Marco Di Mauro
Avanti.it
Il primo ministro britannico Liz Truss ha battuto qualche ora fa il primo e ultimo record della sua carriera, rassegnando le dimissioni dopo soli quarantacinque giorni di mandato: il suo è il governo più breve della storia del Regno Unito. A nulla è valsa la sua spudorata fede atlantista, la promessa di una “visione di un’economia a tassazione bassa e alta crescita che trarrà vantaggio dalle libertà della Brexit”, di fronte al deficit del bilancio pubblico e ai sempre più numerosi problemi dell’approvvigionamento energetico il neo-eletto governo Truss si è dovuto arrendere di fronte alla palese ingovernabilità della situazione. Era già chiaro mercoledì scorso, quando è stato messo su quello che l’ormai ex segretaria degli interni Suella Braverman ha definito un vero e proprio “colpo di stato” dei tories contro Liz Truss e il suo entourage. Si doveva votare una mozione del governo che istituiva, a causa delle necessità energetiche, una moratoria sul divieto della pratica del fracking nel territorio della Gran Bretagna, ma poco prima del voto il parlamentare conservatore Chris Skidmore annuncia su Twitter che voterà contro, dichiarandosi “pronto a subire le conseguenze” della sua decisione, e dieci minuti dopo – secondo il Guardian – altre due colleghe della maggioranza, Tracey Crouch e Angela Richardson, gli fanno eco, disertando a tutti gli effetti quello che per il governo Truss diventa, nelle parole in aula del tesoriere Craig Whittaker, un vero e proprio voto sulla fiducia. Soltanto dieci minuti prima la segretaria Braverman – che, per intenderci, era stata la terza persona a ricoprire tale ruolo in sole tre settimane – aveva rassegnato le sue dimissioni dopo che una talpa aveva fatto trapelare una sua “infrazione tecnica delle regole” per aver fatto leggere la bozza del suo piano sull’immigrazione a una terza persona; si è trattato di una copia-carbone accidentale nell’inviare la mail a chi di dovere, si è giustificata la Braverman, affermando pubblicamente di assumersi le proprie responsabilità, a differenza del primo ministro, cui non avrebbe più dato supporto una volta tornata negli scranni posteriori di Westminister. In effetti c’era stata il giorno prima parecchia ruggine nel colloquio tra lei, Liz Truss e il cancelliere Jeremy Hunt, i quali avevano rifiutato il suo piano di contenimento dell’immigrazione, proponendo un regime migratorio liberalizzato come punto “cruciale” per le proiezioni di crescita del bilancio. Alla fine dell’acceso dibattito, la segretaria aveva denunciato l’impossibilità per questo governo di mantenere gli obiettivi sbandierati in campagna elettorale. Eppure qualcosa Liz Truss aveva provato a fare, ma era stato proprio il cancelliere Hunt a rifilarle una cocente umiliazione: fresco di nomina, subentrando al licenziato Kwasi Kwarteng, ha stralciato tutti i punti del piano Truss che prevedeva in primis un significativo taglio delle tasse, riducendo l’aliquota di base dell’imposta sul reddito da 1 penny a 19 pence; il minibudget prevedeva anche l’istituzione di un tetto al prezzo delle bollette, venendo incontro alle esigenze espresse dal movimento Don’t Pay UK. I 43 miliardi di tagli della Truss avevano mandato i mercati nel panico, causando un crollo della sterlina e un aumento del costo del debito pubblico; qui era avvenuto il primo ammutinamento da parte dei parlamentari del suo schieramento e lei aveva cercato di uscirne licenziando il cancelliere Kwarteng e facendolo passare come solo responsabile. Rimessa al proprio posto da Hunt, è finita con l’essere umiliata e sconfessata della sua autorità, e non si è nemmeno presentata in aula all’annuncio dello stralcio totale del progetto di punta del suo governo, venendo derisa in aula dal parlamentare dell’opposizione Keir Starmer. Tornando al mercoledì della discordia, il voto di fiducia è andato come i laburisti, e con loro gran parte dei conservatori, avrebbero voluto: il governo Truss ha perso la maggioranza. Aveva provato a salvare capra e cavoli il ministro dell’economia Graham Stuart, lasciando a bocca aperta i suoi compagni tories con una dichiarazione che, allo stato dei fatti, era suonata ridicola: “Ovviamente questo non è un voto di fiducia” generando un parapiglia nel suo stesso schieramento tra ululati di scherno e schiamazzi, urla e spintoni. In questa triste kermesse da post-democrazia, i conservatori hanno perso la frusta, e i cittadini della Gran Bretagna il governo che avevano eletto.
“Riconosco che, data la situazione, non posso portare avanti il mandato sulla base del quale sono stata eletta dal partito conservatore. Ho quindi parlato con Sua Maestà il Re per informarlo che mi dimetto da leader del partito conservatore. Questa mattina ho incontrato il presidente del Comitato 1922, Sir Graham Brady. Abbiamo concordato che ci saranno elezioni per la leadership da completare entro la prossima settimana. Ciò garantirà che continuiamo a fornire i nostri piani fiscali e mantenere la stabilità economica e la sicurezza nazionale del nostro paese. Rimarrò primo ministro fino a quando non sarà scelto un successore.” con queste parole termina il governo più breve della storia del Regno Unito, reo di aver tentato qualcosa di concreto per l’economia interna del suo paese, dopo aver perso due ministri, Kwarteng e Braverman, e la fiducia di quask tutto il partito con cui era stato eletto. L’instabilità politica sembra regnare nell’Europa post-Covid, in cui i governi faticano ad avere un margine di spazio operativo, indeboliti dal lobbismo delle compagnie private, ormai divenuto parte integrante delle democrazie più dello stesso popolo votante, e dagli apparati tecnocratici sovranazionali, da cui nemmeno la Brexit sembra aver liberato il governo di Londra. Alla cricca globalista servono governi deboli, che massimizzino l’efficacia dell’economia di guerra e delle operazioni emergenziali sempre pronte a dare l’ultimo colpo ai popoli europei. Così anche gli stenti del neonato governo Meloni, del fantoccio atlantista Scholz, di Macron ridotto al lumicino, sono funzionali alla distruzione dell’economia europea, primo passo della terzomondizzazione dell’occidente, base del Grande Reset. E qualunque forma di autonomia, qualunque cenno di sovranità, viene brutalmente represso tra le urla belluine e gli spintoni dei prezzolati che occupano i parlamenti.
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