Ora che è stata inumata la salma di Bruno Astorre, il senatore del PD che si era tolto la vita il 3 marzo scorso, l’oblio può compiutamente inghiottire la sua figura e la storia oscura della sua morte. Questa tragedia, maturata a poche ore dalla vittoria di Elly Schlein alle primarie, ha preso mediaticamente corpo nel segno delle contraddizioni: dapprima, si è parlato di un generico “malore” di cui sarebbe stato vittima Astorre mentre si trovava nel suo ufficio senatoriale, circostanza nella quale i primi ad assisterlo sarebbero stati Nicola Zingaretti e Cecilia D’Elia, e solo nel tardo pomeriggio è stata condivisa la versione del suicidio. Astorre si sarebbe lanciato dal quarto piano di palazzo Cenci, un edificio in dotazione al Senato nel centro di Roma, senza lasciare lettere o biglietti e senza che il suo gesto avesse testimoni, né umani e né elettronici, in un’area della capitale che pullula di telecamere. In serata, gli organi di stampa hanno corroborato la tesi scrivendo che la Procura di Roma aveva aperto un fascicolo per “istigazione al suicidio”. Solo a partire dal giorno successivo alla sua morte, invece, è trapelata la notizia che il senatore avesse già tentato il suicidio qualche settimana prima, e sempre dallo stesso palazzo; avrebbe per l’occasione pure escogitato una gabola per restare solo e non essere fermato com’era accaduto la volta precedente. La giornata fatale era iniziata per Astorri nel segno della consuetudine: aveva fatto qualche telefonata e concesso un’intervista in cui aveva parlato delle prospettive del suo partito all’indomani del successo schleiniano. Egli era un navigato politicante di estrazione democristiana che s’era fatto le ossa nelle palazzine della provincia e della regione prima di approdare al palazzone del Senato. Pur avendo operato lontano dalle luci della ribalta, Astorre era il tipico “pezzo grosso” del Partito Democratico, uno che tiene in pugno voti, tessere e uomini incistati negli apparati statali, parastatali e affini. Insomma, uno sul cui conto dovrbbe valere la pena di indagare, se non altro per la scelta di togliersi la vita in un ufficio del Senato nel centro di Roma e non in luoghi più discreti, se è vero che la sua ultima premura era stata per la riservatezza. E invece, nulla: dopo un pugno di biografie tutte uguali, Bruno Astorre è sparito dalle prime pagine e pure da quelle successive, almeno fino al funerale della settimana scorsa, quando tutto s’è ridotto a un trafiletto quasi imbarazzato: “oltre duemila persone per l’ultimo saluto”, “perdonaci per non aver capito il tuo dolore”, “domani avrebbe compiuto sessant’anni”. Alla prossima, gli dedicheranno una piazza nella sua Colonna, nei Castelli Romani, o magari una viuzza nella capitale. Un senatore ha lasciato questo mondo lanciandosi da uno dei palazzi del potere in una mattinata feriale senza essere visto e senza neanche fare troppo chiasso mediatico. La sua vicenda finisce nell’archivio senza fondo dei misteri della repubblica, relegato in qualche marginale cunicolo. E morirono tutti felici e contenti.
GR
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