Giuseppe Russo
Avanti.it
Nel marasma seguito alla dipartita di Ratzinger starebbe per prendere forma l’ennesima riapertura del “caso Orlandi”, dal nome della ragazza scomparsa nel nulla a Roma il 22 giugno del 1983. Ad annunciarlo è stata proprio la magistratura del Vaticano, che in quasi quarant’anni di indagini si era sempre rivelata reticente, inquinando il lavoro degli inquirenti italiani con insabbiamenti e depistaggi, e lo ha fatto all’insaputa della stessa famiglia della ragazza, con un tempismo che pare legato all’attivismo dell’arcivescovo Georg Gänswein, l’ex segretario e “pupillo” di Benedetto XVI il quale avrebbe vergato di suo pugno un memoriale con “tutte le verità” su Emanuela Orlandi. Tali “rivelazioni esplosive” sarebbero state in parte anticipate all’interno del documentario Vatican Girl, trasmesso lo scorso anno sulla piattaforma Netflix. Dopo tre decenni e passa di svolte, marce indietro, chiusure e riaperture, la scomparsa di Emanuela Orlandi viene legata allo scontro consumatosi all’interno delle mura vaticane fra due fazioni, l’una raggrumatasi intorno all’Opus Dei, l’altra vicina alla finanza “laica”, una faida nella quale sarebbe maturato pure l’attentato a Giovanni Paolo II del 13 maggio 1981 (nonché la precoce scomparsa del suo predecessore) e che sarebbe deflagrata per conflitti sulla gestione degli affari della Santa Sede, che era all’epoca il crocevia di operazioni di riciclaggio di denaro sporco. La ragazza venne avvicinata prima da un uomo che le propose di partecipare ad una sfilata di moda e poi da una donna, sparendo nel nulla mentre si recava ad una lezione di musica. Nelle prime fasi della vicenda, il rapimento di Emanuela Orlandi fu rivendicato da emissari che chiedevano la liberazione di Ali Agca, l’uomo che aveva attentato alla vita del papa due anni prima. Successivamente, inquirenti, familiari, amici e conoscenti della ragazza furono bersagliati da una gragnuola di telefonate farneticanti che avevano lo scopo di produrre sempre nuove, improbabili “piste”, mescolando, come nella migliore tradizione delle agenzie di intelligence, gocce di verità a fiumi di menzogne. Quando sulla scena apparve a rivendicare il rapimento l’ancor più improbabile “Fronte di Liberazione Anticristiano Turkesh”, il caso Orlandi venne associato ad un’altra sparizione, maturata nella stessa città appena un mese prima, quella della quattordicenne Mirella Gregori. di cui si erano perse le tracce, fatto appurato in seguito dagli inquirenti, una settimana dopo una visita guidata nel Vaticano assieme alla sua classe, circostanza nella quale era stata scattata una foto che ritraeva la ragazza sorridente accanto a Giovanni Paolo II. Fra i primi ad intervenire per intorbidire le acque sul caso Orlandi ci furono i servizi segreti italiani, che aprirono e fecero immediatamente chiudere la pista della “tratta delle bianche”, pista tornata in auge nel 2012, quando padre Gabriele Amorth tirò in ballo un giro di pedofilia d’alto bordo del quale sarebbero stati promotori i vertici del clero vaticano. Il ruolo della banda della Magliana, per anni enfatizzato dai mass media, appare invece marginale: pur volendo attribuire agli uomini di Renato De Pedis, il boss sepolto nella basilica di Sant’Apollinare per i servigi resi alle alte sfere della Chiesa, la funzione della manovalanza, è chiaro che si tratta di una cosa assai più grande di loro. Una verità inattaccabile su questa oscura ed inestricabile vicenda l’ha detta Papa Francesco, il quale così si rivolse ai familiari della ragazza scomparsa una domenica di dieci anni fa: “Emanuela sta in cielo”, senza fornire ulteriori elementi. Del resto, già nel luglio di quel fatale 1983 i rapitori fecero pervenire, prima al Vaticano (che “archiviò” le prove senza renderle pubbliche) e poi alla stampa italiana un’audiocassetta sul cui lato B erano registrate pianti, urla ed invocazioni di aiuto di una povera ragazza sacrificata prima sull’altare di chissà quali traffici e poi su quello della ragion di Stato.
Lascia un commento