Giuseppe Russo
Avanti.it
Ferdinand Romualdez Marcos Junior, noto come “Bongbong”, ha vinto a mani basse le elezioni presidenziali nelle Filippine. Il conteggio ufficioso e parziale delle schede non lascia spazio a cautele e neanche ad accuse di brogli, piuttosto comuni a quelle latitudini: Marcos ha doppiato la sua rivale più accreditata, la vicepresidente uscente Leni Robredo, ottenendo 31 milioni di voti contro 15.
In uno scenario fortemente polarizzato, agli altri candidati sono andate le briciole: l’ex campione di pugilato Manny Pacquaio, fortemente ostile al presidente uscente Duterte, ottiene la terza piazza con quasi 4 milioni di voti, doppiando a sua volta un altro outsider, il “centrista” sindaco di Manila Isko Moreno.
Convitato di pietra di questa tornata elettorale è stato il presidente uscente Rodrigo Duterte, costituzionalmente impossibilitato a ricandidarsi per un secondo mandato. La sua elezione, 6 anni fa, aveva rappresentato un momento di rottura nella storia politica filippina; primo presidente nativo dell’isola di Mindanao, aveva raccolto i consensi delle masse diseredate degli slum urbani e dei contadini delle aree più povere e periferiche, ma le aspettative in lui riposte sono state in larga parte disattese. La sua “Dutertenomics”, la politica economica portata avanti di concerto con il ministro Dominguez, si è sviluppata all’insegna del liberismo e dell’apertura al capitale straniero, suscitando pure il plauso del World Economic Forum. La tassazione diretta dei redditi bassi è stata azzerata, ma sono aumentate esponenzialmente le accise su diversi prodotti. Molti degli ambiziosi progetti di ammodernamento infrastrutturale sono rimasti sulla carta, ma il governo rivendica comunque di aver realizzato ex novo o riparato 6000 ponti e 30000 km di strade. La presidenza Duterte era nata anche sotto il segno della distensione con i due principali movimenti guerriglieri delle Filippine, gli islamisti del Fronte Nazionale di Liberazione Moro ed i maoisti del Nuovo Esercito del Popolo, ma nel 2017 è maturata una brusca rottura con entrambe le formazioni, culminata nella proclamazione della legge marziale a Mindanao, roccaforte dei separatisti Moro, e nell’allontanamento dal governo degli elementi vicini al Partito Comunista delle Filippine, il braccio politico della guerriglia maoista. Sul piano della politica estera, pur manifestando la volontà di smarcarsi dall’opprimente tutela degli Stati Uniti, Duterte non è andato al di là di caute aperture diplomatiche alla Cina e alla Russia: un bilancio piuttosto magro, ma che segna comunque un’inversione di rotta.
La vera cifra della presidenza Duterte è stata tuttavia l’autoritarismo, manifestatosi nella gestione di due “guerre”, quella alla droga e quella al Covid. Dopo aver promesso di sradicare il traffico e il consumo di stupefacenti in sei mesi, Duterte ha esteso all’intero paese la formula che aveva fatto la sua fortuna politica nella città di Davao, di cui è stato sindaco per 22 anni: esecuzioni extragiudiziali di presunti spacciatori e consumatori, oltre che di ladruncoli e bambini di strada, perpetrate da “squadroni della morte” di poliziotti e militari. Ciò ha comportato l’uccisione di 5000 persone secondo le stime del governo, fino a 20000 secondo quelle di organizzazioni non governative. Nonostante le Filippine siano principalmente terra di transito per gli stupefacenti diretti in Australia, ed il mercato interno sia legato quasi esclusivamente al consumo dello “shaboo”, cristalli di metanfetamina prodotti in piccoli laboratori artigianali, per Duterte la “guerra alla droga” è sempre stata la priorità assoluta. A poche settimane dal suo insediamento, ha toccato il picco della popolarità pronunciando un discorso (“I am sorry for my country”) in cui faceva pubblicamente i nomi di 150 fra sindaci, senatori, governatori, poliziotti, militari e magistrati coinvolti nel traffico di droga. Alla fine, Duterte si è dovuto ridimensionare pure in questo ambito: passati i sei mesi, disattesa la promessa delle promesse, ha riconosciuto di aver “sottovalutato” la questione. Il suo dispotismo da sceriffo si è manifestato anche nella gestione dell’emergenza sanitaria: quarantenista rigoroso e vaccinista della prima ora, Duterte è arrivato a minacciare di arresto i non vaccinati che avessero osato varcare la porta di casa, cioè circa 15 milioni di persone stando ai dati ufficiali. I filippini lo ricorderanno soprattutto per questo.
La storia politica dell’arcipelago asiatico è caratterizzata dalle faide fra clan politico-familistici. Lo stesso Duterte, pur eletto come “uomo fuori dal sistema”, si era appoggiato ad una di queste stirpi, quella dei Marcos, all’ombra dei quali ha consolidato il suo ruolo di vassallo, imponendo la candidatura alla vicepresidenza della figlia Sara, a sua volta eletta plebiscitariamente (nelle Filippine le cariche di presidente e vice sono distinte e sottoposte a distinti processi elettorali). Dallo stesso clan, di matrice “nazionalista”, viene anche il neopresidente “Bongbong” Marcos, figlio di quel Ferdinand Marcos che governò le Filppine col suo “autoritarismo costituzionale” dal 1965 al 1986, un autocrate che aveva tenuto il paese sotto legge marziale per dieci anni, venendo alfine scaricato dagli USA dopo essersi timidamente avvicinato alla Cina. Bongbong è un politico di lungo corso cresciuto sotto la tutela del padre e della madre, quell’Imelda Marcos che divenne “famosa” in Occidente come collezionista di tremila paia di scarpe. Alle passate elezioni aveva corso, formalmente slegato da Duterte, come vicepresidente, venendo battuto da Leni Robredo per meno di trecentomila voti. La sua campagna elettorale è stata puro marketing: gli hanno costruito la fama di personaggio “social” e questo, assieme alle clientele del suo clan, è bastato a determinare la vittoria. Dall’altra parte, la candidata del Partito Liberale Leni Robredo è organica ad un altro clan, quello degli Aquino: il suo defunto marito, di cui ha ereditato il feudo elettorale, era stato ministro del presidente Benigno Aquino III. È a lei, presentata come “attivista per i diritti umani” che andavano i favori del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America, come si evince dal trattamento riservatole da Repubblica e dalle altre gazzette del Pensiero Unico. Si tratta di un elemento da sottolineare: le Filippine sono state “la più antica colonia americana”, il presidente McKinley dichiarò che fu Dio stesso a ordinargli di “istruire e civilizzare i filippini”, e anche dopo la formale indipendenza, nel 1946, lo zio Sam ha continuato a comandare a Manila. In una circostanza, per rendere l’idea, il presidente in pectore “montato” dagli americani, Ramon Magsaysay, fu pubblicamente preso a pugni dal tenente colonnello Edward Lansdale, il plenipotenziario dell’intelligence a stelle e strisce. A livello geopolitico, insomma, questa vittoria di Bongbong può essere interpretata come attestato di ulteriore avvicinamento fra l’arcipelago e la Cina. Anche per l’approvigionamento vaccinale, fu a Pechino che Duterte si rivolse. Se l’alleanza dovesse cementarsi sul piano militare, Taiwan ne uscirebbe inesorabilmente circondata. Qualcosa di nuovo sul fronte orientale: scricchiola uno storico avamposto degli Stati Uniti.
Lascia un commento