Marco Di Mauro
Avanti.it
[Disclaimer: questo è un articolo che rispecchia la biografia e le opinioni dell’autore, che se ne assume esclusivamente la responsabilità.]
Sebbene continuiamo a illuderci con la definizione di resistenza, sulla scia della reductio ad praeteritum che è la base di qualunque costruzione ideologica, e i più temerari addirittura scomodino la categoria di anti-sistema, l’inconfessabile verità è che il dissenso alla discriminazione sanitaria che viviamo ininterrottamente dalle none di marzo del 2020 qui in Italia non ha avuto niente a che vedere con nessuna delle due definizioni, giacché si è manifestato come un fenomeno nato vissuto e consumato su un piano mediatico, se non esclusivamente, comunque ben al di sopra di ogni altro aspetto. Lo si vedeva già dai primi mesi, e nulla è cambiato nei due anni successivi, quando personaggi che sui social macinavano milioni di visua, provando a convertire i numeri social in manifestanti agguerriti, si sono trovati davanti deludenti deserti. E qui viene il primo assioma che non piacerà a nessuno: per i tre quarti del ‘popolo della resistenza’ la contestazione non è mai andata oltre lo schermo del cellulare. Cosa per niente da poco: dall’inizio dell’Operazione Covid, i canali della libera informazione hanno avuto un boom di iscrizioni e visualizzazioni, e la censura targata Silicon Valley non ha fatto che rafforzarli nella convinzione che stessero realmente creando problemi al sistema. Convinzione che, a dire il vero, abbiamo avuto tutti, soprattutto il sottoscritto, quando Fanpage arrivò addirittura a finanziare per sei mesi l’infiltrazione nel nostro movimento No Green Pass napoletano della povera Gaia Martignetti, per sputtanare Raffaele Varvara e Comedonchisciotte, il blog per cui scrivevamo all’epoca, provando con l’arte del montaggio a far passare il primo per pericoloso fascista e noi – chi scrive in effetti è onnipresente nel servizio – per degli allocchi; ci sentimmo potentissimi all’epoca, dato che il sistema era arrivato ad attaccarci a tal punto. E invece allocchi lo eravamo veramente, non sapendo all’epoca che Fanpage è l’ultima ruota del carro del sistema e della propaganda di regime, e che quel servizio-farsa (che in effetti non ha dato alcuna rogna a noi, né gloria alla sfortunata Martignetti) non derivava affatto da una nostra riconosciuta pericolosità per il sistema, a siamo stati solo usati di sua iniziativa da una aspirante giornalista come trampolino di lancio per testate più importanti; insomma, carne per il macello mediatico, alla stessa stregua dei poveri subumani che si fanno bullizzare in un qualunque varietà serale. La cosa più grave è che noi ci siamo stati: il sabato successivo tutti i celerini mi fissavano, e il capo della Digos di Napoli si complimentò beffardo “Bella, è la stessa giacca che hai nel video di Fanpage” “Commissà, è l’unica che ho” gli risposi, e compresi un altro assioma fondamentale: nessuno esiste davvero prima che il golem televisivo mostri la sua faccia.
Quanto sarebbe stato tutto più facile se lo avessi compreso due mesi prima, quando con il collega Moravagine eravamo stati a Trieste per documentare le proteste subito dopo la repressione del molo 7: all’epoca quasi venimmo linciati, sia in città che poi in redazione, per le nostre scoperte su Stefano Puzzer, un sindacalista corrotto al soldo del direttore del porto Zeno D’Agostino, che aveva palesemente boicottato con la bugia dei black bloc una reazione indignata di decine di migliaia di cittadini provenienti da tutta Italia alla repressione poliziesca; i suoi sostenitori ci odiavano perché accecati dal personaggio televisivo semplice e bonaccione, e quando gli mostravamo le foto della stessa persona in maglioncino e capelli gelatinati da cuozzo anni novanta alle conferenze in compagnia del sindaco e del direttore del porto, ci cacciavano via; chi aveva invece compreso il boicottaggio operato da Puzzer, ci odiava comunque, perché lui aveva portato la protesta in televisione, e questo era più importante anche della fine del coordinamento No Green Pass di Trieste, uno dei più numerosi e agguerriti d’Italia. L’occhio del Palantir mediatico è tutto, la sola ragione d’esistenza, un bene superiore anche agli esiti concreti e politici della protesta stessa.
Sul piano politico infatti non è stato prodotto nulla di davvero rilevante, capace di dare il minimo fastidio ai criminali che hanno messo la definitiva pietra sopra la costituzione italiana, in quanto le piazze del sabato sono state per lo più sparute – salvo i casi di Trieste, Milano e Torino, come approfondiremo nelle prossime settimane su queste colonne – di mera testimonianza e senza alcun interlocutore politico definito: tristi e spaventate passerelle di questo e quel personaggetto più o meno seguito sui social, “C’è la dittatura!” e giù applausi “Moriremo tutti!” standing ovation. In tutti i movimenti, dai piccoli comitati alle sigle più in vista, hanno regnato l’individualismo e la disorganizzazione. Non si è trattato di proteste vere e proprie, e proprio per questo sono state facilmente fagocitate dall’insaziabile intestino dei pappagalli di regime, che hanno potuto fare di noi ciò che volevano.
L’unico aspetto rilevante quindi è stato quello mediatico. Sulla base di una stima grossolana, calcolata sulla media di utenti e visualizzazioni dei siti e canali più seguiti, sono circa due milioni i cittadini italiani che cercano informazioni al di là della cortina di menzogna tracciata loro intorno dal mastodontico apparato della propaganda di regime. Come gli utenti, anche i canali sono aumentati a dismisura, con più o meno successo, e più o meno qualità. Il dato mediatico è quello fondamentale, niente a che vedere con la politica, come dimostra uno dei canali più seguiti, Byoblu, che da quando è approdato sul digitale terrestre – sfruttando saggiamente la censura di YouTube, salvo poi lasciare che si chiedesse il green pass ai propri dipendenti nell’accedere ai nuovi studi – ha adottato una linea sempre più generalista: ed eccoti là di nuovo Puzzer, che stavolta ha smesso di recitare la parte del buon portuale illuminato dal Signore e può serenamente cantare di no green pass e dittatura col cappello da babbonatale. E poi c’è Telegram, che nella sua massima parte è espressione della miseria comunicativa che è tratto distintivo dei nostri tempi, non di più e non di meno del mainstream. I ritmi di pubblicazione serratissimi necessari a mantenere l’attenzione degli utenti vanno a discapito della qualità dei contenuti, per cui l’effetto più comune è quello del rimpallo su tutti i canali degli stessi contenuti, e anche i canali più rinomati attuano un vero e proprio bombardamento acritico, riducendosi a fare una contropropaganda più che un’informazione di qualità, che dia al lettore tempo e spazio per esercitare il senso critico. Basta dare un’occhiata ai commenti su uno di questi canali per vedere come l’utente medio di ‘libera informazione’ sia altrettanto intollerante e violento del suo omologo mainstream. Con l’unica differenza che, una volta sfogatosi sulla tastiera, crede di aver fatto il suo per contrastare la dittatura sanitaria. E buonanotte.
Ricciardo dice
Spietata autocritica che mi coinvolge pienamente. Quanti, manifestando il proprio dissenso, hanno messo in conto ed accettato alcuna conseguenza personale? Pochi. Buonanotte e buon anno.
Max dice
Quella di chiedere il green pass hai dipendenti e dura da digerire