Giuseppe Russo
Avanti.it
Oltre che per la dilagante astensione, il 12 giugno sarà ricordato per il collasso della Lega e del Movimento 5 Stelle, le due forze che, dando vita al governo “giallo-verde” nel 2018, sembravano sul punto di stravolgere l’assetto politico nazionale.
Salvini è stato umiliato due volte: la prima dopo il fiasco referendario, la seconda, a distanza di poche ore, dopo lo spoglio delle elezioni comunali. Il Carroccio è stabilmente dietro Fratelli d’Italia nelle preferenze, subendo il sorpasso anche in quelli che erano i suoi tradizionali serbatoi di voti lombardo-veneti, ottenendo pesanti batoste laddove governava con suoi esponenti, come a Lodi. Il simbolo “Prima l’Italia”, lanciato in alcune realtà meridionali, non è andato male, ma il “salvinismo” come pratica politica non funziona più. Mentre naufraga la nave del “Capitano”, chi prenderà il suo posto si interroga su come salvare il salvabile. Più che la fantomatica federazione con Forza Italia, appare plausibile un ritorno alle origini “nordiste”.
Il Movimento 5 Stelle ha fallito anche nell’accreditarsi come principale “cespuglio” del PD. Fatta eccezione per qualche isolata realtà in Campania o in Sicilia, le liste pentastellate hanno ottenuto risultati fra il 2 ed il 5%, riuscendo ad eleggere appena una manciata di consiglieri. Il tour di Giuseppe Conte è stato controproducente: bersagliato da pesanti contestazioni ad ogni tappa, l’ex due volte premier è apparso ridicolo come un Napoleone senza esercito. La lista “Con Te” a Rieti ha preso l’1%. I “meet up” non esistono più da anni. La maggioranza degli onorevoli non paga neanche più le quote mensili. Al massimo, il limone a 5 stelle potrà essere spremuto in una sola altra occasione, per rastrellare per l’ultima volta qualche voto di oltranzisti del reddito di cittadinanza alle politiche dell’anno prossimo. Dopo, c’è solo l’implosione con esisti paradossali: mille colonnelli che rivendicano un’identità di pura fuffa. I più svegli sapranno accasarsi per tempo sotto l’accogliente ombrellone del PD.
Il Partito Democratico ha vinto, per inerzia, queste elezioni comunali. In tutti i capoluoghi risulta la prima o la seconda lista più votata, primeggiando quasi sempre fra quelle strettamente “politiche”. . I suoi candidati hanno strappato importanti avamposti agli avversari, ed al ballottaggio del 26 la lista si potrebbe allungare con Parma, Piacenza e Alessandria (molto probabili), mentre il colpaccio appare possibile a Verona, dove l’ex calciatore Damiano Tommasi, approfittando delle divisioni nel centrodestra, ha ottenuto a sorpresa quasi il 40% al primo turno, e persino a Monza e Frosinone, dove pure il centro-destra è nettamente in vantaggio. Il PD, con la sua instabile stabilità, funge da imprescindibile centro di gravità permanente. I tentativi di dare vita ad aggregazioni al “centro” o “a sinistra” rispetto al suo corpaccione non hanno avuto gli esiti sperati, pur strappando qualche risultato incoraggiante, come a Piacenza e Carrara per quel che riguarda la “sinistra” (con coalizioni che comprendevano anche i 5 Stelle), a Palermo, Alessandria e L’Aquila per il “Centro” a trazione calendista o renziana.
Pur sconfitto, il centrodestra nel suo insieme non subisce una disfatta. Da un lato, stravince a Palermo, ponendo fine a quasi quarant’anni di “orlandismo”; dall’altro, conferma i sindaci uscenti in ex roccaforti “rosse” come Genova, La Spezia e Pistoia, (e lo stesso dovrebbe accadere nell’ex “Stalingrado d’Italia” Sesto San Giovanni, dove pure è previsto il ballottaggio). La bancarotta leghista pesa su tutta la coalizione soprattutto al Nord, dove, a parte i già citati casi liguri, è una debacle: fra i capoluoghi, il centrodestra vince al primo turno solo ad Asti, mentre a Como, quando mancano tre sezioni da scrutinare, è addirittura fuori dal secondo turno. Fratelli d’Italia è quasi dappertutto la lista più votata, ma nelle corse solitarie ha ottenuto magri risultati, come a Parma e Catanzaro. Forza Italia galleggia prossima ad eclissarsi, mentre quelli che furono i suoi voti confluiscono in liste civiche sponsorizzate da questo o quel cacicco. I destini della coalizione sono legati alla legge elettorale: coesistenza più o meno obbligata col maggioritario, ognun per sé in caso di nuova legge proporzionale.
Infine, alle elezioni amministrative del 12 giugno hanno concorso anche diverse forze, alcune all’esordio assoluto, che si richiamano alla cosiddetta “opposizione costituzionale”. ItalExit di Paragone ha ottenuto un risultato mediamente dignitoso, ma il “boom” che gli attribuivano alcuni sondaggi non s’è visto proprio. Le candidature “unitarie” di Genova, Palermo e Parma non hanno prodotto l’esito sperato: il solo Crucioli, candidato nel capoluogo ligure, è stato eletto consigliere comunale, mentre Francesca Donato a Palermo è stata superata anche dalla candidata di Potere al Popolo! Rita Barbera e Adorni a Parma ha ottenuto poco più dell’1%. Dignitoso anche il risultato di Andrea Colombini a Lucca, assai meno quelli delle liste presentate a Padova e Pistoia. Il Movimento 3V, che pure aveva ottenuto rappresentanti alle ultime consultazioni, regge intorno al 2% solo a Padova, in Emilia-Romagna e nelle Marche. Nelle altre realtà in cui i 3V si sono presentati, sono andati nettamente sotto l’1%. I tempi insomma non sono maturi per partecipare alle elezioni: l’improvvisazione non porta da nessuna parte. Ci sarà occasione di riparlarne su queste pagine.
Il 12 giugno si è chiuso un ciclo. Le due forze che alle ultime politiche avevano ottenuto la maggioranza assoluta dei voti sull’onda del malcontento di massa oggi rappresentano, ad essere generosi, un decimo dell’elettorato. La Lega (quantomeno nella sua versione salviniana) ed il Movimento 5 Stelle non servono più come strumenti di distrazione di massa, come specchietti per le allodole, come guardiani dei cancelli. Nel Palazzo credono di aver riassorbito la ferita “populista”. Nel paese reale, intanto, prende corpo un disenso che non sarà possibile comprimere in gabbie elettoralistiche.
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