Da quasi tre mesi si trovano sotto sequestro presso l’agenzia delle dogane del porto di Genova 7184 chili di salsa al pesto provenienti dagli Stati Uniti. Le autorità sanitarie hanno disposto il provvedimento dopo aver contestato all’azienda importatrice una violazione dei regolamenti europei sull’etichettatura degli alimenti. Il prodotto presentava infatti la dicitura “100% Imported italian basil Dop – Genovese Basil” corredata dal marchio del consorzio del basilico genovese “dop”, ma risultava lavorato a Bartlett, nell’hinterland di Chicago, dalla Rana Meal Solutions, succursale americana della holding della pasta fresca che fa capo a Giovanni Rana, l’imprenditore entrato nell’immaginario nazionalpopolare dopo aver recitato come testimonial dei suoi stessi ravioli e tortelli in una serie di spot pubblicitari che ha fatto la storia della teledipendenza. Il pesto sequestrato era diretto allo stabilimento di San Giovanni Lupatoto, la cittadina a ridosso di Verona dove ha sede la Pastificio Rana spa, per essere invasettato, etichettato con le scritte e i marchi della discordia e consegnato ai punti vendita francesi e spagnoli della Costco Wholesale Corporation, multinazionale della grande distribuzione operante in quattordici paesi dopo essersi affermata negli Stati Uniti grazie ai prezzi estremamente bassi. Gli avvocati di Giovanni Rana hanno fatto ricorso al Tar della Liguria appellandosi alla genericità degli addebiti e producendo un documento in cui viene ricostruita la storia di questo basilico giramondo. Le cose, dunque, starebbero così: le piante vengono fatte crescere in serre, perlopiù nel Ponente ligure; dopo la raccolta vengono lavorate in loco per dare vita ad una sorta di “pesto-base” che salpa da Genova alla volta, presumibilmente, di New York (la Pastificio Rana è, a detta dei suoi legali, “il maggiore esportatore di basilico DOP a livello mondiale “), subendo un primo processo di surgelazione lungo il tragitto; dalla costa orientale americana la “roba” viene caricata sui camion per essere trasportata nell’Illinois, dove viene amalgamata con gli altri ingredienti; il prodotto rilavorato viene ricaricato su altri camion che riprendono la via di New York, nel cui porto è in attesa un’altra nave pronta ad attraversare l’Atlantico col suo carico di container; alla fine della traversata, il basilico fattosi pesto è di nuovo a Genova, ma non fa neanche in tempo a salutare gli amici che deve ripartire su ulteriori camion verso la Bassa Veronese per essere suddiviso in vasetti; da San Giovanni Lupatoto (quasi tutti i professionisti dell’informazione hanno scritto “San Giovanni Lupatolo” a causa, probabilmente, di una catena di Sant’Antonio di copiaincolla) partono infine nuovi torpedoni di camion in direzione Francia e Spagna, dove il pesto con il “Genovese Basil” termina la sua odissea sugli scaffali dei supermercati Costco. In base all’abc del capitalismo, transnazionale o meno, tutto questo processo deve garantire margini di profitto maggiori rispetto a quelli che garantirebbe una filiera “corta” o relativamente tale. Per essere redditizio, quindi, il basilico deve essere coltivato in serre che consumano una tonnellata di pellet al dì, essere surgelato (almeno) due volte dopo aver subito diversi processi di lavorazione, viaggiare per circa sedicimila chilometri (in linea d’aria) e infine fregiarsi dell’agognata etichetta “Dop”. È la globalizzazione, bruttezza. In Liguria si producono ogni anno circa quindici milioni di chili di basilico destinato all’industria agroalimentare, i due terzi dei quali sono diretti all’estero; mentre la coltivazione in campo aperto, tradizionalmente prevalente a Genova e nella Riviera di Levante, è riservata alla produzione di foglie da consumare fresche, dal secolo scorso il basilico “industriale” viene fatto crescere in grandi serre climatizzate d’estate e d’inverno per garantire un rifornimento continuo alle industrie della filiera. Tale processo è sul punto di diventare antieconomico a causa dell’aumento del costo del pellet (fino al 300%), e diversi imprenditori hanno rinunciato al raccolto invernale già lo scorso anno. Pare che il pesto alla genovese sia fra i prodotti più contraffatti al mondo. E pure questa è la globalizzazione.
GR
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