Agli antipodi succedono cose dell’altro mondo. In quella Nuova Zelanda da poco orfana di Jacinda Ardern, il ciclo di incontri pubblici della femminista (atipica) Kellie-Jay Keen-Minshull, altrimenti nota come “Posie Parker”, si è concluso anzitempo a causa della mobilitazione degli attivisti “arcobaleno”, e la donna è stata costretta a lasciare il paese. Da un anno a questa parte, la Parker è impegnata in un giro del mondo mediatico-politico al fine di promuovere le sue battaglie: opposizione al riconoscimento legale dei transgender, esclusione degli atleti “in transizione” dallo sport femminile, proibizione delle terapie ormonali per il cambio di genere ai bambini. La sua storia di “femminista anti-trans”, com’è stata etichettata, partì con una campagna di comunicazione che diffuse nel 2019, prima a Liverpool e poi in altre città britanniche, manifesti con la definizione di donna quale adult human female, “femmina umana adulta”. Come da copione, l’iniziativa scatenò polemiche e dibattiti pseudopolitici, e i manifesti vennero ritirati dopo i ricorsi presentati alle corti giudiziarie dai movimenti per i diritti dei trans. Dopo essere diventata un personaggio pubblico nel Regno Unito, soprattutto in virtù della solidarietà ricevuta dalla scrittrice Joanne Rowling, l’autrice di Harry Potter che era già incappata nella censura trans, Posie Parker si è lanciata alla conquista dell’America, esportando oltreoceano il modello che tanto successo aveva avuto in patria: “eventi” con poche decine di partecipanti, perlopiù pittoreschi motociclisti neonazisti, che innescano contromanifestazioni dell’attivismo gay, trans e “antifa”, che a loro volta coinvolgono qualche altra decina di guerrieri arcobalenici. Questa guerriglia culturale per pochi intimi mobilità però folle starnazzanti nell’universo social, permettendo ai cialtroni mediatici di sguazzare nel pantano che si viene a creare. L’apoteosi di questo circo s’è avuta in Nuova Zelanda, dopo che già il tour australiano della Parker aveva riproposto l’usuale canovaccio. Al momento dell’ingresso nel paese, il solito nugolo di associazioni si era attivato per impedire il rilascio del visto alla femminista britannica, considerata in punta di diritto una “minaccia per l’ordine pubblico” poiché promotrice di “odio verso le persone trans”. Il magistrato che si è occupato del ricorso ha dichiarato di condividere le preoccupazioni dei ricorrenti sul pericolo rappresentato dalla Parker, ma di essere stato costretto a respingerlo per ragioni “tecniche”, lasciando quindi che l’eretica violasse il suolo neozelandese. Al primo incontro di Auckland del 24 marzo si è scatenato il putiferio: in diverse centinaia si sono radunati all’Albert Park con tamburi e trombette per impedire a Posie Parker di parlare, e quando lei è salita sul palco il più attivo degli attivisti le ha versato addosso della salsa di pomodoro. Mentre la polizia se la portava via per evitare che fosse linciata, i suoi supporter (cioè i soliti motociclisti coi tatuaggi nazisti) si sono scontrati coi manifestanti “buoni”, i quali non solo hanno vinto, ma sono pure andati a disturbare un’altra manifestazione di tenore analogo che si teneva in una piazza vicina su iniziativa della Destiny Church, una setta pentecostale fondamentalista guidata da un reverendo-showman che porta il nome di Brian Tamaki. Alla fine della giornata campale, mentre arcobaleni sorgevano in ogni dove, la Parker ha pensato bene di annullare l’incontro dell’indomani a Wellington e lasciare alla chetichella la Nuova Zelanda. Per una decina di giorni non s’è parlato d’altro che della corretta definizione di “donna”. Interrogato in proposito nel corso di una conferenza stampa, il primo ministro neozelandese Chris Hipkins ha detto che non si aspettava la domanda e poi si è espresso così: “le persone definiscono la propria identità di genere da sole”, sottolineando alla fine che anche lui trova “ripugnanti” le posizioni della Parker sulla “comunità trans”. Hipkins era stato prima ministro della sanità e poi ministro della “risposta al Covid” nel governo di Jacinda Ardern, della quale ha poi preso il posto alla guida del governo e del Partito Laburista a partire dallo scorso gennaio; nonostante si fosse costruito la fama di integerrimo sceriffo anti-Covid, una sorta di Speranza dell’altro mondo, la sua ascesa ai vertici ha lasciato fredda la stampa, che paragonandolo alla Ardern l’ha valutato come goffo e inadeguato: soprannominato “Chippy”, pare che la sua passione siano i sausage rolls, ipercalorici rustici ripieni di salsicce. Di suo, la cara Jacinda ha deciso dove andrà a fissare i suoi artigli dopo aver abbandonato la politica. In un’intervista concessa ad un canale televisivo particolarmente vicino alla sua causa, Jacinda Ardern ha annunciato che entrerà, su nomina diretta del principe William, nel consiglio di amministrazione del Prince William’s Earthshot Prize, organismo che ha in progetto di erogare borse di studio milionarie per “salvare il clima”. Al contempo, sarà sarà inviata speciale della Nuova Zelanda all’interno del Christchurch Call, ente fondato da lei stessa dopo le stragi del marzo 2019, quando 51 persone morirono per mano di un terrorista islamofobo che fece irruzione in due moschee a Christchurch, terza città del paese, trasmettendo le immagini in diretta su internet. Il Christchurch Call riunisce governi e fornitori di servizi web quali Meta, Twitter e Youtube con lo scopo di “eliminare i contenuti terroristici e di estremismo violento online”: Jacinda ha detto che per questa nobile causa lavorerà gratis. Nell’intervista di cui sopra, l’ex premier ha pure raccontato degli aneddoti che fanno capire come si stia manifestando l’affetto del suo popolo da quando ha annunciato il ritiro: le hanno offerto una tazza di tè, un tale le ha passato un bigliettino in aereo chiedendole di andare avanti, la sua casa è sempre piena di fiori inviati da ammiratori sconosciuti e persino i bambini gli scrivono letterine di affetto e tenerezza. Cose dell’altro mondo.
GR
Lascia un commento