase tuttavia nell’alveo multiforme del terzomondismo, non chiudendosi a nessuna opportunità di alleanze politiche ed economiche, tantochè tra il 1977 e il 1998, ottenne l’appoggio militare ed economico dagli Stati Uniti e dal mondo arabo durante la guerra contro l’Etiopia (guerra dell’Odagen) governata dal Derg e appoggiata dall’Unione Sovietica. Durante i suoi ventidue anni di governo aveva quindi scatenato conflitti sia con i paesi vicini, cioè Etiopia, Kenya e Gibuti (ex Somalia Francese), sia all’interno della Somalia. Nel 1991 un’insurrezione generale costrinse il dittatore all’esilio, e iniziò una violenta lotta tra le varie fazioni politiche e i vari signori della guerra. La fazione principale era il Congresso della Somalia Unita, il principale attore che aveva rovesciato Barre. Nel 1992 viene poi promossa dall’ONU una missione speciale di pace, Restore Hope, guidata in realtà dagli Stati Uniti e a cui partecipavano 16 paesi, tra cui anche l’Italia, il cui principale obiettivo era proprio il Congresso della Somalia Unita.
Ilaria Alpi era una giornalista e fotoreporter che lavorava per il Tg3 e insieme al suo cineoperatore Miran Hrovatin fu inviata in Somalia. Già conoscitrice del paese, vi si era recata diverse volte negli anni precedenti in qualità di reporter di guerra. Così mentre si trova a documentare la missione di pace ONU, parallelamente lavora a una pista, seguendo indizi e testimonianze scottanti che emergevano man mano durante le sue ricerche. Scopre così l’esistenza di un traffico illecito internazionale di armi e rifiuti tossici tra Italia e Somalia, nel quale erano presumibilmente coinvolti anche parti dello stato e dei servizi segreti italiani. Alpi e Hrovatin si recano così a Bosaso, nel nord del paese, dove intervistano Abdullah Moussa Bogor, il cosiddetto sultano del luogo (poiché il paese si trova in una situazione di disgregazione del potere statale con clan e capi locali autoproclamati e non riconosciuti internazionalmente), il quale racconta di una società di pesca italo-somala, la Shifco, proprietaria di alcuni pescherecci donati dallo stato Italiano, che secondo la sua testimonianza, trasporterebbe illegalmente rifiuti tossici nel paese. I due tornano dunque a Mogadiscio e si recano prima nel loro hotel, il Sahafi, e poi con il loro autista, Ali Abdi, si dirigono verso l’hotel Hamana. Ma come sappiamo non ci arriveranno mai.
Le indagini dureranno molti anni e non porteranno a nessuna conclusione vera e propria. Inizialmente viene accusato Omar Hashi Hassan di essere uno dei sette membri del commando di assassini. L’accusa viene supportata da due testimoni oculari: Ali Abdi, l’autista di Alpi e Hrovatin, e un tale Gelle che afferma di aver assistito alla sparatoria. Subito dopo la testimonianza Gelle diventa però irreperibile, e questo sarà uno dei motivi che porterà a considerare inattendibile la testimonianza. Dopo molti anni e diversi ribaltamenti di sentenze, Omar Hashi Hassan viene alla fine scagionato il 19 ottobre 2016, dopo aver scontato 17 dei 26 anni di condanna iniziale, considerato probabilmente solo un capro espiatorio, e viene risarcito dallo stato italiano con tre milioni di euro. Infine il 3 luglio 2017 la procura di Roma chiede l’archiviazione definitiva dell’inchiesta in quanto ritiene impossibile identificare gli assassini e il movente dell’omicidio. Ancora oggi il caso resta irrisolto.
Eppure durante le indagini emergono diversi indizi inquietanti che farebbero intuire un legame tra il duplice omicidio e l’inchiesta sui traffici illeciti. Una delle piste emerse legava il duplice omicidio a quelli di altre due persone: Vincenzo Li Causi e Mauro Rostagno. Vincenzo Li Causi era un uomo del SISMI (servizio segreto militare italiano) per un certo periodo fu attivo presso la struttura di Gladio, operante a Trapani (il centro Scorpione), fu ucciso a Balad in Somalia pochi mesi prima di Alpi e Hrovatin, il 12 novembre 1993. Mauro Rostagno, giornalista ed ex leader di Lotta Continua, fu ucciso a Trapani il 26 settembre del 1988. Questi omicidi sono tutti collegati alla Somalia, infatti secondo quanto dichiarato ai magistrati da Carla Rostagno, sorella di Mauro, il fratello avrebbe visto e filmato l’arrivo di aerei a Trapani, in un aeroporto abbandonato, usato da un gruppo di Gladio, che scaricavano aiuti umanitari, caricavano armi e ripartivano per la Somalia. Alcuni testimoni hanno sostanzialmente confermato l’episodio, inclusa una visita di Rostagno a Giovanni Falcone per raccontargli tutto quello che sapeva. . Per quanto riguarda Li Causi, si sa che operò per il Gladio e che si stava interessando all’operazione Urano, un progetto illegale di smaltimento di rifiuti tossici e scorie nucleari in vari paesi africani, per il quale manifestò crescente preoccupazione, e che probabilmente avrebbe svolto il ruolo di informatore per Ilaria Alpi, come sostengono alcune testimonianze. Ad esempio il maresciallo dei Carabinieri Francesco Aloi, che prestò servizio presso il comando della missione Ibis in Somalia, sosteneva che i due si conoscessero, ed era noto che la Alpi avesse contatti con un uomo del SISMI.
È quindi plausibile che questi omicidi, compreso quindi quello Alpi-Hrovatin, siano stati commissionati da Gladio per evitare che venissero allo scoperto i loro traffici illeciti, grazie ai quali smaltivano illegalmente rifiuti tossici in Africa e in cambio regalavano armi ai gruppi locali, e che fossero coinvolti apparati dello stato profondo e delle istituzioni italiane, e questo potrebbe essere anche uno dei motivi per cui ci sono stati innumerevoli depistaggi e una generale impossibilità nella risoluzione definitiva del caso.
GioCo dice
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